Home > Dal PD a Cini: tutti senza aggettivi

Dal PD a Cini: tutti senza aggettivi

Publie le lunedì 27 ottobre 2008 par Open-Publishing

Dal PD a Cini: tutti senza aggettivi

di Marco Sferini

Può essere che i miei sensi mi ingannino, ma ho letto, visto e sentito come una certa fretta - anche da parte della stampa e dei pochissimi organi di informazione della sinistra - nelle parole e nei pronunciamenti di varii commentatori sulla riuscita della manifestazione del Partito democratico. Una fretta ispirata da un corteggiamento verso Veltroni ora, verso la parte più cattolica poi, o verso le anime inquiete di questo carrozzone liberale e centrista che pure fa breccia in ancora una larga parte del popolo che fu del PCI. Corteggiare oggi per definire meglio domani magari abboccamenti, alleanze e, chissà, magari pure nuovi ingressi. Non c’è dubbio che la manifestazione romana del PD sia stata grande, di popolo, con tanti giovani ma anche con tanti anziani: tra le foto che ho visto una mi è rimasta impressa nella mente. Un signore dai capelli bianchi con un cartello rosso al collo e sopra scritta la frase: "So’ Partito democratico, ma so’ rimasto communista!". Con due emme romanesche e con un bel punto esclamativo.

Ora, questa curiosa invenzione fraseologica la si potrebbe leggere in due modi: primo, il Partito democratico è nuovo, moderno, ma ha un cuore comunista; secondo, un cenno critico, una stigmatizzazione sul fatto che poi essere democratici non vuol dire molto e, quindi, per riempire un vuoto ideale e culturale si può anche mantenere un originario spirito anticapitalista.

Il PD non rappresenta più una istanza politica neppure timidamente socialista. Ha radici cattoliche e laiche: in lui convivono lo spiritualismo laico mazziniano di Repubblicani Europei di Luciana Sbarbati e l’intransigente opusdeismo della senatrice Binetti. Ma ha perso qualunque riferimento esclusivo al mondo del lavoro. In quanto partito progressista moderato, il PD di Veltroni ha finito col dichiarare chiusa ogni esperienza che potesse fare riferimento ad un conflitto di classe, in un tempo in cui la disperazione economica non cementa gli interessi comuni ma fomenta acidi egoismi, erige steccati di individualismo e si nutre della malapianta della paura, della xenofobia.

Non è una questione di mere simbologie, di apparenze dettate dalle candidature paritarie dell’operaio scampato alla tragedia della ThyssenKrupp e di Matteo Colaninno o di Calearo. E’ proprio una sostanzialità che è a fondamento della costruzione di un soggetto che oggi rifiuta persino l’aggettivazione di "interclassista". La rifiuta perché nega l’esistenza stessa delle classi sociali e si affida all’economia di mercato così come farebbe George Soros per gestire i suoi cumuli di denaro, la sua speculazione borsistica.

Con una differenza: Soros una decina di anni fa scrisse per il settimanale "Avvenimenti" una piacevole introduzione non alla "Ricchezza delle nazioni" di Adam Smith, bensì ad un piccolo libercolo di 30 pagine che, ci dicono le più recenti fonti di informazione, spopola per la maggiore nel mondo dei libri scaricati su Internet e sugli I-pod. Quel libro era, è il "Manifesto del Partito Comunista" di Marx ed Engels. Certamente quella di Soros e di "Avvenimenti" era anche una provocazione, ma nel commentare quel testo che ha cambiato il mondo, nell’introdurre il lettore al suo primo approccio con la "bibbia" dei comunisti, il finanziare dichiarava senza ombra di dubbio che nessuno poteva dire falsa l’analisi marxista sulle classi e l’approfodimento prima storico e poi sociologico ed economico in merito all’espansione globale della borghesia e del sistema di produzione capitalistico dai paesi più avanzati e ricchi alle colonie più povere e sfruttate.

Il PD non riconosce neppure più questo. La paura di analizzare criticamente il capitalismo sembra quasi ancestrale, frutto di un trauma politico inconfessabile, terribile. Eppure tutti conosciamo bene la storia della fusione a freddo tra i DS e la Margherita, i problemi di convivenza tra gli eredi della tradizione comunista, socialista e socialdemocratica italiana e quelli della tradizione democristiana.

Per troppi anni, come comunisti, siamo apparsi alle persone costantemente vicini, se non completamente organici, ad un nuovo centrosinistra che ha deluso le misere aspettative di una intera generazione di sfruttati. Per troppo tempo ci siamo fatti dire che anche le nostre parole erano obsolete, che il comunismo era solo una utopia da operetta, un mondo passato e crollato sotto le macerie della Berlino del 1989.

E proprio ieri, uno degli intellettuali che possiamo stimare maggiormente per la sua intelligenza e per il suo coraggio (laico), Marcello Cini, ha scritto su "Liberazione" che dirsi ancora comunisti vuol dire voler crepare in un letto di Procuste, divorati da un nostalgismo identitario sterile e puerileggiante.

Cini argomenta questa sua tesi cercando di far parlare il Marx dei Grundrisse, citando l’immaterialità del lavoro, la mutazione che la finanziarizzazione dei mercati ha prodotto nel capitalismo e, pertanto, l’impossibilità di porre sotto analisi critica il sistema economico dominante così come Marx aveva fatto.

Sebbene l’onestà intellettuale del professor Cini sia evidente, c’è nelle sue parole una propensione a fuggire da qualcosa, a muoversi con un clima intellettuale e con una forma di analisi non tanto diversa da questo Marx a quel Marx. Cini crede che noi comunisti si sia irrigimentati in una visione del mondo che individui nel solo operaismo il movimento unico, esclusivo e predestinato all’eversione contro il capitale.

Cini, in sostanza, ci dice che noi sottovalutiamo i movimenti femministi, il pacifismo e la"non violenza" ghandiana e persino Rosa Luxemburg che avremmo relegato in un angolo per preferirle Lenin.

Questo è l’errore che fa il PD, questo è l’errore che fa Cini. Partono da due diversi punti di vista: il primo è distruttivo per la sinistra e per i comunisti, il secondo vuole essere propositivo per la sinistra dicendo "basta" al comunismo, ai comunisti.

Ma entrambi arrivano a dire che la verità sta altrove: nel collateralismo interclassista e pan-borghese del PD, nella nuova sinistra "senza aggettivi" di Marcello Cini. La parola "comunista" è pesante, certo. Ha una storia dietro di sè: importante, anche tragica e violenta, ma soprattutto grande e piena di speranza. La crisi fobica che nasce e si sviluppa in molti ambienti a sinistra, oggi, per gli aggettivi, per i simboli, è un volontario o involontario pretesto per assumere una verginità politica che nessuno ha, che nessuno può pretendere.

Se non si diranno più comunisti certi compagni e certe compagne, saranno prima o poi costretti "a dirsi", a chiamarsi con una nuova aggettivazione. Perché dirsi genericamente di sinistra sarà anche diverso nel merito, ma nel metodo assomiglia molto al dirsi genericamente democratico. Alla fine scopri, che chi ti sta accanto è molto, ma molto diverso da te.