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Dico a Rossanda: Mao era come Stalin

Publie le martedì 12 settembre 2006 par Open-Publishing
1 commento

di Antonio Moscato

A Pietro Ingrao non può essere rimproverata la mancanza di autocritiche.

Ripercorrendo la storia della sua vita in Volevo la luna e poi rispondendo a molti intervistatori, ha detto cose severe sulla sua accettazione dello stalinismo, a partire dalla condanna della rivoluzione ungherese, di cui si parla molto, un po’ perché tra poco ci sarà il cinquantesimo anniversario, un po’ per mettere in difficoltà Napolitano, che giustificò l’intervento sovietico.

Tra l’altro Ingrao ha accennato al discorso di Mao a Mosca nel novembre 1957, che ascoltò durante la Conferenza dei partiti comunisti di tutto il mondo, senza avere il minimo dubbio, come tutti gli altri, su quella concezione di un radioso avvenire costruito su centinaia di milioni di morti. Mao aveva detto che dopo la prima guerra mondiale il mondo socialista era arrivato a 200 milioni, e dopo la seconda a 900 milioni. Nella terza guerra mondiale potrebbe soccombere un terzo della popolazione mondiale, nella peggiore delle ipotesi anche la metà, “ma resterebbe sempre l’altra metà. L’imperialismo sarebbe distrutto radicalmente, e il mondo intero sarebbe socialista”. Ingrao oggi si vergogna di aver accettato un simile ragionamento, cinico e basato su un’ipotesi meccanicistica di ripetizione di quanto era successo al termine delle due guerre mondiali anche dopo un conflitto atomico.

Non tutti i suoi discepoli hanno lo stesso spirito autocritico. Rossana Rossanda, sul Manifesto del 9 settembre ha preso spunto da un’inchiesta televisiva di una rete franco-tedesca per un bilancio sostanzialmente apologetico dell’operato di Mao. La Rossanda ha ripreso - riferendolo a Mao - il giudizio espresso su Stalin: avrebbe fatto un 70% di cose giuste e un 30% di cose sbagliate. Mi chiedo come sia possibile considerare semplici “sbagli” (magari inevitabili) le decisioni che hanno portato decine di milioni di morti in vari momenti come il “grande balzo in avanti” del 1958 e la rivoluzione culturale. «A Mao dobbiamo l’esistenza della repubblica popolare», dice Rossanda, e aggiunge che «Grazie al suo 70%» comunque, «noi siamo in un giusto differente. Onore a Mao».

Alla specificità di Mao, secondo la Rossanda, «ben pochi in Italia hanno lavorato; cercammo di farlo noi del Manifesto, Aldo Natoli, Lisa Foa, K. S. Karol e io», e - bontà sua - con i loro libri, Edoarda Masi e Maria Regis di Vento dell’Est... Mi permetto di chiedere: mai sospettato che ci fossero anche i documentatissimi studi di Livio Maitan?

Rossana Rossanda è infastidita che nel documentario si interpretino le grandi decisioni di Mao come «le smanie per il potere di un capo». Eppure nel grosso volume di Philip Short (Mao, Rizzoli 2006), sia in quello ancor più articolato di Jon Halliday e Jung Chang, ci sono lunghi elenchi dei rivali emarginati e spinti alla morte. Perfino Zhou Enlai, suo preziosissimo collaboratore, ma sempre percepito come un possibile rivale, fu lasciato senza cure per il cancro fino a pochi mesi prima della morte.

Rossana Rossanda dice freddamente che la più illustre vittima fu «Liu Shaoqi (...) vecchio signore stupefatto che finirà i suoi giorni per mancanza di cure in una specie di galera-confino. A differenza dell’Urss, nessuno è messo al muro». Insomma: Liu era stato umiliato e calpestato, in senso letterale, da centinaia di studenti fanatizzati, come la moglie, vecchia militante. Ce n’è ampia documentazione fotografica.

Rossana Rossanda dubita delle cifre rivelate successivamente dagli stessi dirigenti cinesi. Ma se anche fosse vero, cosa sarebbe «un milione di morti su quasi un miliardo di popolazione»? Non riesco a seguirla: mi sembrano le considerazioni di Giulio Andreotti dopo Tien Anmen...

Rossana Rossanda dubita perfino della spiegazione della morte di Lin Biao, su cui dice: «Lin Biao che cerca riparo in grembo all’Urss è verosimile, si parva licet, quanto la Rossanda che presa a male parole perché non scrive che Mao è un criminale, cerca soccorso presso Condoleezza Rice». Non è così: il tentativo di rifugiarsi in Urss c’era stato davvero. Se i comunicati tardarono e furono reticenti, come hanno riferito tanti testimoni a partire dalla figlia di Deng, si doveva al metodo abituale di nascondere la verità. Il gruppo dirigente manteneva un ferreo controllo sui principali mass media. Così la morte non solo di Lin Biao, ma anche di protagonisti della rivoluzione come Liu Shaoqi o Peng Dehuai, non fu annunciata ai cinesi. E la stessa sorte toccò a Guevara.

Rossana Rossanda esalta l’incoraggiamento alla ribellione, presentato come eccezionale e unico. Ma “ribellarsi è giusto” è il principio di ogni rivoluzione, se riferito alla lotta contro le classi dominanti, mentre qualcosa di simile allo «sparare sul Quartier generale» si potrebbe trovare in vari momenti della resa di conti di Stalin con i suoi avversari nel partito. Possibile che la Rossanda e tanti altri compagni non si accorgessero che i bersagli indicati alle masse giovanili, inquiete per la loro condizione precaria, per la mancanza di sbocchi, per il carattere autoritario dell’insegnamento, non erano «borghesi» o ex compagni «che hanno imboccato la via capitalistica», ma protagonisti della lunga marcia, della rivoluzione e della stessa «esistenza della repubblica popolare», di cui la Rossanda attribuisce il merito al solo Mao?

Rossana Rossanda accenna marginalmente alla chiusura della rivoluzione culturale, riferendosi ai visi rigati di lacrime dei giovani che ascoltano l’annuncio da Mao e Zhou Enlai. Quando? Non è un problema marginale. Rina Gagliardi nel suo articolo “Cosa leggevamo nel Libretto rosso” (Liberazione 20/8/06) dice onestamente: «non sapevamo che le guardie rosse reali, in Cina, non c’erano più, nell’esatto momento in cui noi le eleggevamo a nostro punto di riferimento». Proprio così: la sterzata di Mao era avvenuta ben prima della formazione del gruppo del Manifesto. Già dal febbraio 1967 c’era stata la liquidazione delle Comuni, di cui l’8 agosto 1966 era stata auspicata l’elezione «con i criteri della Comune di Parigi». All’origine c’era il panico di fronte all’allargarsi del movimento agli operai, soprattutto a Shangai, dove era stato bloccato con metodi energici già alla fine del 1966.

Al posto degli organismi elettivi si introducevano dal gennaio 1967 i “comitati rivoluzionari” nominati in base alla «grande alleanza tra guardie rosse, l’esercito e la parte sana dei quadri di partito» (della cui stragrande maggioranza si auspicava il recupero). In poco tempo, alla testa dei comitati risultavano per il 98% ufficiali o membri dell’apparato burocratico “recuperati” dopo l’eliminazione di quelli additati da Mao come fautori della via capitalistica (senza che potessero replicare). Altro che «grande e unica esperienza democratica di massa»!

Milioni di giovani furono mandati a «rieducarsi nelle campagne».

Rossana Rossanda lamenta che «su tutta questa storia i comunisti, intendo gli ex, tacciono». Perché - mi chiedo - preoccuparsi degli ex comunisti? Per loro è logico, ed è quasi meglio che tacciano. A me preoccupa il silenzio dei comunisti, e in particolare di quelli che sono stati maoisti, e che per trent’anni hanno evitato di fare una riflessione su quel che era accaduto e quel che avevano immaginato. Paradossalmente, una rimozione più grave e sistematica di quel che ha accompagnato la scoperta dei “crimini di Stalin”, che oggi nessuno più nega.

http://www.liberazione.it

Messaggi

  • Ho seguito con interesse il dibattito seguito all’articolo di Rossana Rossanda con il suo articolo su Mao e trent’anni dalla sua morte. MI pare però che il breve corsivo della Rossanda, senza virgolette a scandire le parti "serie" da quelle da leggere con ironia, abbia dato origine ad una vera commedia degli equivoci, ed abbia in realtà riacceso questioni mai del tutto digerite.
    Prima di tutto però devo dire che la replica della stessa autrice non era caratterizzata da quella stessa ironia e complessità che aveva diffuso nel suo articolo. Mi colpisce che i più "attaccati" siano Moscato e la Gagliardi che non mi risultta siano passati a Forza Italia (come la Maiolo), e, soprattutto, mi colpisce la frase "Dovrebbero rivolgersi a un terapeuta" perchè ossessionati dal loro passato....
    Eppure non mi pare che l’articolo di Moscato meritasse una liquidazione di questo genere. Oggi, leggo la lettera di Raul Mordenti, e cado in una vertigine spazio-temporale: Moscato ha scritto sulla rivista Limes della "lobby confidustrial-militare" e quindi è, ipso-facto inaffidabil,e. Poi, utilizza e osa leggere libri filo-occidentali e governativi (!!!!). Si chiede Mordenti se si possa ragionare "di storia" e di "rivoluzione" "così". Cioè, preoccupandosi, suppongo, anche dei costi umani delle vicende storiche.
    Fare indagini e ricerche sui morti avvenuti durante le rivoluzioni fa diventare quindi, automaticamente dei controrivoluzionari, farlo a proposito dei morti del capitalismo invece è corretto.
    Mordenti non tocca centrali dell’intervento di Moscato: E’ davvero ancora possibile separare gli effetti dalle intenzioni (gli "sbagli")? Continuare a guardare alle vicende storiche sempre con l’occhio alle anonime "grandi masse" (o, a destra, alle grandi personalità),o, peggio, alle classi dirigenti? E’ possibile parlare delle rivoluzioni (anche quelle culturali) con occhio critico? Qui non c’entra se Stalin o Mao fossero "cattivi" (anche se è assai facile che questo giudizio sia una specie di capovolgimento della incensazione dei capi: a tale proposito quello trovo davvero delirante è il commento di Badiou sul culto della personalità contenuto nel volume "l’assalto al cielo"). No, secondo Mordenti questo modo di ragionare (di quelle che lui chiama "anime belle" complimenti!!) "conduce a lquidare [...] non solo Mao e Stalin, ma anche Lenin e Gramsci e tutta l’esperienza comunista": Ma pensa un po’, uno crede di analizzare e studiare testi, tesi e ipotesi, e si ritrova nel campo dei nemici di classe! Roba da essere "fucilati"!
    Si tratta di sillogismi davvero inaccettabili!
    Ma la conclusione di Mordenti è davvero notevole: citando un "rivoluzionario russo" ( Trotzsky non si può nominare?) La rivoluzione e i suoi costi non diventano una delle ipotesi possibili nell’ambito di una scelta umana condizionata da mille variabili, ma sono paragonati alla stessa inevitabilità della nostra venuta al mondo. Tra l’altro in quello scritto "il rivoluzionario russo" portava argomenti deterministici oggi davvero improponibili (o no?)
    Poi, invece di fare ipotesi sui "morti" che le rivoluzioni hanno evitato (ponendo quindi un arbitrario aut-aut, fra "quelle rivoluzioni" e la "non rivoluzione") non potremmo farle su come sarebbe stato possibile evitare i risultati che quelle rivoluzioni hanno portato?
    Insomma, se le argomentazioni portate al dibattito sono queste, altro che "due passi indietro"!

    Andrea