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I decreti emanati di concerto dai ministri Damiano e Padoa Schioppa e che
dettano le modalità operative di attuazione dell’ultima cosiddetta riforma
previdenziale entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno, evidenziano
nel concreto - se mai ce ne fosse stato il bisogno - quali siano i reali
obiettivi che si stanno perseguendo.
In primo luogo non si può non rilevare come il semestre "concesso" ai
lavoratori per esprimere il loro rifiuto a vedersi sottrarre la liquidazione
a favore di un prodotto finanziario (tali e non altro sono i cosiddetti
fondi pensione) si riduce "per legge" a soli 5 mesi. Infatti e nonostante
quanto erroneamente riportato da autorevoli organi di informazione, il
decreto prevede una moratoria per chi avesse espresso la propria volontà su
modelli "faidatè" prima della pubblicazione del decreto, solo nel caso in
cui questa volontà fosse consistita nell’adesione ad un fondo (ma guarda un
po’ !).
In secondo luogo il compito di fornire i moduli ufficiali - gli unici
utilizzabili per legge - è demandato al datore di lavoro. Ma il datore di
lavoro che omettesse questo obbligo non incorrerebbe in alcuna sanzione.
Nella sostanza una scelta fondamentale per la vita e il futuro delle persone
è affidata al puro e semplice "buoncuore" e al "senso civico" di altri.
Ma l’aspetto più illuminante è quello che norma l’espressione della volontà
dei nuovi assunti.
Da oggi, il lavoratore che intende tenersi la liquidazione è obbligato ad
ogni cambio di lavoro a ribadire questa sua scelta. Le espressioni della sua
volontà precedenti verranno azzerate ogni volta. In compenso sarà
sufficiente una sola dimenticanza - per esempio su un’assunzione a termine
di quattro mesi, per perdere per sempre il diritto alla liquidazione.
Queste sono le "regole", un vero e proprio percorso di guerra costellato di
trappole e campi minati per aggirare la reale volontà dei lavoratori, niente
affatto abbacinati dagli specchietti per le allodole messi in campo per
convincerli della bontà dei fondi.
Quanto dureranno, infatti, regime fiscale agevolato, detrazione sui
versamenti e le stesse quote datoriali previste nei contratti collettivi,
dopo che i lavoratori avranno aderito ai fondi senza alcuna possibilità di
ripensarci ?
Lavoratori niente affatto convinti, nonostante la gazzarra massmediatica che
la "grande armada" dei sostenitori dei fondi ha scatenato.
Non ultimo dobbiamo assistere al richiamo della Corte dei Conti a mettere
mano nuovamente alle pensioni.
Richiamo tanto eterodiretto quanto singolare.
La spesa previdenziale non incide in alcun modo sul bilancio dello Stato (se
non per le fiscalizzazioni - ovvero le regalie concesse dallo Stato ai
datori di lavoro) e, anzi, sono i soldi dei lavoratori che manlevano il
bilancio dello Stato dell’intera spesa assistenziale.
Se, come è vero, i conti dell’Inps non sono mai andati in rosso, questo
ossessivo richiamo a ridurre la spesa pensionistica non ha nulla a che
vedere con i conti pubblici, ma mira solo a "liberare" risorse per le
imprese, spostandole dal costo del lavoro al profitto.
Il teorema è semplice : riduciamo i costi, liberiamo risorse e queste
verranno impiegate in investimenti e nuova occupazione.
Il teorema è vecchio : è lo stesso che ha giustificato le politiche di
moderazione salariale e gli accordi concertativi dei primi anni ’90. Il
teorema è falso : gli unici risultati che ha prodotto sono stati
l’impoverimento dei lavoratori e i profitti di pochi saliti alle stelle.
Cara Corte dei Conti, ai lavoratori, i conti non tornano, i lavoratori hanno
già dato.
Comitato per la difesa della pensione pubblica e del TFR
Messaggi
1. DECRETI TRF : L’ENNESIMO IMBROGLIO, 20 febbraio 2007, 09:13
Sistema previdenziale, occorre una riforma autentica
di Ettore Davoli (Cobas INPDAP) ·
Da diversi decenni, ormai, la discussione sulla spesa pensionistica tiene periodicamente banco sulle prime pagine dei giornali e forma argomento di dibattito e di contrasto tra le parti sociali di questo paese.
Negli ultimi anni, il sistema previdenziale è stato oggetto di riforma a più riprese e ad intervalli sempre più ravvicinati (tanto che ogni governo ormai vara la sua “riformina”) sempre e solo nell’ottica di un ridimensionamento, più o meno accentuato, dei trattamenti pensionistici dei lavoratori dipendenti.
Ed ogni volta il discorso viene ripresentato con i consueti catastrofismi e con i soliti appelli alla “solidarietà generazionale”, stimolando uno strumentale senso di colpa verso le generazioni prossime, che verrebbero fortemente penalizzate nel caso malaugurato che i lavoratori attuali non si sacrificassero per loro..
Attualmente la partita si svolge sul terreno dello spostamento di risorse verso i Fondi pensione integrativi. La riforma del TFR del governo Prodi costituisce un passaggio dirompente a favore di questo spostamento.
Essa, infatti, rovescia la salvaguardia del rendimento garantito dei contributi TFR (proprio per i giovani ed i neo – assunti che a parole si dice di voler “proteggere”) a favore di un investimento nei Fondi affidato ai parametri variabili ed incerti legati al mercato finanziario.
Questo cambiamento costituisce, insieme al rovesciamento effettuato dalla riforma Dini del 1995 per il sistema di calcolo da retributivo a contributivo, un caposaldo del processo di ristrutturazione del sistema pensionistico.
Come lavoratori che operano, direttamente o indirettamente, nel settore previdenziale, abbiamo molte perplessità su questo argomento e siamo spinti a fare un ragionamento che non si basi su difficili proiezioni statistiche o formule matematico – economiche, di difficile comprensione e che non sempre si prestano ad interpretazioni univoche.
Proprio l’insistenza con cui pervicacemente si continua a voler dimostrare che la carenza di risorse per il sistema previdenziale è causata dalle numero e dall’ ammontare delle pensioni attualmente pagate, ci convince di partire proprio da questi due capisaldi (sistema contributivo e fondi pensione).
Facciamo una ipotesi su un lavoratore “medio”, la cui retribuzione oggi si aggira intorno ai 1200 €uro mensili.
Per quanto riguarda il TFR, egli, dopo 35 anni di lavoro, con il sistema tradizionale verrebbe a percepire, a conclusione del rapporto di lavoro, una somma di circa 60.000 €uro.
Paragoniamo ora questa cifra con quanto riceverebbe se per lo stesso periodo di 35 anni egli avesse versato i suoi contributi TFR ad un Fondo pensione, come previsto dalla riforma..
In una ipotesi ottimistica, in cui il Fondo gli garantisca un buon rendimento, alla fine della sua vita lavorativa, il lavoratore percepirebbe circa 130 € mensili di rendita vitalizia.
Per arrivare ad ammortizzare (cioè a vedersi restituita), con questa rendita, l’importo che avrebbe ricevuto con il TFR “tradizionale”, il lavoratore dovrebbe vivere, dopo il collocamento in pensione, la bellezza di altri 37 anni.
Se consideriamo un lavoratore che per esempio va in pensione a 60 anni, che è ormai il minimo per raggiungere i 35 anni di contribuzione, dovrebbe arrivare all’età di 97 anni.
Consideriamo ora l’aspetto che riguarda i contributi previdenziali. Lo stesso lavoratore, dopo i suoi 35 anni di contribuzione, avrebbe versato circa 240.000 €uro totali. Calcolando la sua pensione con il sistema conributivo, così come prevede a regime la mega-riforma Dini, anche in questo caso, solo per riprendere il capitale costituito dai contributi versati, senza alcun interesse, egli dovrebbe vivere per almeno 30 anni dall’inizio del pensionamento.
Questo ragionamento quasi banale nella sua semplicità ci porta a concludere che tutti gli argomenti e le tesi che hanno sostenuto e sostengono le tesi “riformiste” per il sistema previdenziale nascondono solo una colossale trappola tesa ai lavoratori, un imbroglio che ha il solo scopo di prelevare risorse finanziarie, vuoi per ripianare i conti pubblici, vuoi per favorire le varie forme di previdenza assicurativa privata.
Occorre una riforma vera, un capovolgimento del concetto che la spesa previdenziale sia la causa principale del deficit pubblico. Questo è determinato da fenomeni patologici ben più gravi dal punto di vista morale e molto più ingenti dal punto di vistas quantitativo.
L’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, ormai accertate in termini di svariate centinaia di miliardi di €uro ogni anno, le malversazioni e gli sprechi legati alle collusioni del mondo politico con settori affaristici di pochi scrupoli, il sovraccarico dell’assistenza pubblica sostenuto sempre e comunque dai contributi dei soli lavoratori dipendenti sono solo alcuni degli aspetti che regolarmente vengono sottaciuti e che soprattutto ci si guarda bene dall’affrontare in termini seri e decisivi.
Una autentica riforma del sistema previdenziale non può che partire, al contrario di quello che sai fa usualmente, dalla constatazione che esiste una sovrabbondante moltitudine di pensionati che percepiscono pensioni al limite ed al di sotto della soglia della miseria, le quali sono state l’unico obiettivo da attaccare per chi sostiene che sia necessario risparmiare sulla spesa previdenziale.
Occorre constatare anche che, allo stesso tempo, esiste una fascia quantitativamente non trascurabile, di pensioni “d’oro” che invece costituiscono un pozzo senza fondo che assorbe, per gli importi che vengono pagati, la maggior parte delle risorse che queste riforme-imbroglio pretendono di salvaguardare.
Si pensi a quanti parlamentari, magistrati, professori universitari, primari e dirigenti sanitari, dirigenti di ministeri e uffici pubblici, dirigenti bancari, alti ufficiali delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine, dirigenti di partito o di organizzazioni sindacali e altre categorie simili ricevono pensioni esorbitanti rispetto alla media percepita dagli altri lavoratori.
Per ciascuno degli appartenenti a queste categorie non si va mai al di sotto di 5000 €uro mensili di pensione, ma per le categorie più privilegiate si raggiungono soglie di diverse decine di migliaia di €uro, sempre mensili, anche per effetto di cumuli di pensioni per funzioni svolte in diversi settori (ad esempio il passaggio Banca d’Italia à Parlamento à Governo à Presidenza della repubblica – vi ricorda qualcuno?).
Si deve anche considerare che queste personalità, in genere, dopo il pensionamento continuano a ricoprire altre cariche o a svolgere funzioni di “consulenza” presso enti pubblici e privati, che gli forniscono altro reddito aggiuntivo.
Una personalità di questo tipo può arrivare, per esempio a percepire 36.000 €uro di pensione mensile. Che sproporzione con le 100 pensioni sociali che sarebbe possibile pagare con la stessa somma!!
Abbiamo calcolato che gli appartenenti a queste categorie di pensionati, chiamiamoli agiati, non sono meno di 1.500.000. Lasciamo a chi legge il divertente calcolo sulla spesa che queste pensioni comportano.
Una riforma che si proponga di razionalizzare ed economizzare nella spesa previdenziale, quindi, non dovrebbe prescindere da queste considerazioni. Essa dovrebbe proporsi due obiettivi:
da un lato di ridurre l’evidente squilibrio tra quanto viene destinato alla fasce più numerose di lavoratori pensionati, alzando il tetto minimo della pensione erogabile, tetto che potrebbe essere fissato a 1000 €uro, che è la somma generalmente considerata come soglia al di sotto della quale si appartiene alla fascia di povertà;
dall’altro incidere decisamente sull’ammontare della spesa globale, costituendo un tetto massimo inderogabile alle pensioni più privilegiate, con un limite fissato ad esempio a 5000 €uro, somma già ampiamente sufficiente a garantire un alto tenore di vita
Solo a queste condizioni potrebbe essere opportuno “aprire” il sistema alla previdenza integrativa, lasciando la totale libertà di aderirvi, specie a coloro che hanno retribuzioni che glielo consentono.
In altre parole, in presenza di una garanzia data dall’applicazione di una soglia minima per le pensioni, assicurata anche a quelle categorie che a causa della discontinuità della loro attività (precari) o perché soggetti a processi di ristrutturazioni e licenziamenti non possono costruirsi attraverso la contribuzione “normale”, tant’omento con quella integrativa, una pensione dignitosa, non ci sarebbe ragione di opporre ostacoli a chi, godendo di un reddito adeguato, decidesse di investire nei Fondi integrativi, per costruirsi una trattamento pensionistico per mantenere il proprio tenore di vita.
Stando ai progetti che circolano, invece, i ceti meno privilegiati rischiano ancora una volta di essere l’obiettivo principale ed esclusivo delle manovre “riformatrici”. Chiediamo perciò alle forze politiche e sociali a cui questi ceti fanno riferimento, ceti che formano la parte preponderante del blocco sociale che le sostiene, di prendere posizione su queste proposte e di agire conseguentemente nelle sedi e nei tempi più opportuni perché esse vengano in qualche misura prese in considerazione.