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Diaz: una recensione di parte
par Fiorino Iantorno
Publie le giovedì 26 aprile 2012 par Fiorino Iantorno - Open-Publishing
Diaz di Vicari è un film emozionante. Terribilmente emozionante. Non ho le competenze e non mi posso permettere di fare una critica cinematografica del film. Per me vale il metodo di giudizio che suggerisce Truffaut per decidere se un film, una poesia, un quadro o qualsiasi opera dell’ingegno è “bello”o “brutto”. E cioè la capacità che ha di suscitare emozioni. E per me Diaz è stato emozionante perché ho rivissuto attraverso le immagini di Vicari le mai dimenticate terribili emozioni di quella sera di luglio. Sono riemerse con la stessa tragica forza perché dieci anni non possono cancellare o far vedere in modo diverso quello che è successo a Genova nel 2001. E mentre il film scorreva e le storie dei personaggi piano piano andavano verso quel drammatico epilogo e quel finale già conosciuto, aumentava in me l’angoscia e la paura. Nelle mie orecchie sono ancora forti e nette le sirene della polizia, il rumore dell’elicottero che girava sul media center quella notte e soprattutto le grida forti di terrore e di paura che nonostante il gran casino si sentivano provenire da dentro la scuola Diaz.
Urla disperate perché in quella scuola senza via di fuga, senza possibilità di scappare una generazione, un gruppo diverso di persone che si erano ritrovate per dire no alla violenza neoliberista, si è trovata chiusa nel vicolo cieco della violenza di Stato. Violenza che il movimento dei movimenti aveva rifiutato e che aveva respinto anche all’indomani dell’assassinio di Carlo Giuliani. Vicari ci ha fatto vedere con una violenza che sicuramente non è esagerata – basta leggere le deposizioni di chi era nella scuola e di chi è stato a Bolzaneto – tutto quello che non abbiamo visto. Sono stato uno dei primi a entrare nella Diaz con Alfio Nicotra e il giornalista Fulvio Pellegrini di Rainews e l’odore del sangue, gli schizzi di sangue sulle pareti, sui termosifoni, sui sacchi a pelo, sugli spigoli dei muri non li potrò mai dimenticare. Forse non li voglio scordare, perché so che potrà succedere ancora. Anzi è successo ancora. La disperazione, il terrore si potevano respirare in quella scuola, mettevano ansia e premevano sullo stomaco. Ci sono luoghi che rimangono segnati da tragici eventi e quella energia negativa, quelle sensazioni rimangono li.
Non li può cancellare una mano di vernice o di calce bianca. Vicari è stato capace di raccontare e di far vedere nitidamente tutto quello che l’opinione pubblica non ha visto. I più attenti e sensibili hanno letto e immaginato. E si sono indignati. In molti invece, hanno negato e hanno giustificato quell’azione, quella sospensione della democrazia in nome della necessità di un intervento contro i “violenti” credendo alle ricostruzioni dei vertici della polizia italiana. Ed è qui il limite che trovo nel film di Vicari – l’unico a mio avviso – quello di non aver dato i nomi ed i cognomi reali ai vertici della polizia italiana che quella sera erano davanti alla scuola Diaz e che hanno costruito ad arte l’assalto. Ho letto le motivazioni del regista e del produttore Procacci che hanno portato a questa scelta, ma le ritengo francamente deboli. Vicari ha lasciato incompiuto un pezzo di quella storia che non ha voluto raccontare.
E se anche avesse voluto usare nomi diversi per chi ha diretto e gestito materialmente quell’azione, poteva nelle schermate che scorrono alla fine del film ricordare che tutti i poliziotti che hanno diretto l’assalto della Diaz sono stati promossi. Soprattutto quel gruppo di poliziotti hanno diretto e dirigono ancora la Polizia italiana nonostante il susseguirsi di governi di centrosinistra o di centrodestra. Manca dunque a mio modo di vedere, un pezzo di verità nei confronti di coloro che hanno subito quelle violenze e manca una informazione fondamentale per tutti coloro che vedono e dunque vengono a conoscere questa tragica pagina della nostra storia “repubblicana”. E cioè che in Italia ci potrà essere ancora una Diaz e ci potrà essere una Bolzaneto e a nulla è servito il sacrificio, il dolore, le umiliazioni di tanti. E le tragiche storie di Aldrovandi, di “Gabbo” Sandri e di Cucchi sono li a raccontarcelo. Io li ricordo tutti i poliziotti di quella sera alla Diaz: li ricordo bene e so chi c’era e chi non c’era.
Ma chi non c’era non ha meno responsabilità di chi era lì. Anzi. Il capo della polizia di allora nel film di Vicari non viene, forse apparentemente, citato mai. Carnera che arriva da Roma a gestire le operazioni sembrerebbe di primo acchito La Barbera a cui a causa della morte improvvisa per un tumore nel corso delle indagini, è stata data tutta la responsabilità di quell’azione dagli stessi vertici di Polizia. Vicari però lo disegna e lo tratteggia molto più simile per fisicità e per particolari – il modo di accendere la sigaretta, il modo di guardare e di parlare – a De Gennaro che però nel film non compare mai. Eppure elementi di una sua responsabilità sono emersi. Anche questa una scelta un po’ troppo ortodossa agli atti processuali e poco a quello che invece è emerso dai racconti e da tante dichiarazioni.
Forse Vicari poteva spingersi più in là e farci vedere o comunque intravedere più nitidamente le responsabilità di De Gennaro. Certo rimanere legati agli atti processuali permette di non essere attaccati, ma forse si poteva in qualche modo alludere anche alla verità ed alle tesi sostenute non solo dal movimento, ma anche da tanti giornalisti italiani. Comunque Diaz rimane un film importante perché chiarisce che il liberismo ha come modo di essere inseparabile la violenza e la tortura. Violenza che con declinazioni diverse rimane per intensità e per obiettivi tutta uguale: sia quella che è successa a Genova, quella che succede nelle strade d’Europa per chi è diverso e per chi non si vuole piegare a determinati paradigmi, sia quella della guerra globale e permanente fatta di Guantanamo, di Abu Graib – le stanze della caserma di Bolzaneto c’è le ricordano terribilmente – sia degli innocenti assassinati dalla violenza senza se e senza ma di tutte le parti che segnano questo nostro mondo.
Servirebbe un movimento dei movimenti nuovo che purtroppo è andato in frantumi in mille pezzi come quella bottiglietta di vetro che apre il film di Vicari e che diventa allo stesso tempo la scusa dell’assalto. In quella bottiglia che va in frantumi ci vedo la metafora di una generazione, di un sogno – l’altro mondo possibile – che va in mille pezzi. E Daniele Vicari in un rewind finale ci fa vedere la stessa bottiglia fotogramma per fotogramma ricomporsi e tornare unita. Un sogno, una finzione filmica, ma che diventa oggi una necessità ed un bisogno indispensabile.