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di Samir Amin
1. La democrazia è un’esigenza in sé e un mezzo con cui le classi popolari fanno valere le loro rivendicazioni
La democrazia – intesa nel senso generale di riconoscimento della legittimità delle diverse concezioni dei rapporti fra gli individui e la società, della diversità degli interessi come della diversità delle istituzioni necessarie a promuoverne l’attuazione – è la condizione ineliminabile dell’emancipazione degli uomini. Non si può concepire l’emancipazione se non c’è quella dello spirito.
In ogni campo, la democrazia offre alla creatività le più ampie chances.
Ma la democrazia – intesa qui nel senso più preciso delle istituzioni che ne definiscono le pratiche e le forniscono la struttura – rappresenta anche un mezzo: quello di sostenere gli interessi del “popolo” (delle classi popolari) o al contrario di impedirne l’attuazione.
In questo senso bisogna dunque distinguere accuratamente i mezzi della democrazia popolare da quelli della democrazia riservata ai privilegiati. Dare alla democrazia l’attributo di “popolare” può sembrare un pleonasma, visto che “demos” in greco significa popolo. Ma il pleonasma è reso necessario dal fatto che la democrazia proposta oggi dall’ideologia dominante è stata ideata e costruita ad uso dei privilegiati e non per sostenere gli interessi delle classi popolari.
Una vera democrazia è indissociabile dal progresso sociale. Ciò significa che deve combinare le
esigenze della libertà con quelle, non meno importanti, dell’eguaglianza. Questi due valori non sono
spontaneamente e necessariamente complementari, anzi spesso sono in conflitto. La libertà,
associata alla proprietà posta sullo stesso piano, e santificata dal sistema economico, riduce lo
spazio delle rivendicazioni di eguaglianza. Giacché la proprietà è sempre distribuita in maniera diseguale
e riguarda necessariamente solo una minoranza. Nella nostra epoca, caratterizzata dai
grandi oligopoli finanziari dominanti, l’estrema disuguaglianza e l’associazione libertà/proprietà
combinate insieme pongono il potere reale nelle mani di una plutocrazia, riducendo la democrazia
alla pratica di inutili rituali. Di converso, il potere può garantire l’uguaglianza (o almeno una certa
dose di minore disuguaglianza) – come è spesso accaduto nella storia contemporanea – senza
tollerare l’esercizio delle libertà di cittadini.
Combinare libertà ed eguaglianza rappresenta la caratteristica intrinseca della sfida che i popoli
contemporanei devono affrontare.
2. La democrazia istituzionale proposta dall’ideologia dominante costituisce un ostacolo al vero
progresso sociale
La democrazia che noi conosciamo non è stata – e non è ancora – ideata per favorire
l’espressione delle rivendicazioni popolari, ma per opporvi ostacoli assai difficili da superare. Tre
insiemi di riflessioni sulle istituzioni e sulle pratiche di questa democrazia deformata illustreranno la
nostra tesi.
2.1. Le tendenze recenti che dominano nella pratica istituzionalizzata della democrazia elettorale e rappresentativa dei paesi europei perseguono apertamente l’obiettivo di ridurre ciò che i promotori chiamano “l’eccesso di democrazia”!
L’adozione del sistema uninominale a un turno (a volte a due) in luogo del proporzionale (quando
esisteva) ha l’obiettivo dichiarato di annullare la portata dei voti “minoritari” e di dare il primato ai
candidati “centristi”, che accettano di subordinarsi alle “regole del sistema” (al “mercato”) e al discorso
convenzionale che mira a legittimarlo. Bisogna sottolineare che la Gran Bretagna, “patria
d’origine della democrazia” – come si dice – ha sempre usato il voto uninominale, al pari degli Stati
Uniti.
L’adozione del sistema presidenziale, e il principio dell’elezione del Presidente a suffragio universale
diretto, perseguono lo stesso scopo. Tale scelta è destinata a costringere l’opinione pubblica
generale a coagularsi intorno a due candidati, che si dicono di destra e di sinistra, ma che di fatto
sono obbligati a farsi concorrenza al centro in questa situazione di polarizzazione. Gli Stati Uniti e
sulla loro scia l’America Latina hanno sempre fondato i rispettivi sistemi costituzionali su questi
principi, con perfetta conoscenza di causa riguardo agli effetti, come testimoniano i testi dei padri
fondatori. Nell’epoca contemporanea il principio è stato largamente adottato in Africa e in Asia, per
ragioni che si rifanno alla stessa logica. Progredisce anche in Europa, ed è stato adottato per la V
Repubblica in Francia, nonostante la tradizione che lo associava al bonapartismo. Ma qui funziona
male, perché l’opinione pubblica rifiuta di coalizzarsi intorno a due soli candidati (almeno principali).
Il risultato non ha favorito l’apertura di spazi di scelta, ma produce invece i risultati aberranti che
conosciamo (per esempio dover scegliere fra Chirac e Le Pen)! Anche il principio del parlamentarismo
fondato sul voto uninominale che favorisce due grandi partiti produce risultati analoghi e dà
dei Primi ministri che sono quasi dei Presidenti.
2.2.
Il progetto di costituzione europea (che il popolo francese e olandese hanno rifiutato, ma di cui le
istituzioni europee impongono comunque l’attuazione) aveva l’ambizione di rendere sacri i principi
di una democrazia rappresentativa in grado di frapporre ostacoli all’espressione efficace delle rivendicazioni
popolari.
Il progetto non solo riprende la sacralizzazione della proprietà che le varie Dichiarazioni (del 1789,
degli Stati Uniti e di altri paesi) avevano formulato, ma le conferisce un valore assoluto, che era
stato rimesso in discussione almeno in parte all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando
le classi popolari dopo la vittoria sul fascismo avevano acquisito una legittimità mai goduta prima
nei paesi capitalisti (e che oggi stanno perdendo). Sulla scia di questa evoluzione, il progetto annulla
il concetto stesso di servizio pubblico, che limitava il campo di espansione della libertà dei
proprietari imponendo il rispetto di aree di attività sociali gestite in base al principio di uguaglianza.
Tale principio di uguaglianza (relativa) nell’accesso all’educazione, alla salute, alla sicurezza del
lavoro e delle pensioni, ad alcuni bisogni essenziali (acqua, energia, trasporti) viene ormai sacrificato
all’esigenza di espansione del mercato, aperto allo sfruttamento da parte del capitale.
Non voglio svolgere qui nei dettagli il tema dell’evoluzione che rafforza i “diritti” dell’oligarchia finanziaria
in tutta una serie di settori che non si riferiscono alla Costituzione, che riguarda i principi
fondamentali e non l’interpretazione definitiva della loro attuazione.
Il progetto europeo riduceva inoltre in misura considerevole i poteri legislativi delle nazioni, subordinandoli
alla supremazia della legge “europea”. Ora si sa molto bene che mentre negli Stati europei
i poteri legislativi si costituiscono sulla base di elezioni parlamentari, ciò non accade a livello di
Unione Europea.
Lo slittamento di tali poteri dai parlamenti nazionali alle stanze burocratiche di
Bruxelles favorisce un altro slittamento apertamente auspicato, in direzione del governo dei giudici
– un governo sempre conservatore – incaricati di pronunciarsi in materia di conformità o meno delle
leggi nazionali (votate) alle istruzioni di Bruxelles (che non lo sono).
Il progetto di Costituzione, con il suo riferimento formale alla NATO, annulla l’eventuale portata di
scelte democratiche in materia di politica estera. La NATO è un’alleanza (e dunque in via di principio
legata a circostanze precise, e che può essere denunciata dai governi eletti), per di più militare
e affidata d’ufficio alla direzione degli Stati Uniti (uno Stato estero rispetto all’Unione Europea)!
L’abolizione della sovranità degli Stati in questo contesto è sinonimo dell’abolizione di un diritto
democratico fondamentale, quello di svolgere una politica estera ispirata alla volontà del popolo.
Il fatto che questo testo sia impacchettato in una fraseologia che si rifa alle pretese radici della civiltà
europea (è stato evitato di poco il richiamo cristiano o giudaico-cristiano) non rafforza certo la
portata democratica del progetto, ma al contrario ne limita il significato.
Si capisce bene come Giscard d’Estaing, padre (assai reazionario) del testo, abbia dichiarato che
esso è “buono quasi quanto la Costituzione degli Stati Uniti”!
2.3.
Infatti il testo di quella Costituzione, che ci viene presentato come garanzia di continuo sviluppo
della “democrazia” in America (in contrasto con pretesi progressi e regressi in Europa) è stato ideato
dai suoi autori per evitare il rischio che emergessero le rivendicazioni popolari. Su questo piano,
i padri fondatori avevano una sorprendente lucidità, che hanno espresso con una franchezza
addirittura cinica.
Anzitutto proclamando solo due valori fondamentali, la libertà e la proprietà, ed eliminando quindi
l’aspirazione all’eguaglianza. L’ideologia dominante degli Stati Uniti è rimasta caratterizzata fino ai
nostri giorni dal disprezzo per l’uguaglianza, sacrificata sull’altare della competizione (che si pretende
favorevole alla creatività e all’iniziativa), essa stessa prodotta a sua volta dalla combinazione
fra libertà e proprietà che diventa la libertà dei proprietari (la supremazia del “mercato”).
Tale espressione
estrema dell’ideologia e della cultura politica perfettamente funzionale al capitalismo
abolisce il concetto di solidarietà, che definisce non solo le aspirazioni socialiste ma ha anche avuto
nella storia un’importanza molto maggiore della competizione per realizzare i progressi
dell’umanità.
E in secondo luogo, ideando deliberatamente le forme istituzionali proprie di una democrazia rappresentativa
e procedurale: c’è la democrazia se si rispettano le forme che essa prevede, senza
che sia necessario sapere a chi serve la decisione e chi ne sono invece le vittime. Il voto uninominale
e la concentrazione dei poteri nelle mani di un Presidente riducono di molto e quasi annullano
le possibilità che emerga una rappresentanza popolare autentica. La Rivoluzione francese invece,
cosciente di questi pericoli, aveva scelto di non designare un “Presidente” (un “re eletto”).
La democrazia
rappresentativa e procedurale che opera in una società subordinata al primato della
competizione fra i proprietari, favorisce il potere del denaro, le cui espressioni nella vita politica
USA hanno assunto forme ancor più estreme di quelle europee. Si sa che è impossibile partecipare
a una campagna elettorale senza disporre di somme immense; si sa che negli Stati Uniti la legge
autorizza senza restrizioni il finanziamento delle campagne elettorali da parte dei capitalisti più
opimi, e che le stesse regole valgono per la stampa ecc.
A sua volta, la democrazia procedurale rafforza il potere dei giudici, simbolizzato dalla Corte Suprema.
E si può temere giustamente che tale potere si eserciti il più delle volte in senso conservatore.
Sono queste precauzioni conservatrici che spiegano la longevità della Costituzione degli Stati Uniti.
Giscard d’Estaing non si sbagliava quando auspicava per l’Europa una costituzione che impedisse
perfino di pensare qualcosa di diverso dal capitalismo, dando un carattere di incostituzionalità
e quindi di illegittimità ad ogni aspirazione di andare oltre, verso il socialismo.
Inoltre, come ben si sa, la democrazia in questione – come ad Atene – era riservata ai bianchi di
origine europea. I padri fondatori erano non solo favorevoli alla schiavitù ma erano anche essi
stessi direttamente proprietari di schiavi. E non pensarono mai che gli indios meritassero qualcosa
di diverso dallo sterminio. Le ondate successive di immigrazione hanno fatto il resto: sostituire la
cristallizzazione di coscienze “comunitariste” a quella di una coscienza politica di classe (rinvio qui
al mio libro Il virus liberale). La depoliticizzazione di massa dell’opinione pubblica (che si esprime
anche con l’astensionismo della metà dei cittadini, quelli poveri), evidentemente invidiata dagli amici
europei degli USA, è il prodotto di questa costruzione sistematica che merita assai poco la
qualifica di “democratica”.
3. I progressi della democrazia si sono ottenuti con le lotte popolari, e i progressi sono stati più
marcati nei momenti rivoluzionari
L’ideologia dominante associa la “democrazia” alla “libertà di mercato” (cioè di fatto il capitalismo)
e pretende che siano indissociabili: nessuna democrazia senza mercato, quindi neppure pensare
al socialismo democratico. Si tratta solo di una formula ideologica – nel senso volgare e negativo
del termine – e anche tautologica, che suppone che il concetto di democrazia sia ridotto a quello
del povero modello statunitense.
Per il momento la storia del capitalismo realmente esistente come sistema mondializzato dimostra
che anche questa democrazia mutilata è sempre stata l’eccezione e mai la regola.
Nei centri stessi del capitalismo, cioè in Europa occidentale e centrale e negli Stati Uniti, i progressi
della democrazia rappresentativa sono sempre stati il prodotto delle lotte popolari, frenate il più a
lungo possibile dai detentori del potere (i proprietari). E’ un fatto incontestabile, che si tratti
dell’allargamento del suffragio (il suffragio universale è un fatto recente), del rafforzamento del potere
legislativo di fronte ai privilegi dei re, delle aristocrazie associate e degli alti comandi militari,
del ricorso al sistema proporzionale, di limiti alla libertà dei proprietari (diritti del lavoro, sicurezza
sociale, ecc.).
Su scala del sistema del capitalismo mondiale – la vera unità in cui si muove lo sviluppo del capitalismo
– l’associazione fra democrazia (monca) e capitalismo è ancor più visibilmente priva di fondamento
reale. Nelle periferie (che includono il 75% dell’umanità) integrate nel capitalismo reale
mondiale, la democrazia non è stata mai – o quasi mai – all’ordine del giorno del possibile, o anche
auspicabile per il buon funzionamento dell’accumulazione capitalistica.
In questa situazione arriverei a dire che i progressi democratici nei centri del sistema, anche se
prodotti delle lotte delle classi popolari, sono nondimeno stati ampiamente facilitati dai vantaggi
che le società interessate detenevano nel sistema mondiale. Marx stesso si aspettava importanti
effetti positivi dall’introduzione del suffragio universale: la possibilità di una transizione pacifica al
socialismo. La storia non ha confermato le sue speranze. Il suffragio universale operava infatti
all’interno di società infettate dall’ideologia nazionalista e imperialistica e dai vantaggi ad essa associati
(vedere l’opera di Luciano Canfora, La democrazia).
I movimenti popolari e i popoli in lotta per il socialismo e la liberazione dal giogo imperialistico sono
stati all’origine di spinte democratiche autentiche, disegnando una teoria e una pratica in grado di
associare democrazia e progresso sociale. Questa evoluzione – oltre il capitalismo, oltre la sua
ideologia e la sua pratica riduttiva di una democrazia rappresentativa e procedurale – si è annunciata
molto presto, già ai tempi della Rivoluzione francese. Si è poi espressa in maniera più matura
e più radicale nelle rivoluzioni ulteriori, nella Comune di Parigi, nella Rivoluzione russa, in quella
cinese e in alcune altre (Messico, Cuba, Vietnam).
La Convenzione montagnarda non solo impone grandi riforme democratiche (il suffragio universale,
l’abolizione della schiavitù), ne proclama i principi fondanti (uguaglianza, solidarietà, diritto alla
vita, all’istruzione, ecc.), ma prevede inoltre dei sistemi istituzionali adatti a perseguirli (rifiuto del
presidenzialismo, ecc.). Quali che siano stati i limiti di questi progressi – spiegabili senza difficoltà
con le condizioni oggettive dell’economia dell’epoca – essi hanno peraltro ispirato nuove speranze,
espresse poi dalle comunità babuviste. La Comune di Parigi fa proprio questo retaggio e lo spinge
più avanti.
La Rivoluzione russa procede alle grandi riforme che sono condizione di una possibile evoluzione
socialista e democratica: la riforma agraria, l’espropriazione dei capitalisti. Poi viene la deriva
statalista. Ma è senza dubbio la Rivoluzione cinese che pone i principi di una “democrazia
popolare” (nulla a che vedere con le omonime democrazie dell’Europa orientale) portatrice di
progressi sociali e democratici reali, che definivano una tappa della lunga transizione al socialismo
democratico. L’abolizione della proprietà privata della terra e la garanzia dell’uguale accesso per
tutti ne costituiva l’asse principale. La realizzazione delle comuni, gestori collettivi della produzione
agricola, delle piccole industrie e dei servizi pubblici (scuole, ospedali, ecc.) poteva costituire un
quadro istituzionale efficace per una democratizzazione progressiva della gestione di tutti gli
aspetti della vita sociale.
sociale.
I limiti, le incoerenze e gli arretramenti della democrazia popolare cinese hanno cause molteplici,
analizzate da Li Chun (The transformation of Chinese socialism, Duke Univ. Press, 2006): le contraddizioni
oggettive che oppongono i tre poli necessari di un progetto di transizione di lunga durata
(l’indipendenza nazionale, lo sviluppo delle forze produttive, il progresso dei valori di uguaglianza
e del socialismo) ma anche – e non meno importante – l’assenza di formulazione delle garanzie
giuridiche formali dei diritti dell’individuo e l’istituzionalizzazione imprecisa dei poteri. La “linea di
massa” che invita le classi popolari a formulare le proprie rivendicazioni, offre il mezzo per farlo, e
non erige il partito ad avanguardia autoproclamata che “insegna” al popolo una verità di cui ha il
monopolio della conoscenza, senza dover “apprendere” dal popolo, deriva appunto dalla logica
fondamentale di un progetto democratico. Questo principio si pone agli antipodi della tesi per cui la
teoria è apportata dall’esterno al movimento. La “linea di massa” non può peraltro costituire un sostituto
dell’istituzionalizzazione dei diritti e delle organizzazioni.
Io non sono fra quelli che si astengono dal criticare severamente le derive autoritarie, e anche
sanguinose, che hanno accompagnato i momenti rivoluzionari della storia. Spiegarne le ragioni
non equivale a giustificarle e non riduce la loro portata distruttiva rispetto al futuro socialista che
veicolavano. Ma bisognerebbe rammentare che le violenze più sanguinose sono sempre state
quelle della controrivoluzione. Il terrore bianco di Versailles conta le sue vittime a decine di migliaia;
il numero delle vittime innocenti della Comune non supera il centinaio. Le derive sanguinose
dello stalinismo non sono il prodotto della logica socialista, bensì della volontà di arrestarne il progresso
e di sostituirvi uno statalismo che io definisco “capitalismo senza capitalisti”. E bisogna ancora
rammentare i crimini permanenti del capitalismo/imperialismo realmente esistente, i massacri
coloniali, quelli associati alle “guerre preventive” condotte oggi dagli Stati Uniti e dai loro alleati. In
queste condizioni la “democrazia”, quando non è semplicemente cancellata dall’ordine del giorno,
è soltanto una tragica mascherata, come si vede in Iraq.
4. La democrazia, oggi in regresso, può avanzare nel mondo solo a condizione di assumere le
forme di una democrazia sociale istituzionalizzata.
Nel contesto attuale del capitalismo mondializzato la democrazia (anche nelle sue forme mutilate)
non è in progresso – reale o potenziale – ma al contrario recede sotto la minaccia della perdita di
legittimità e credibilità. “Il mercato decide tutto, il Parlamento (quando esiste) niente”. Per di più la
guerra contro il “terrorismo” serve, come si sa, da pretesto per ridurre i diritti democratici, per aumentare
i profitti della plutocrazia, forma nuova della borghesia finanziaria del capitalismo senile. I
popoli rischiano allora di essere attratti dall’illusione di ripiegamenti “identitari” (para-etnici e/o parareligiosi),
essenzialmente antidemocratici, che li rinchiudono in un vicolo cieco.
Ovunque, anche se le condizioni dei centri sono molto diverse da quelle delle periferie del capitalismo
mondializzato contemporaneo, la sfida ha la stessa natura: andare oltre il capitalismo e la
democrazia rappresentativa, in altri termini adottare posizioni radicali in queste due direzioni, che
sono indissociabili. E’ questa la condizione per il progresso della democrazia.
Voglio dunque avanzare alcune proposte generali che permetterebbero di progredire in questa direzione:
– adottare carte dei diritti (carte nazionali e internazionali, carte specifiche relative a settori
definiti, come i diritti delle donne, dei contadini, delle organizzazioni operaie, della gestione
dei servizi pubblici o delle imprese pubbliche e private, ecc.) che osino rimettere in discussione
il carattere sacrosanto della proprietà, e affermare il primato dei valori che associano
libertà ed eguaglianza, sviluppo e progresso sociale. E naturalmente la definizione dei
mezzi necessari perché queste carte non restino allo stato di pii desideri;
– rafforzare i poteri dei parlamenti eletti, adottare il sistema proporzionale, abolire i sistemi
presidenziali: dovrebbero essere priorità assolute nei programmi politici di una sinistra che
voglia veramente restituire alla democrazia il senso perduto;
– aprire spazi di gestione democratica e popolare in tutti i settori, nei servizi sociali, nelle imprese
produttive, nella gestione municipale e condurre le lotte necessarie perché i poteri ne
riconoscano la legittimità;
– ristabilire il rispetto integrale della sovranità delle nazioni, considerando che non può esistere
alcuna “democrazia sovranazionale” se le aspirazioni democratiche sono schernite a livello
nazionale (è il caso dell’Unione Europea). Non è possibile sacrificare i progressi dei
popoli più avanzati in nome di un qualsiasi vantaggio “a lungo termine” dei grandi complessi
regionali, perché i progressi effettivi ottenuti in uno o in più paesi possono avere effetti di
trascinamento sugli altri, mentre allinearsi sulle “esigenze” dell’unione regionale significa
quasi sempre mettersi al passo del paese meno avanzato. Questa scelta equivale di fatto a
far prevalere gli interessi dominanti per i quali “l’apertura mondiale” (dei mercati) ha
un’importanza decisiva e preminente rispetto a quelli delle classi popolari.
Con un programma radicale di questo tipo le sfide sono sicuramente importanti. Oltre alla varietà
delle situazioni concrete, si possono individuare tre insiemi di difficoltà comuni e notevoli:
– nei paesi del centro capitalista/imperialista le classi popolari (e anche in gran parte le classi
medie, almeno potenzialmente) aspirano certamente a un maggior grado di democrazia reale,
a maggiore eguaglianza, solidarietà e sicurezza sociale (garanzie sul lavoro, per il sistema
pensionistico, ecc.). Non è detto che l’ideologia della competizione selvaggia sia accettabile
in Europa come negli Stati Uniti. Ma i popoli del nord sono disposti a rinunciare ai
vantaggi importanti loro procurati dalla rapina del pianeta, che significa mantenere i popoli
del sud nel sottosviluppo? La preoccupazione ecologica per uno sviluppo “durevole” dovrebbe
far mettere seriamente in discussione quei vantaggi. Bisogna constatare che, probabilmente
per questa ragione, le manifestazioni ecologiche non superano la fase di pii desideri;
– i paesi della periferia possono affrontare la sfida solo se per un lungo periodo di transizione
(su misura secolare) i sistemi politici di democrazia popolare riescono a combinare felicemente
tre obiettivi: mantenere e rafforzare l’indipendenza nazionale entro un sistema internazionale
multipolare fondato sul principio di una mondializzazione negoziata, accelerare lo
sviluppo delle forze produttive, altrimenti non ha senso parlare di eliminazione della povertà
e della costruzione di un mondo multipolare equilibrato, e affermare il posto crescente dei
valori del socialismo e in particolare dell’eguaglianza. In questa sfida sono impegnati i tre
quarti dell’umanità. Ma se ciò condiziona il progresso parallelo della democratizzazione della
società, in senso inverso e complementare mi sembra difficile che al nostro tempo si riesca
a raggiungere uno sviluppo degno di questo nome (cioè accelerato, di tipo sociale se
non socialista, e accompagnato dal rafforzamento dell’indipendenza nazionale) per mezzo
di “dispotismi illuminati”. Non c’è dubbio che un’autocrazia illuminata sarebbe meglio dei dispotismi
oscurantisti, che non disturbano affatto gli imperialisti. Non c’è dubbio che esistono
forse ancora delle situazioni per le quali, a breve termine, non si può sperare nulla di meglio.
Ma mi sembra evidente che ciò che si può ottenere in questo contesto politico non
democratico si scontrerà molto presto con limiti invalicabili;
– la democrazia non è una ricetta che basta applicare. Realizzarla è un processo che non ha
fine, il che mi porta a preferire il termine di democratizzazione. Per il momento la ricetta in
questione – pluripartitismo più elezioni – non solamente rinchiude entro l’opzione di una
democrazia rappresentativa e procedurale monca, riservata alla gestione della vita politica,
e perciò diventata perfettamente antipopolare oggi, nell’epoca del capitalismo senile, ma
per di più, associata al liberismo economico, sta diventando una farsa.
Con questa ricetta la lotta per la democrazia perde la sua legittimità. Accettare questa soluzione
come “meno peggio” porta a rinchiudersi in un vicolo cieco demoralizzante. E i discorsi relativi alla
buona “governance” e alla “riduzione della povertà” non offrono alcuna risposta agli effetti distruttivi
del liberismo.
Mi sembra utile, per terminare, segnalare le grandi scelte che bisogna discutere e che riguardano i
metodi di lotta in grado di farci progredire con successo nelle direzioni qui indicate. Questo dibattito
interpella direttamente i “movimenti” che si ritrovano nei Forum sociali.
– Il momento attuale è caratterizzato dall’estrema diversità e dalla natura molteplice dei movimenti
sociali di protesta e di lotta contro gli effetti devastanti delle strategie portate avanti
dai poteri dominanti. Ma è caratterizzato anche da una grande diffidenza nei confronti delle
forme di organizzazione e di lotta delle sinistre storiche del XIX e del XX secolo, della loro
tendenza spontanea ad autoproclamarsi “avanguardie” (un termine oggi ampiamente rifiutato)
e ad affermarsi con metodi spesso poco rispettosi dei principi della democrazia. Queste
accuse sono ampiamente fondate su un’analisi critica corretta di quel che sono state le
lotte dei due secoli passati. Bisogna quindi assumerle seriamente per ispirare l’invenzione
creativa di nuove forme di organizzazione e di azione.
– In risposta a questa sfida molti movimenti e militanti accettano proposte che io giudico estremamente
pericolose. Citerò almeno queste:
o il discorso sulla “società civile”. Oltre all’indeterminatezza concettuale, ciò che si intende
con questo termine si ispira largamente a un modello che valorizza l’apoliticità
(in particolare il rifiuto della politica dei partiti) a vantaggio dell’azione pretesamene
ravvicinata, di base, “utile” in via immediata (e quindi in realtà incapace di rimettere
in discussione i sistemi di potere giudicati troppo potenti e quindi invincibili). Il metodo
favorisce evoluzioni negative, perpetuando lo sbriciolamento dei movimenti o la
loro trasformazione in lobby di difesa di interessi particolari, a spese dell’interesse
generale. La tradizione USA, di cui Negri riprende l’elogio, ispira largamente questo
discorso sulla “moltitudine”. Esso trova fondamento ideologico nella sopravvalutazione
dell’individuo, che viene considerato come il nuovo soggetto storico della trasformazione,
mentre le classi e le nazioni non lo sarebbero più. Questa ideologia
conviene alle minoranze di “bobo” (borghesi-bohème) dell’occidente opulento – sovrarappresentate
nei Forum sociali – ma non risponde alle attese delle immense
masse di classi popolari.
– Il discorso “comunitarista”, prodotto pressoché inevitabile della diversificazione delle
“origini” dei componenti delle classi popolari (prodotta a sua volta dalle migrazioni
dell’ultimo mezzo secolo). Largamente associata alla debolezza delle espressioni
della coscienza di classe e della coscienza di cittadini, l’ideologia comunitarista,
lungi dal favorire la maturazione delle coscienze menzionate, ne perpetua il sottosviluppo.
Questa tradizione, venuta dagli Stati Uniti, dove ha svolto precisamente la
funzione di ostacolo alla maturazione della coscienza politica di classe, oggi è di
gran voga in Europa.
– La stagnazione dei “movimenti” intrappolati nei metodi e nei discorsi qui criticati, i successi
molto limitati (spesso insignificanti) delle lotte in cui si impegnano, favorisce a sua volta il
loro allineamento sulla tesi della “scelta del meno peggio” per evitare il peggio. Ma tale
scelta, visto che il meno peggio non è molto diverso dal peggio, ha solo l’effetto di demoralizzare
le classi popolari.
Io voglio invece avanzare le proposte seguenti:
– organizzare la “convergenza nella diversità”, il che implica certo il rispetto della divergenza
(compresa l’indipendenza delle organizzazioni), ma anche la ricerca di piattaforme di azione
comune capaci di promuovere la convergenza. Ciò implica che si accetti che la definizione
delle strategie di azione, degli obiettivi a breve termine e delle prospettive più lontane
debba essere al centro dei dibattiti. Compiti ai quali il Forum mondiale delle alternative auspica
di contribuire;
– rifiutare l’apoliticità. Ricordare che ogni movimento, ogni lotta, sono essenzialmente degli
atti politici. E perciò bisogna non certo rifiutare, ma al contrario ricercare l’associazione di
partiti politici (o di loro segmenti e di attori posti apertamente sulla scena della “politica”).
Per tutti i movimenti, grandi o piccoli che siano, come per tutti i partiti politici, rivoluzionari o riformisti,
la sfida è la stessa: consiste nel far prevalere le logiche della lotta su quelle
dell’organizzazione. Queste ultime favoriscono la timidezza, l’allineamento sul “meno peggio”.
Le
prime favoriscono invece la radicalizzazione delle lotte, la volontà di trionfare.
Punto Rosso
Lavori in Corso 050 dicembre 2006