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da cunegonda.org
Riassumo un articolo di Serge Latouche (un dei massimi esperti mondiali di globalizzazione) su ’La 
decrescita’.
La societa’ capitalistica globalizzata del neoliberismo ha plagiato le nostre menti cosi’ che la 
crescita economica viene vista ormai da tutti come una meta da preseguire. 
La stessa crescita poi viene identificata con un aumento della produzione.
Bush ha dichiarato: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le 
risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema».
Anche la sinistra condivide questa posizione e anche molti "altromondisti» vedono nella crescita la 
soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di posti di lavoro e una più equa 
ripartizione dei redditi.
Anche nella sinistra francese c’e’ una specie di pensiero unico  per cui non si riesce nemmeno a 
concepire che la felicita’ non passi per l’aumento della crescita, della produttività, del potere 
d’acquisto e dei consumi».  Insomma siamo sempre al punto: se hai piu’ beni, sei piu’ felice.
Ma il mondo sta cambiando, la crescita passa attraverso l’uso di idrocarburi e le guerre del 
petrolio mostrano che non e’ proprio vero che se produci di piu’ e consumi di  piu’  il mondo va 
meglio.
Dopo le guerre del petrolio veranno quelle  per l’acqua, e non sara’ finita. Si  temono pandemie, 
e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali essenziali in seguito 
alle prevedibili catastrofi biogenetiche.
In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. È dunque 
urgente pensare a una società della «decrescita», se possibile serena e conviviale.
Una societa’ della crescita non e’ sostenibile, in quanto i scontra con i limiti della biosfera. 
L’impatto ambientale del nostro stile di vita o «impronta» ecologica e’ troppo pesante. La biosfera 
non ce la fa a rigenerarsi. Un cittadino degli Stati uniti sfrutta in media 9,6 ettari di 
superficie terrestre, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Manca equita’ planetaria e il mondo non 
regge, non potremmo sfruttare più di 1,4 ettari a testa - e per di più con il presupposto che la 
popolazione rimanga al livello attuale. Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e 
del rispetto per l’ambiente, gli esperti pensano di aver trovato la pozione magica 
nell’ecoefficienza, ridurre progressivamente l’impatto ecologico e l’incidenza del prelievo di risorse naturali, 
per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta.
Indubbiamente, l’efficienza ecologica è notevolmente migliorata; ma poiché la corsa forsennata 
alla crescita non si ferma, il degrado globale del pianeta continua ad aggravarsi.
Se da un lato l’impatto ambientale per unità di merci prodotte è diminuito, questo risultato è 
sistematicamente azzerato dall’aumento quantitativo della produzione: un fenomeno cui si è dato il 
nome di «effetto rimbalzo». Tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad 
aumentare.
Secondo Ivan Illich, la fine programmata della società della crescita non sarebbe necessariamente 
un male.
«C’è una buona notizia: la rinuncia al nostro modello di vita non è affatto il sacrificio 
di qualcosa di intrinsecamente buono, per timore di incorrere nei suoi effetti collaterali nocivi 
– un po’ come quando ci si astiene da una pietanza squisita per evitare i rischi che potrebbe 
comportare. Di fatto, quella pietanza è pessima di per sé, e avremmo tutto da guadagnare facendone a 
meno: vivere
diversamente per vivere meglio».
La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: -perché incrementa le 
disuguaglianze e le ingiustizie; 
– perché dispensa un benessere largamente illusorio, 
– e perché non offre un tipo di vita conviviale neppure ai «benestanti»: è un’«antisocietà» malata 
della propria ricchezza.
Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la 
maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord si rivela sempre più un’illusione. Indubbiamente, molti 
possono spendere di più
per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi 
aggiuntivi che assumono forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado, non quantificabile ma 
subìto, della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): spese di «compensazione» e di riparazione 
(farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna, o determinate all’aumento dei 
prezzi di generi divenuti rari
(l’acqua in bottiglie, l’energia, il verde...).
Herman Daly ha compilato un indice sintetico, il «Genuine Progress Indicator» (Gpi) che rettifica 
il Prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all’inquinamento e al degrado ambientale.
A partire dal 1970, per gli Stati uniti l’indice del «progresso genuino» è stagnante, o 
addirittura in regresso, mentre quello del Prodotto interno lordo continua registrare aumenti. 
Mentre si cresce da un lato, dall’altro si accentuano le perdite.
In queste condizioni la crescita è un mito.
Ora la decrescita è una necessità, non un ideale.
E non può certo essere l’unico obiettivo di una società del
dopo-sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità virtù, e di concepire 
la decrescita per le società del Nord come un fine che ha i suoi vantaggi. Cio’ vuol dire  
innanzitutto abbandonare l’obiettivo insensato di una crescita fine a se stessa. Ma attenzione: il 
significato di decrescita non è quello di crescita negativa. La difficoltà di tradurre «decrescita» in 
inglese è rivelatrice di questo predominio mentale dell’economicismo. Come è noto, basta un 
rallentamento della
crescita per allarmare le nostre società con la minaccia della
disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e di tutela ambientale, che 
assicurano un minimo di qualità della vita. Ecco perché la sinistra istituzionale è condannata al 
social- liberismo.
Occorre decolonizzarer l’immaginario.
Un primo passo potrebbe essere ridurre l’impatto ambientale. Ad  esempio di ridimensionare 
l’enorme mole degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con una rilocalizzazione» dell’economia. 
Non meno importante è ridimensionare la pubblicità più invadente e rumorosa, e contrastare la 
prassi di accelerare artificialmente l’obsolescenza dei manufatti e la diffusione di prodotti usa e 
getta. Una società della decrescita non comporta necessariamente un regresso sul piano del benessere.
Per concepire e realizzare una società di decrescita serena dovremo rimettere in discussione il 
dominio dell’economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma 
soprattutto nelle nostre menti. Una condizione necessaria è la drastica riduzione dell’orario di 
lavoro imposto, per assicurare a tutti un impiego soddisfacente.
Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: l’altruismo 
dovrebbe prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere dello svago 
sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto del 
lavoro bello e ben fatto sull’efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, e così 
via.
Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, in quanto suscitati e stimolati 
dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Certo, la scelta di un’etica personale
diversa, come quella della semplicità volontaria, può incidere sull’attuale tendenza e minare alla 
base l’immaginario del sistema. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di 
rimanere limitato.
Un drastico ridimensionamento dei processi che comportano danni ambientali, cioè della produzione 
di valori di scambio incorporati in supporti materiali fisici, non comporta necessariamente una 
limitazione della produzione di valori d’uso per mezzo di prodotti immateriali. Per questi ultimi si 
potrebbe conservare, almeno in parte, una forma mercantile.
Tuttavia, se il mercato e il profitto possono sussistere come incentivi, non devono più costituire 
il fondamento del sistema.
Comunque, più di quanto possano fare tutti i nostri argomenti, l’inquietante canicola dell’estate 
2003, in particolare nell’Europa sud- occidentale, sta a dimostrare la necessità di una società 
della decrescita. Per l’indispensabile decolonizzazione dell’immaginario potremo largamente contare, 
negli anni a venire, sulla pedagogia delle catastrofi.




