Home > DIARIO DELLA CRISI FINANZIARIA Giovedì 06 dicembre 2007

DIARIO DELLA CRISI FINANZIARIA Giovedì 06 dicembre 2007

Publie le venerdì 7 dicembre 2007 par Open-Publishing
1 commento

Se c’era qualche dubbio sull’esattezza della diagnosi dell’economista statunitense Paul Krugman, che, è utile ricordarlo sosteneva che i banchieri e la miriade di altri soggetti che popolano il mercato finanziario USA e quello globale “appaiono veramente terrorizzati, perché si sono improvvisamente accorti che non capiscono il complesso sistema finanziario che hanno creato”, quello che sta accadendo in queste convulse giornate provvede con grande evidenza a fugarli.

Mentre, infatti, pochi sembrano ritenere che la nuova ricetta di Henry Paulson, che come nel bel romanzo di Mack Reynold, Effetto domino, propone di tornare là dove tutto è iniziato, nell’immenso mercato da 11 mila miliardi di dollari dei mutui immobiliari statunitensi, disinnescando, attraverso un opportuno congelamento delle condizioni, la mina rappresentata da quegli infernali marchingegni che promettevano tassi molto bassi nei primi due-tre anni, per poi passare a tassi ben più elevati nelle decadi successive, cominciano a vacillira significativamente i due pilastri semipubblici rappresentati dal gigante Fannie Mae e il suo ben più piccolo rivale Freddie Mac.

Fannie Mae, che finanzia o garantisce un quinto dei mutui residenziali statunitensi, ha annunciato un taglio dei suoi ormai improbabili dividendi a partire dal primo trimestre del prossimo anno ed è alla ricerca un po’ affannosa di denaro fresco, mediante l’emissione di azioni privilegiate per 7 miliardi di dollari, una goccia per un’entità finanziaria che presenta un attivo, per quanto traballante, superiore ai 2.400 miliardi di dollari, con il mercato che non ci ha pensato due volte e ha abbondantemente venduto le azioni di Fannie e, tanto per non sbagliare, ha alleggerito anche le proprie posizioni lunghe su Freddie.

E’, peraltro, diventato difficile tenere dietro alla raffica di profit warning, downgrade incrociati (a solo titolo di esempio, Goldman Sachs ha abbassato le valutazioni di buona parte del listino finanziario statunitense ed è stata a sua volta degradata da un’altra rinomata casa d’affari), mentre risparmiatori ed investitori istituzionali, non sapendo bene che pesci pigliare, vendono un po’ di tutto, facendo abortire sul nascere quel tentativo di recupero delle quotazioni di banche e finanziarie seguito alle speranze accese dalle parole molto accomodanti di Ben Bernanke e dal piano di Paulson.

Il duello tra J.P. Morgan-Chase e Goldman Sachs, una sfida condotta a colpi dei dossier dei rispettivi analisti, chiarisce, peraltro, una volta di più che, qualunque sia l’esito finale di questa crisi finanziaria, non vi sono più dubbi che si andrà ad una semplificazione, a colpi di acquisizioni, della struttura alquanto variegata che si colloca al vertice del sistema finanziario statunitense.

Al pari del piano di Paulson, anche il recente rally del dollaro sembra già esaurirsi e riprende il rafforzamento dello yen (che in realtà aveva dato buona prova anche nelle sedute precedenti) nei confronti della valuta statunitense ed anche l’euro si sta riaccostando, nonostante gli sforzi delle banche centrali, a quota 1,48 dollari, un fallimento di rimbalzo che, come sa chiunque abbia dimestichezza del mercato valutario, potrebbe preludere a nuovi test della soglia psicologica degli 1,50 dollari e dei 105 yen.

Come già scrivevo nell’articolo del 3 settembre scorso che ha dato l’avvio al diario della crisi finanziaria, la vera incognita, oltre alle immense dimensioni della finanza strutturata, era rappresentato dalla capacità delle banche centrali di gestire un passaggio difficilissimo e disseminato di colli di bottiglia soprattutto sul piano della liquidità, o meglio della illiquidità, presente nel mercato interbancario.

E’, a questo proposito, realmente sconvolgente scoprire oggi che autorevoli esponenti delle istituzioni preposte a vario titolo, in Gran Bretagna, alla sorveglianza dei soggetti del mercato finanziario britannico si erano incontrati il 9 agosto, il giorno del maxi intervento della BCE, ed avevano già pianificato il da farsi nel caso, poi verificatosi, dell’insorgere di gravi problemi in una banca da loro sorvegliata.

L’inefficacia e la tardività degli interventi nel caso della Northern Rock sono ormai storia, ma si apprende solo ora che la totale garanzia dei depositi della banca sull’orlo del fallimento era solo teorica, in quanto solo in questi giorni è stato raggiunto un accordo sulla tutt’altro che irrilevante questione della tecnicalità sottesa all’eventuale esecuzione della garanzia sbandierata ai quattro venti in quelle infuocate giornate di settembre e che servì a diradare quelle chilometriche file di clienti impegnati nel loro disperato tentativo di riprendersi i loro risparmi.

Sempre in Gran Bretagna, ormai anche i giornali popolari aprono le loro edizioni sulle preoccupazioni per le conseguenze sul costo delle rate dei mutui indicizzati derivanti dalla nuova impennata dei tassi di interesse sul mercato interbancario, un rialzo che tocca peraltro anche la scadenza estremamente sensibile del mese alla quale, ancor più che a quella atre mesi, sono indicizzati la maggior parte dei mutui variabili, le carte di credito revolving ed altre forme di finanziamenti indicizzati, con la parte relativa ai soli mutui che potrebbe mettere in serie difficoltà 1,5 milioni di famiglie britanniche.

L’allarme lanciato dal commissario alla concorrenza dell’Unione europea, Neelie Kroes non ha certo aiutato la situazione, anche per la vaghezza di riferimenti sulle due banche coinvolte, lasciando agli operatori ed ai risparmiatori l’arduo compito di individuare l’identità delle due banche citate, il che ha, a sua volta, prodotto ribassi un po’ indiscriminati che hanno, in particolare colpito le banche francesi, ma non hanno risparmiato i colossi del credito di altri paesi europei.

Mentre siamo tutti in attesa, e non sarà breve, di un’articolazione operativa della proposta di sorveglianza creditizia sopranazionale avanzata da Tommaso Padoa Schioppa, segnalo che, come è già accaduto questa estate, alla opposizione tedesca si sono è già accodata la maggior parte dei new comers della UE.

Mentre fervono le iniziative di commemorazione di Enrico Cuccia, la principale delle quali è stata officiata da Cesare Geronzi, credo che sarebbe di pubblica utilità la ristampa del documentatissimo libro di Fabio Tamburini dedicato al banchiere scomparso ed intitolato Un siciliano a Milano, per i tipi dell’editore Longanesi.

Marco Sarli

Responsabile Ufficio Studi UILCA

www.uilca.it

Messaggi

  • DIARIO DELLA CRISI FINANZIARIA

    Giovedì 13 dicembre 2007

    Dopo essersi affannati per alcune settimane a pesare le percentuali di possibilità riservate alla recessione statunitense prossima ventura, gli operatori del mercato finanziario globale possono confrontarsi con il primo report di una banca globale basata negli Stati uniti che, non utilizzando più i se ed i ma, affonda chiaramente il problema e prevede per l’anno prossimo una, seppur lieve recessione di quella che è stata per decenni la locomotiva del pianeta e che rimane lo sbocco possibile per la maggior parte delle merci asiatiche ed europee al di fuori dei rispettivi confini di area.

    In un articolo dal titolo di per sé inquietante, Recession Coming, Richard Berner e David Greenlaw, economisti di Morgan Stanley ma non per questo da considerarsi automaticamente embedded, affermano che, a causa degli effetti della più grave crisi finanziaria degli ultimi sessanta anni, allo sciopero degli investitori farà con ogni probabilità seguito il ben più temibile sciopero dei consumatori più consumatori del mondo, le voraci cicale statunitensi che saranno costretti a mettere il silenziatore al frenetico zip zip delle loro micidiali carte di credito revolving che, seppur in attesa della conferma statistica, sono caratterizzate da un outstanding che ormai sfiora i mille miliardi di dollari.

    L’isterica reazione di un mercato azionario statunitense ormai chiaramente dominato dagli investimenti delle corporations di ogni ordine e grado al terzo taglio dei tassi sui Fed Funds e alla quarta riduzione del tasso ufficiale di sconto dal 9 agosto scorso è comprensibile solo alla luce della percezione sempre più diffusa che l’effetto domino abbia ormai caratteristiche inarrestabili, in quanto basato sull’attacco frontale a due questioni cruciali per le famiglie statunitensi e che sono rappresentate dall’abitazione e dalla disponibilità sempre più scarsa di credito abbondante e poco caro.

    L’ira degli investitori è accresciuta dal dispositivo della sentenza emessa ieri dal FOMC della Federal Reserve, che, nell’annunciare la riduzione del tasso sui Fed Funds dal 4,50 al 4,25 per cento e quello del TUS dal 5 al 4,75 per cento, rende noto per la prima volta che, per la Fed, i rischi di un contagio della crisi finanziaria alla economia reale USA sono ben maggiori dei rischi di inflazione, anche se i componenti del Board hanno ben chiaro che l’effetto congiunto dei prezzi delle materie prime e del valore esterno del dollaro sui prezzi al consumo sarà tutt’altro che trascurabile.

    E’ però importante comprendere che la maggiore delusione degli investitori, e segnatamente delle banche, non è stata tanto legata alla misura del taglio sui Fed Funds, quanto per quella del tasso al quale le banche possono rifornirsi dalla banca centrale di quella liquidità ormai merce realmente rara, dando peraltro in cambio titoli dal sempre più dubbio valore, snobbando l’evidente considerazione che, dopo una lunga permanenza al 6,25 per cento, il taglio di questo tasso su un’operazione in passato utilizzata in rarissime occasione è sceso di 150 punti in base in soli quattro mesi, una riduzione che supera quella effettuata sui Fed Funds di ben 50 punti base.

    La notazione sul ruolo delle aziende sull’andamento dei tre listini principali negli USA non è basata su un semplice sospetto, in quanto, solo in base ai programmi di buy back deliberati da società industriali e finanziarie, il volume di fuoco di cui dispongono le aziende è tale da riuscire a condizionare fortemente l’andamento giornaliero degli scambi ed i relativi valori, così come è ovvio che il momento migliore per realizzare i programmi di acquisto deliberati è quello nel quale i corsi risultano particolarmente depressi.

    Se si pensa, poi, all’utilità per i piani di stock options dei top manager della contrazione del capitale sociale derivante dal buy back, con l’automatico innalzamento del livello del ROE, si comprende meglio la diffusione massiccia di questa opportunità di ridurre la massa di azioni in circolazione.

    A coronamento del lungo dibattito sul modo di operare delle locuste, denominazione molto in voga per descrivere quei club per super ricchi che sono i private equity, giunge una notizia di carattere congiunturale e a fornirla è un addetto ai lavori, David Rogers, che sostiene che: “i fondi che si sono sempre limitati a guadagnare con l’ingegneria finanziaria soffriranno nei prossimi anni. Molti di loro genereranno guadagni inferiori alle aspettative degli investitori, per cui saranno forse costretti ad uscire dal business o forse non riusciranno più a raccogliere capitali”.

    Ovviamente, l’esperto in questione proviene dal mondo delle locuste e dà la colpa della situazione attuale ai subprime che, mettendo in crisi l’intero comparto della finanza strutturata, hanno svelato al mondo intero una verità che era nota in genere ai soli addetti ai lavori e che consiste nel fatto che dietro alle mirabolanti scalate che hanno dominato le cronache finanziarie degli ultimi anni non vi erano i soldi investiti dai ricchi in questi fondi, ma un micidiale mix di credito bancario (poco) e di titoli emessi a copertura totale o parziale delle acquisizioni (tanto), meccanismo che, a partire da luglio, si è inceppato ed ha costretto le banche a rischiare i propri soldi ed a chiedere tassi più elevati e maggiori garanzie alle incredule locuste per troppo tempo abituate ad ottenere dollari a decine di miliardi con poco più di un giro di telefonate a banchieri felici di essere stati prescelti.

    Citigroup ha finalmente un nuovo amministratore delegato nella persona dell’indiano Vikram Pandit, nato 50 anni fa a Bombay e già capo della divisione investimenti alternativi di Citi, ed un nuovo presidente, sempre scelto in casa, l’inglese Sir Win Bishoff, già capo delle operazioni europee della multinazionale statunitense del credito, mentre l’esausto Robert Rubin è finalmente tornato al suo remuneratissimo ruolo di nullafacente, un ruolo ben più adatto a chi ha speso una vita ai vertici di Goldman Sachs e si è anche dovuto sobbarcare la fatica di essere, per qualche anno, il ministro del Tesoro ai tempi della presidenza di Bill Clinton.

    Come era largamente prevedibile dopo il disastro legato alle vicende della finanza strutturata, il presidente di UBS verrà presto messo alla porta e non sono in pochi a ritenere che anche l’amministratore delegato del colosso svizzero del credito, Marcel Rohner, lo seguirà su questa triste strada a stretto giro di posta.

    Marco Sarli

    Responsabile Ufficio Studi UILCA