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Dai «no» metalmeccanici nascono tante domande

Publie le domenica 14 ottobre 2007 par Open-Publishing

La crisi della rappresentanza e la rottura con la politica si erano già espresse nelle assemblee dei giorni scorsi. La solitudine operaia non è un’invenzione della Fiom che ha scelto di stare con la sua gente.

Un milione e mezzo di dipendenti, appena un po’ di meno del passato. Se si aggiungono i dipendenti delle aziende artigianali si arriva quasi a due milioni di lavoratori.
I metalmeccanici, per dirla in breve, rappresentano il più importante comparto dell’industria italiana. Ma non tutte queste tute blu sono raggiunte dall’azione di Fim, Fiom e Uilm: soltanto un milione di metalmeccanici e metalmeccaniche sono sindacalizzati.

Infatti, ai referendum contrattuali di categoria il calcolo della partecipazione al voto viene fatto su un milione di «aventi diritto». Se nella consultazione sul protocollo del 23 luglio si fosse fissata la stessa area di riferimento - le aziende con un sia pur minimo collegamento con i sindacati - la percentuale dei no sarebbe passata dall’attuale 53% a più del 60%.
Nei commenti a caldo si è spesso stabilito un rapporto diretto tra l’indicazione di voto data dalla Fiom e la vittoria, sia pur di misura, del no tra gli oltre 600 mila metalmeccanici che hanno votato. E’ una considerazione solo parzialmente vera. Il risultato della consultazione negli stabilimenti Fiat smentisce questa semplificazione, a Mirafiori come a Pomigliano, e soprattutto a Melfi. Ovunque, nelle fabbriche di Marchionne, la bocciatura del protocollo ha percentuali oscillanti tra il 70 e il 90% e i numeri dei «no» sono doppi e in qualche caso tripli dei voti raccolti dalla Fiom alle elezioni per il rinnovo delle Rsu.
Ciò vuol dire che nello stabilimento lucano, per fare l’esempio più eclatante, contro l’accordo si sono espressi anche gli operai che avevano votato Fim, Uilm, Fismic, o addirittura per l’Ugl. Diciamo che quasi tutti, a Melfi, hanno votato «no».

Ciò non vuol dire che l’appartenenza sindacale non conti nulla, ovviamente. Vuol dire che il gruppo dirigente allargato della Fiom ha il polso della situazione ed è in grado di interpretare correttamente i sentimenti di chi cerca di rappresentare. E non è poco, dovrebbero rifletterci in corso d’Italia al momento di aprire un confronto politico con i metalmeccanici.

Nel ’95 le cose andarono diversamente: la Fiom si espresse a favore della riforma Dini sulle pensioni, che invece gli operai bocciarono. Fu l’occasione per il sindacato allora diretto da Claudio Sabattini - con l’assemblea nazionale di Maratea - per ridiscutere linea e strategia politica e scegliere la strada dell’indipendenza sindacale, un passo oltre l’autonomia. In sostanza, da quel momento in poi la Fiom ha sempre scelto in relazione ai contenuti, in difesa delle condizioni materiali dei lavoratori, a prescindere dal quadro sindacale generale e dal quadro politico. Perché non ci sono governi amici.

Che nelle grandi fabbriche metalmeccaniche avrebbe stravinto il no era prevedibile, i risultati erano scritti nell’andamento delle assemblee. Semmai, non era prevedibile un isolamento così forte di questa categoria rispetto all’insieme dei votanti. Un dato su cui riflettere. Ha ragione Rinaldini), nel leggere i risultati, a escludere differenze significative per aree territoriali - in Piemonte e in Campania o in Basilicata i «no» oscillano tra il 67 e il 78,65% - o per generazioni: a Mirafiori dove c’è una classe operaia molto anziana e a Cassino dove l’età media è di 28 anni si viaggia tra il 76 e più dell’80% di no. Le differenze semmai riguardano le dimensioni dell’impresa: nelle piccole aziende hanno vinto i sì, nelle piccolissime non sindacalizzate e dove non si sono tenute assemblee i «sì» hanno addirittura stravinto.

Ma cosa c’è dietro quella valanga di no nelle grandi fabbriche? C’è rabbia, prodotta da condizioni di lavoro troppo pesanti, una fatica svenduta perché i salari sono vergognosamente bassi, come ammette persino Montezemolo. C’è l’incazzatura di chi vede confermata la scelta di premiare sempre più le imprese a scapito dei lavoratori, le rendite a detrimento dei salari. C’è la delusione delle aspettative riposte nella fine del regime di Berlusconi e nell’avvento di una stagione «meno antioperaia».

Da qui viene il distacco dalla politica, figlio di una solitudine sempre più amara di chi sente svalorizzato il suo lavoro. Solitudine rispetto alla sinistra, da cui ci si aspettava qualche segnale di inversione di tendenza. E solitudine rispetto allo stesso sindacato che rischia di essere identificato come parte dell’odiato ceto politico. E’ la crisi della rappresentanza, vissuta tanto più fortemente quanto più dure sono le condizioni di lavoro. Si incazzano i vecchi operai a cui viene scippata la pensione e si incazzano i giovani a cui, oltre alla pensione futura, vengono scippate la sicurezza e il futuro. Giovani che alla catena di montaggio sono costretti a fare gli straordinari per passare da 1.100 a 1.200 euro al mese: sentono di perdere la gioventù, il senso stesso della loro vita, per un salario da fame. La loro vita e il loro lavoro non trova più albergo nelle politiche di quella che una volta veniva chiamata sinistra e dalla prossima settimana si chiamerà Partito democratico
Sbaglierebbe chi pensasse che dietro ogni «no» si nasconda una protesta di sinistra. Alla resistenza culturale di chi ha alle spalle una lunga esperienza politica e sindacale nella Fiom, o l’ha ereditata dal compagno di lavoro meno giovane, si aggiunge una rabbia generalizzata. Qualcuno ha scritto che al nord, berlusconiani e leghisti avrebbero aiutato il risultato del «no». I dati della consultazione smentiscono questa tesi. E’ molto probabile invece che una qualche influenza sia arrivata dal «grillismo» La solitudine non fa bene a nessuno, fa regredire culturalmente prima che politicamente. Gli operai non sono di per sé né di destra né di sinistra, è altro a determinarne la collocazione (qualcuno ricorda Karl Marx?). In una situazione sociale, com’è la fabbrica, gli operai sono disposti a qualsiasi cosa pur di difendere il più debole, il più giovane, l’immigrato. Fuori, in un territorio desertificato dalla crisi della politica, potrebbero anche firmare appelli per cacciare dai loro quartieri gli zingari.

Se queste considerazioni hanno un senso, il voto sul protocollo va preso sul serio, i segnali vanno raccolti, alle domande di tutela e di rappresentanza va data una risposta. Ci rifiutiamo di credere che si tratti di un problema solo per la Fiom.