Home > DIBATTITI : Questioni di resistenza
Dal 25 luglio 1943, la maggioranza degli italiani che era e sarebbe potuta restare grigia, cercando di cavarsela come poteva, fu investita dallo scontro nel paese e nel mondo. E dopo l’8 settembre tenersi da parte non fu materialmente possibile. Insomma, dal 1943 al 1945, l’Italia cambiava e, chi più chi meno, raggiunse l’antifascismo o almeno in esso sperò
La resistenza fu un sollevamento spontaneo di popolo o un’azione minoritaria dai partiti? E poi, fu un movimento contro l’occupazione tedesca o una guerra civile?
ROSSANA ROSSANDA
La cautela delle parole pronunciate dalle istituzioni il 25 aprile ha dimostrato come non sia archiviabile questa data: essa tocca il presente, è un passato che non passa. E non solo fra gli eredi di quelle che furono le parti avverse, ma anche fra gli antifascisti, ai quali ha posto le sole questioni storiografiche serie. La prima delle quali è se la resistenza fu un sollevamento spontaneo di popolo o un’azione minoritaria costruita dai partiti; la seconda, se fu un movimento contro l’occupazione tedesca o una guerra civile. La prima tesi nasce fin dalla guerra nella «resistenza rossa», specie in Piemonte e in Lombardia, che si sente tradita dalle scelte del Partito comunista. E’ stata ripresa sul nostro giornale anche da Augusto Illuminati nel commento al saggio di Valerio Romitelli. Ed è da sempre, anche se in forma più articolata, la convinzione di Luigi Cortesi, ora aggiornata di molteplici documenti in Nascita di una democrazia (Manifestolibri, 2004). La seconda, e in parte collegata, è stata posta dal libro di Claudio Pavone, Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991) nel corso della polemica fra storiografia comunista e non comunista su chi ebbe l’egemonia in quegli anni, e poi nella successiva ricerca e memoria storica.
Una storia diversa
Le code politiche delle due tesi, naturalmente semplificate, sono evidenti. Se la resistenza è stata una spinta spontanea di massa frenata dai partiti, la storia avrebbe potuta andare assai diversamente e si può addossare al Pci la colpa di avervi rinunciato per obbedienza al dettato staliniano, che non voleva turbare gli accordi siglati a Yalta; oppure ritenere che il Pci l’abbia cavalcata per perseguire dopo il 1945 la bolscevizzazione del paese. Analogamente, se si è trattato di una resistenza all’occupazione tedesca, che promulgava all’interno l’azione alleata nella guerra mondiale, nessuno dalla parte fascista potrebbe rivendicare pari dignità nel ricordo. Mentre se si è trattato d’una guerra civile, fortemente connotata da uno scontro di classe, proverebbe un sovversivismo mai spento della sinistra popolare italiana, permeata di comunismo e nemica della democrazia.
In ambedue i casi suonano un po’ ipocriti gli appelli alla riconciliazione fra i figli ed eredi, perché eludono la ricostruzione storica (senza la quale non c’è memoria da condividere, più convincente è la proposta assolutoria dell’oblìo) e alludono pesantemente al fatto che uno dei contendenti di allora andrebbe escluso dall’arco democratico oggi. Come era stato un tempo con il Msi e come oggi il centrodestra auspicherebbe con i partiti che sono stati o si dicono comunisti. Quest’ultima è l’inclinazione attuale (dai libri di Veneziani o Pansa e in genere del noltismo indigeno, a quasi tutta la fiction storica della Rai, quale che ne sia la qualità).
Le manifestazioni del 25 aprile di quest’anno sono andate anche contro questa tendenza, favorita da un governo che accoglie gli eredi del fascismo e una Lega i cui accenti troverebbero d’accordo Farinacci o Starace e si arrestano solo sulla soglia dell’antisemitismo per la vigilanza delle comunità ebraiche.
In tema di ricostruzione storica, il libro di Luigi Cortesi merita che ci si ritorni anche fra noi. E’ convincente che un grande movimento popolare, spontaneo e con una connotazione nettamente di classe, sia sorto nel 1943, abbia rappresentato la resistenza del biennio 1943-1945 e sia stato frenato dal Pci per il personale moderatismo di Togliatti e/o per obbedienza a Stalin? E’ vero che esso corrisponderebbe anche ai protagonisti di una lotta interna nel Pci, rispecchiato da Luigi Longo, Pietro Secchia e Mauro Scoccimarro, contro l’ala moderata dei Roveda, Amendola e Togliatti?
Una posizione comune
Non è la stessa controversia che ha opposto la storiografia comunista a quella di Giustizia e Libertà, che ha accusato la prima di aver messo in luce soltanto le brigate Garibaldi e offuscato le altre, dai movimenti attorno a Giustizia e Libertà ai liberali di Pierluigi Bellini delle Stelle, ai cattolici attorno ai fratelli Di Dio. Su questo punto sembra si sia raggiunta una posizione comune, della quale testimonia anche il Dizionario della resistenza. Luoghi, formazione, protagonisti e Storia e geografia della Liberazione (Einaudi 2001), il lavoro d’insieme ad oggi più completo. Al Partito comunista si riferì in effetti la rete più forte fra i combattenti in montagna e in città, ma non fu la sola tendenza; e le differenze ci furono non solo nell’impostazione ma nella tattica. Si aggiunga che recente è la ricerca sulla resistenza di alcuni settori dell’esercito, fino a poco fa trascurati anche per il fastidio dei partigiani di fronte al dileguarsi delle forze armate come tali l’8 settembre; basti fare i nomi di Giorgio Rochat e di Mario Isnenghi.
La pluralità delle forze resistenti ridimensiona la tesi di una resistenza essenzialmente rossa. Si può dare una rivolta democratica o nazionale contro un regime autoritario e disastroso, che per di più aveva trascinato il paese in guerra. Mi pare difficile dare natura di classe anche a un episodio di massa come quello di Cefalonia o, come ricordava D’Agostino, alle quattro giornate di Napoli cui seguiva nel 46 un voto favorevole alla monarchia. Lo stesso discorso, forse un po' più complesso, vale per la Repubblica dell'Ossola, uno degli episodi maggiori della resistenza, presieduta dal cattolico Piero Malvestiti. O per le azioni coordinate da Tina Anselmi. Non tutta la resistenza fu dunque «rossa».
Ma come avrebbe potuto esserlo, rossa e spontanea, in un paese dove il fascismo durava da vent'anni, non veniva da un colpo di stato ma dalla crisi generale (per usare l'espressione di Gramsci) seguita alla prima guerra mondiale, aveva tagliato la leadership e ogni possibilità di espressione alle sinistre? E inoltre, nei confronti di una classe media incerta aveva favorito l'appeasement e l'indifferenza piuttosto che una politica invasiva di reclutamento? Il totalitarismo spoliticizza più che mobilitare. Così almeno fu in Italia, aiutato dalla forza repressiva e dal non vedersi, per gran parte degli anni Venti e per tutti i Trenta, nessuna praticabile via di uscita. Questa si vide solo con la seconda guerra mondiale; dovrebbe far pensare che in Spagna, dove la repressione era stata più feroce e recente, ed enorme era la diffusione dei partiti, non ci fu sollevazione perché abilmente Franco non era entrato in guerra, e gli alleati glielo consentirono.
Calcoli non appassionanti
Sotto questo profilo, i calcoli di Renzo De Felice su una maggioranza di italiani che sarebbe stata fascista e una minoranza antifascista, non mi sembrano appassionanti. I processi di spoliticizzazione e silenzio sono lunghi e contorti, quanto possono essere rapide le prese di coscienza sotto una situazione cogente, che porta a cercare collegamenti organizzativi e ideali, insomma a un fondamentale mutamento delle soggettività, sotto l'incombere della guerra.
A mio parere anche il rapporto fra spontaneità e ruolo dei partiti che improvvisamente possono rientrare in scena va visto attraverso questa griglia: c'è un legame non semplice fra memoria, intollerabilità della situazione, opportunità e spontaneità nel rivoltarsi di un popolo. L'insieme di questi fattori investe e travolge la zona grigia che la repressione ha creato, a sua volta non riducibile a una vocazione opportunista.
Dal 25 luglio 1943, la maggioranza degli italiani che era e sarebbe potuta restare grigia, cercando di cavarsela come poteva, fu investita dallo scontro nel paese e nel mondo. E dopo l'8 settembre tenersi da parte non fu materialmente possibile. Insomma, dal 1943 al 1945, l'Italia cambiava e, chi più chi meno, raggiunse l'antifascismo o almeno in esso sperò.
Questo determina anche i fini dei resistenti. Tutte le forze in campo si prefiggevano un cambiamento più radicale di quel che ci fu nel 1945; tutti trovarono pesante la continuità dello stato, durata fino agli anni Settanta. Ma non tutti collegavano il fascismo al «grande capitale», come suonava il libro, che allora fu formativo, di Daniel Guérin, né auspicavano una rivoluzione socialista. Questa differenza non impedì la radicalità della lotta e delle sue forme. E neppure incise sul fatto che fosse percepita anche come una guerra civile, cioè non soltanto contro l'occupazione ma contro chi ci aveva portato ad essa. Si può persino osservare che certe forme di lotta, per esempio gli attentati, furono proposte nel Cln non sempre e non tanto dai comunisti quanto da altri. Ma su questo Claudio Pavone ha detto tutto.
Una zona di resistenza rossa
Resta la domanda su come si forma una zona di resistenza rossa in senso proprio. Credo si possa dire che essa ha un'ossatura operaia, anche se non sono soprattutto gli operai a raggiungere le formazioni armate in montagna. Ad essi si aggiunge una più vasta frangia giovanile inquieta, che si è spesso formata negli ultimi anni Trenta, e in cerca di maestri e di idee, oltre che di collegamenti. E' innegabile che li trova soprattutto nel Partito comunista e in una Giustizia e Libertà dagli accenti allora assai più radicali di quelli che avrebbe avuto in seguito.
D'altronde lo stesso appartenere a una formazione partigiana determina e sviluppa una coscienza politica, ed è ovvio che le sinistre, la loro storia e il loro patrimonio teorico esercitino un richiamo più forte. Sarebbe se mai da chiedersi quale fosse in quegli anni la coscienza di muoversi in uno scenario mondiale. Per quel che può valere una personale memoria, mi sembra che non ci sfuggisse il fatto che da noi sarebbero arrivati gli alleati anglosassoni piuttosto che le truppe sovietiche. Nel 1943 erano stati gli americani a sbarcare in Sicilia e da allora furono loro e gli inglesi a risalire la penisola. Non ricordo neppure che facesse problema: significava soltanto che «la nostra lotta», come si chiamava la testata di Eugenio Curiel, la sola che parlasse del domani, si sarebbe decisa in ambito nazionale. Entro che limiti qualcuno pensò a una rivoluzione socialista coincidente con la liberazione?
In conclusione, credo che sia poco proponibile un quadro nel quale un popolo spontaneamente si solleva, dopo anni di silenzio, per dar luogo a una resistenza classista, che poi il Partito comunista finisce col limitare. Il processo di formazione non è così lineare. E quindi neanche il rapporto fra un sussulto morale e la crescente appartenenza ai partiti.
Non appartiene allo stessa problematica la questione che periodicamente viene sollevata sulla lotta interna nel Partito comunista. Questa ci fu e sicuramente oppose chi, nella divisione del mondo e nell'esito impressionante dell'Europa dell'est dopo il 1948, perseguì una «democrazia avanzata» o «progressiva», intrisa di gramscismo, e chi recepì la spartizione dell'Europa come un momento tattico, obbligato dal rapporto di forze mondiale, che sarebbe stato superato grazie a un conflitto fra gli alleati e l'Urss, magari in seguito a un colpo di stato reazionario.
Complessità del «Partito nuovo»
Questo dilemma, del quale non so valutare l'ampiezza effettiva del seguito, fu risolto a favore dei primi non tanto da un'obbedienza a Stalin quanto dalla stessa forza e complessità del «partito nuovo» nella situazione specifica dell'Italia e del dopoguerra. La storia si può fare anche con i «se», ipotizzando una rottura dello schema di Yalta attraverso l'unificazione dei partigiani di Tito, italiani e francesi. Non mi sembra che ce ne fossero le condizioni; avrebbe presupposto un collegamento, nonché una liquidazione di vivi nazionalismi, molto lontani dalla realtà. E se si aggiunge che questo avrebbe dato luogo a una guerra civile assai più lunga e necessariamente a uno schiacciamento sul blocco sovietico, non mi pare a distanza che sarebbe stato un esito molto augurabile.
Quel che è certo è che la divisione all'interno del Pci non è rappresentata da una sinistra favorevole all'ipotesi insurrezionale e classista, che sarebbe stata di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro e Pietro Secchia, avendo come controparte Togliatti. Dall'occupazione delle fabbriche seguita all'attentato di Pallante a Togliatti nel 1948, Luigi Longo non si separa dalla linea togliattiana; la conferma nella svolta del 1956 e, fin che può, del 1968. Mauro Scoccimarro conta poco nel Pci dagli anni50 in poi. Resta problematica la sola figura di Pietro Secchia, molto amato dalla sinistra esterna al Pci, meno da chi stava all’interno. Il diario di Secchia costruisce questa immagine di sé, ma egli non prese una posizione diversa né nel 1948, né fece una battaglia nel 1956. Avrebbe poi attaccato la Cina nel 1960 e non appoggiò nessuna sinistra, tantomeno il movimento studentesco nel 1968 e la grande mobilitazione operaia nel 1969. Più tardi avrebbe avuto contatti con un settore armato, ma senza parteciparvi. Se la sua posizione politica concreta si identifica nel tentativo di costruzione di un piccolo partito interno e parallelo, in vista di un colpo di stato avversario e con collaboratori del calibro di Giulio Seniga - come a me sembra - non è difficile capire come Togliatti possa averne avuto facilmente ragione.




