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Direttivo Cgil : No, non è l’inquisizione, ma ci assomiglia ........

Publie le mercoledì 24 ottobre 2007 par Open-Publishing
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Si manifesta esplicitamente e teatralmente l’insofferenza e l’ostracismo di questa maggioranza verso ogni forma di dissenso interno.

Nel documento conclusivo di decide a maggioranza (col voto contrario di Fiom, Rete28aprile e Lavoro-Società) di avviare una verifica interna ed a tutti i livelli per l’individuazione delle responsabilità formali e politiche di chi, in dissenso col capo, ha sostenuto il NO all’accordo del 23 luglio.

No, non è l’inquisizione, ma ci assomiglia ........

Tutto come da copione.

C’è un gruppo dirigente che ha deciso di voler disporre totalmente ed incondizionatamente di una organizzazione che, essendo movimento di massa e non "partito", è invece, per sua natura plurale.

E’ ora di finirla (pensano) che un gruppo dirigente sia costretto a rappresentare, a rendere conto, ed a garantire nella pratica di tutti i giorni la linea che un democratico congresso decide. Questo gruppo dirigente ambisce a essere riconosciuto come "leader" ossia proprietario dell’organizzazione che dirige e non semplicemente il rappresentante di decisioni che solo una partecipazione democratica può definire.

Ma una storia come minimo centenaria, una cultura antica che ha formato generazioni di dirigenti sindacali, una organizzazione di massa, democratica, partecipativa, che è cresciuta con la partecipazione, col sudore (e col sangue) di tanti militanti e lavoratori non può essere cambiata, nella forma e nella sostanza, se non per via coercitiva.

Così succede che si apre una trattativa senza una piattaforma discussa e votata dai lavoratori

Così succede che si conduce una trattativa in condizioni dove è sempre più evidente che le possibili conclusioni sono lontane anni luce dalle stesse parole d’ordine di questo gruppo dirigente, senza che questo senta la necessità di fermarsi un attimo a fare una verifica tra i lavoratori e nei vari livelli dirigenti della sua organizzazione.

Così succede che si arriva a firmare un accordo (tanto brutto che questo stesso gruppo dirigente lo firma con vistoso imbarazzo e titubanza) senza alcuna consultazione di mandato dei lavoratori e dei vari livelli dirigenti dell’organizzazione.

Ma questo gruppo dirigente aveva già deciso di firmare questo accordo, non già per il merito sindacale dello stesso, ma perchè così si poteva partecipare a pieno titolo a quel processo di trasformazione della società in senso neocorporativo a cui già aderivano le altre organizzazioni sindacali (Cisl-Uil), le forze politiche liberiste (presenti sia nel centrosinistra che nel centrodestra) e la Confindustria.

Certo un passaggio non facile, sopratutto se pensiamo che questo gruppo dirigente è stato per anni impegnato a contrastare questo processo, anche spinto dalla mobilitazione della sua base, contro l’abrogazione dell’articolo 18, contro il "Patto per l’Italia", contro la Legge 30, difendendo la Fiom costretta a subire accordi separati proprio per difendere la coerenza con gli obiettivi confederali.

Un passaggio non facile quindi che poteva realizzarsi solo escludendo dalla gestione della trattativa che ha portato all’accordo del 23 luglio sia la partecipazione dei lavoratori che la discussione con i vari livelli dirigenti dell’organizzazione. Una gestione democratica e partecipativa gli avrebbe legato le mani. Cosa inaccettabile perchè era grande l’urgenza di questo gruppo dirigente di potersi schierare dentro al nuovo contesto neocorporativo.

Sappiamo che il referendum ha infine approvato l’accordo, ma sappiamo anche come è stato gestito questo referendum.

Ai lavoratori non è arrivata una corretta informazione ma solo messaggi e pressioni di tipo propagandistico, paventando scenari disastrosi e pericolosi in caso di non approvazione.

Si è fin dall’inizio attaccata ogni voce critica che su quell’accordo, accusata di perseguire progetti destabilizzatori, decisi e complottati all’esterno, da oscure operazioni politiche.

Si è con determinazione voluto presentare un risultato finale esageratamente celebrativo del consenso all’accordo la cui reale consistenza potrà essere verificata solo quando e se saranno resi pubblici i dati disarticolati per azienda e seggio esterno, una consistenza comunque ridimensionabile se verificata solo sui lavoratori attivi (cioè sugli unici il cui voto può essere certificato e verificato)

Ma tutto questo non basta.

Questo gruppo dirigente vuole il controllo totale dell’organizzazione ed usa teatralmente il risultato referendario come una clava, come un 11 settembre sindacale, per poter dire e giustificare che è ora di farla finita con la dialettica interna all’organizzazione.

La linea è una sola (quella decisa di volta in volta dalla segreteria nazionale e non quella congressuale) e chi la critica è fuori dall’organizzazione. Saranno tollerate solo le manifestazioni critiche che si esprimono sottovoce nei sottoscala della sede sindacale o nelle battute da bar, ma non saranno tollerate quelle che verranno rese esplicite anche all’esterno delle sedi sindacali. Nessuno, infatti, deve sapere che il capo non ha il completo controllo dell’organizzazione e che anche al suo interno non gli mancano le critiche.

Alla Fiom viene quindi contestato l’obbrobrietà del fatto che un pezzo importante della organizzazione abbia permesso al suo direttivo nazionale di discutere e di esprimere un parere diverso da quello sostenuto dal "leader" maximo. Alla Fiom viene quindi chiesto se intende continuare così oppure se accetta di smetterla di contraddire sempre il vertice confederale.

A Lavoro e Società si chiede se voglia rimanere o no in quella maggioranza con cui ha firmato un patto precongressuale che le ha permesso di mantenere il suo apparato senza dover passare per una verifica congressuale, minacciandola di considerare decaduto quel patto con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe in termini di posti in apparato in meno.

Alla Rete28 aprile, semplicemente, si chiede di togliersi dai coglioni, preannunciando un ricorso formale alla commissione di garanzia con l’accusa di "tradimento" per aver contestato evidenti e circonstanziate incongruità nell’applicazione delle regole che dovevano governare il referendum e per aver preannunciato che continuerà la sua azione critica verso la svolta imposta alla Cgil dal suo attuale gruppo dirigente.

Il sindacato è per sua natura un organismo di massa, dove non esistono verità sacrali ed immutabili, e dove l’unico riferimento della discussione è "come meglio rappresentare il quadro dei bisogni espresso dai lavoratori e dalle loro famiglie". Per sua natura quindi il sindacato è una struttura aperta e partecipativa che si manifesta attraverso lo svolgimento di confronti tra opzioni diverse legittimate dall’essere espressioni di posizioni e proposte che derivano dal confronto con la propria base.

Lo stesso Statuto della Cgil permette non solo il diritto alla critica ma anche il diritto di questa ad organizzarsi ed a rendersi visibile anche attraverso l’utilizzo dei mezzi e delle strutture disponibili nell’organizzazione.

In un sindacato normale quindi tutte le posizioni hanno pari dignità e solo il voto dei lavoratori, nei congressi e nelle consultazioni, può produrre una sintesi tra queste diverse posizioni, dando loro un peso ed una misura.

La maggioranza governa quindi ma non può impedire ad una minoranza il diritto di continuare ad esistere ed a rappresentare il diverso sentire che emerge dai luoghi di lavoro.

L’alternativa è infatti una specie di centralismo democratico nel quale una maggioranza accetta il dissenso interno ma non ne tollera il suo essere visibile.

Il Direttivo Cgil conclusosi ieri ha deciso che la Cgil non è più un organismo di massa ma una struttura nella piena disponibilità del suo gruppo dirigente. Una vera rottura con la tradizione della Cgil ed una omologazione al modello Cisl e Uil.

Si è quindi aperta una grossa battaglia il cui esito sarà la riconquista di un modello sindacale contrattuale e rivendicativo oppure la definitiva trasformazione dell’organizzazione sindacale in una organizzazione autoreferenziale al suo gruppo dirigente.

Fiom, Lavoro e Società, Rete28aprile sono realtà e percorsi distinti e diversi ma rappresentano oggi, tutti assieme, l’unico fronte di resistenza alla deriva della Cgil verso un’organizzazione centralistica e ordinata non già attorno ad una piattaforma discussa e condivisa ma attorno al suo gruppo dirigente ed al ruolo che questo vuole giocare nelle nuove relazioni neocorporative.

Pur nella loro diversità possono rappresentare i soggetti di una piattaforma comune in difesa della libertà di critica e della difesa di un modello sindacale basato sulla partecipazione e su una democrazia che si fonda nel diritto dei lavoratori di decidere sulle piattaforme e sugli accordi.

Una battaglia che ha il peso di una discussione congressuale che in qualche modo dovrà trovare forme e percorsi di espressione comune. L’alternativa è il disastro, è la fine definitiva del sindacalismo contrattuale e partecipativo.

24 ottobre 2007

COORDINAMENTO RSU

Related Link: http://www.coordinamentorsu.it

Messaggi

  • La lotta continua

    Intervento di Giorgio Cremaschi al Comitato Direttivo Cgil del 23 ottobre 2007

    Una discussione che conclude una consultazione che ha visto prevalere il sì senza che, come ha confermato tutto quello detto qui sinora, si sia concessa legittimità politico-sindacale a quella parte dei gruppi dirigenti che avevano scelto o sostenevano il no, si conclude con un processo politico e un rinvio a giudizio per quegli stessi gruppi dirigenti. Solo i lavoratori, è stato detto, avevano il diritto al no, non i gruppi dirigenti e purtroppo un’idea estesa di gruppo dirigente si è diffusa nei territori, visto che in alcune realtà ci sono i segnali dell’avvio di una vera e propria caccia alle streghe nei confronti di delegati e militanti della Cgil che hanno fatto campagna per il no.

    Potrei chiudere qui il mio intervento, sottolineando che quello che si compie non è solo un’incredibile ingiustizia politica, ma anche un errore, soprattutto un errore che danneggia e indebolisce l’organizzazione alla vigilia di passaggi politici e sociali durissimi per il mondo del lavoro.

    Dopo più di trent’anni di quello che io considero un onorato lavoro dalla parte giusta, essendomi sempre sentito un cittadino e non un suddito di quest’organizzazione, ora però provo il bisogno di rispondere alle offese, alla mancanza di rispetto personale, alle meschinità che qui ho sentito.

    Ho fatto campagna per il no e lo rivendico come diritto in una consultazione ove il sì e il no avrebbero dovuto avere pari dignità, essendo il voto quello che alla fine decide. Ho considerato la campagna per il no un modo per rafforzare e valorizzare una consultazione che in tante parti del paese e dei luoghi di lavoro veniva considerata inutile e scontata. Ho contribuito a suscitare partecipazione tra militanti e iscritti alla Cgil con questa consultazione, pensando che questa militanza avrebbe portato nuove energie e forze al sindacalismo confederale e soprattutto tra i giovani.

    Ho creduto nella correttezza di una consultazione nella quale, pur con un regolamento che impediva la pari dignità alle due posizioni fosse data piena possibilità ai consultati di esprimersi liberamente.

    Ho chiesto agli organi competenti, ben prima che si aprisse una discussione pubblica su questi temi, impegni e garanzie in questa direzione, con una mia lettera il 27 di settembre che non ha ricevuto alcuna risposta. Ho ricevuto decine e decine di denunce di irregolarità da parte di persone perbene, di iscritti e militanti che erano andati fiduciosi al voto e che riscontravano cose che a loro non piacevano e soprattutto non si sarebbero mai aspettate.

    Tutti mitomani o provocatori? Anziani pensionati, giovani lavoratori, tutti al soldo di un complotto contro la Cgil? Ma non scherziamo. In ogni caso ho provveduto a girare tutte queste denunce, che sono decine e decine, alla Commissione nazionale. Spetterà ad essa decidere cosa farne. Quello che io ho dato alla stampa è semplicemente la notizia di questo: fatti e chi dice che io ho fatto accuse di brogli non avendo prove mente due volte, perché non ho mai parlato di brogli ma ho esercitato il mio legittimo diritto di iscritto di pretendere la correttezza del voto ovunque e ho fatto pervenire alla Commissione competente denunce firmate con nome e cognome.

    Dire o insinuare che Giorgio Cremaschi avrebbe consapevolmente inventato dei brogli inesistenti per danneggiare la Cgil nella consultazione, è una calunnia che respingo al mittente, chiunque esso sia, contro la quale mi difenderò nel nome del diritto al rispetto che viene prima di qualsiasi cosa.

    La consultazione ha dato un responso chiaro, tranquillizzo i compagni, possono leggerlo anche sui volantini della Rete, abbiamo detto che ha vinto il sì. E, tuttavia, è un voto che andrebbe letto, studiato, non brandito come una clava contro il dissenso. L’unica cosa che condivido della relazione di Epifani è il fatto che non si può usare la categoria del disagio, che è di tutto il mondo del lavoro, per interpretare il no. Per me il no è semplicemente un’altra posizione, un altro giudizio sull’accordo. Un giudizio difficile da dare visto che, al di là delle condizioni materiali della consultazione, era evidente che essa non era uguale a quella del ’95, ove tutti i consultati perdevano qualcosa, mentre con questo protocollo c’era chi guadagnava, chi perdeva di meno, chi perdeva di più. Occorreva una mediazione culturale e politica, sia per il sì, sia per il no. E io penso che pur essendo minoranza 1.000.000 di no, di cui solo 300.000 dei metalmeccanici e 700.000 nelle altre categorie, visto che tra i pensionati il no è inesistente, dovrebbero far riflettere e non essere considerati davvero solo un disagio o figli di un complotto. Certo il sì ha vinto con 4.000.000 di voti, di cui però sarebbe utile ragionare sul fatto che più di 1/5 si trovano in due sole regioni che, peraltro, assieme hanno anche più di 1/5 di tutti i votanti e hanno raddoppiato la partecipazione al voto rispetto al 1995 quando in gran parte del centro nord essa è calata. Un compagno ha dichiarato che parlare di questo è razzismo antimeridionale. Al contrario, l’organizzazione dovrebbe esaltare le virtù troppo nascoste di una capacità di organizzare una partecipazione al voto là dove il lavoro è disperso, superiore che nei grandi centri industriali. Ricevo ogni tanto dalla Toscana i dati del lavoro minuzioso di un compagno che segue l’artigianato e il piccolo commercio e i suoi successi e le sue difficoltà si contano spesso sulle unità. Così pure scontiamo sempre una grande difficoltà a far partecipare alla vita sindacale le figure professionali più alte. Ebbene, in Campania hanno partecipato al voto più di 40.000 edili e più di 60.000 dipendenti del mondo della scuola e dell’università. Ecco, io credo che la capacità di organizzare le persone di questi compagni dovrebbe essere messa a conoscenza di tutta l’organizzazione e valorizzata, perché abbiamo tutti da imparare da loro.

    La segreteria confederale, nella sua relazione, non ha inteso dare dignità di interlocuzione a chi nel gruppo dirigente ha sostenuto il no. Ci sono quelli come me che hanno delegittimato l’organizzazione, quindi finiranno in Commissione di garanzia (consiglierei alla segreteria minor ipocrisia, non siamo alla Camera dei Lord e se la segreteria confederale fa capire che “di Cremaschi si occuperà la Commissione di garanzia”, vuol dire che è la segreteria che vuole che questo accada e quindi se ne deve assumere le responsabilità politiche). C’è il gruppo dirigente della Fiom, che agisce per ragioni politiche esterne all’organizzazione e per questo decide di votare no nel Comitato Centrale, c’è Lavoro Società che, a Firenze, organizza manifestazioni che sono accostate al terrorismo. Mi pare chiaro che questa segreteria e questa maggioranza non ha nessuna voglia di discutere. Se posso dirlo non l’ha mai avuta, dal congresso in poi non ricordo un solo momento nel quale ci si sia potuti fermare davvero a riflettere sulle difficoltà, sugli smacchi, sulle contraddizioni che erano di fronte alla Cgil. Mai una vera analisi della realtà. Eppure stiamo andando alla crisi del sistema politico, all’attacco al sistema contrattuale, all’affermazione brutale da parte Cisl e Uil, come neanche avveniva quando c’era al governo Berlusconi, della validità della legislazione sul lavoro, ma di tutto questo non si discute. Ricordo il dramma della notte del 23 luglio, le parole pesanti, le dichiarazioni di fine della concertazione, il senso di umiliazione che percorreva il gruppo dirigente. Ebbene tutto questo si è scaricato addosso a chi ha sostenuto il no.

    No, così non va, così si porta l’organizzazione a drammatiche sconfitte, da parte di un gruppo dirigente che più il tempo passa e meno si mostra all’altezza. Questo almeno è il mio giudizio e su questo pretendo di essere giudicato.

    Ieri una delle fabbriche dove il no è stato grande maggioranza, la Same di Bergamo, ha scioperato in massa per il contratto, in aggiunta al pacchetto di ore nazionali, è la prima in Italia. Ecco, io penso che chi ha impostato il direttivo in questo modo non ha valutato le conseguenze che possono avvenire una volta che usciamo da questa sala e il nostro rapporto con una parte dei lavoratori che non considerano anch’essi i loro no un disagio, ma parte di una battaglia politica legittima dentro il loro sindacato. E’ un errore grave, così come è senza senso la discussione sui limiti del dissenso. Il dissenso che non ha il diritto di essere pubblico è un dissenso che non esiste, senza diritti. Le maggioranze hanno già la forza della maggioranza, senza avere bisogno di cancellare l’esistenza pubblica di un’altra posizione. Questo almeno in una democrazia e in una democrazia moderna nella quale, per fortuna, con tutte le sue contraddizioni ci sono i giornali, la televisione, internet e tutto il resto. No, non vedo nulla di positivo nella discussione legge-ordine, nel tentativo di affermare nella Cgil un centralismo democratico che non ha mai fatto parte della storia di questa organizzazione, neppure negli anni Cinquanta. No, non vedo nulla di positivo nel fatto che usciti da questo direttivo comincerà il processo politico a Gianni Rinaldini e quello disciplinare a me, e forse anche ad altri.

    Sinceramente, dopo trent’anni verrebbe voglia di rassegnarsi e di pensare a una propria vita migliore. Tuttavia sabato, in una grande manifestazione, ho visto sul palco un comunista di oltre novant’anni dire semplicemente “la lotta continua”, e quindi anche per me, nonostante tutto, la lotta continua dentro la Cgil per cambiare la Cgil.

    Giorgio Cremaschi

  • Protocollo. C’è ancora chi dice No

    Finalmente sono disponibili i risultati complessivi e definitivi del referendum sul protocollo del 23 luglio. Risultati di cui prendiamo atto, ben coscienti degli spaventosi deficit di democrazia e di "par condicio" in cui quel referendum si è svolto. Anzi, occorre dirlo, se un referendum con quelle regole (assemblee agibili solo per i sostenitori del Sì, platee, calendari, modalità di voto, scelta dei seggi, ecc. determinati solo da una delle due parti in causa) si fosse svolto nella Repubblica bolivariana di Chavez, ci sarebbe stato chi avrebbe chiesto l’intervento degli osservatori internazionali.

    Ma questo referendum, o meglio questa consultazione plebiscitaria, non riesce a nascondere né ad attenuare l’evidente disagio sociale che pervade il mondo del lavoro.

    Se un operaio si impicca dentro la sua fabbrica non per motivi sentimentali, ma perché è umiliato dalla sua incapacità di far fronte ai debiti; se perfino il padrone di una piccola azienda, toccato dall’aver volontariamente sperimentato (ma solo per una ventina di giorni) le rinunce obbligatorie per tutta la vita per i suoi 19 dipendenti a causa dei livelli salariali, si sente in dovere di elargire loro un aumento di 200 euro mensili, neanche l’82% di sì può mascherare quel disagio.

    Epifani, introducendo il direttivo nazionale CGIL del 22 ottobre, afferma che i sì "esprimono la condivisone sui contenuti dell’accordo, la fiducia nel sindacato, la fiducia nelle possibilità di cambiamento, il riconoscimento di aver fatto quanto possibile".

    In realtà, i sì, nella loro grande maggioranza manifestano solo una classe lavoratrice sotto il ricatto del peggio, stretta nella morsa della padella di Prodi e della brace di Berlusconi, rassegnata perché segnata da decenni di sconfitte subite dalle direzioni confederali, spesso accettate e qualche volta (come in questo caso) perfino presentate come vittorie. Altro che "senso di responsabilità, autonomia e unità, solidarietà, coraggio di rischiare, confederalità" (è sempre Epifani).

    E come si fa a non vedere la stridente contraddizione tra il protocollo e quanto affermato nelle tesi congressuali approvate (almeno per queste parti) all’unanimità dal congresso CGIL del 2006 (citiamo dalla tesi 5 "Un’occupazione solida e stabile": "Si deve e si può cambiare strada. Andare oltre la legge 30 significa ribaltarne l’intera filosofia: vanno infatti cancellate tutte le norme che precarizzano il rapporto di lavoro e favoriscono la destrutturazione e l’impoverimento dell’impresa; vanno cancellate le norme che indeboliscono la contrattazione collettiva; vanno cancellate le norme che alimentano ulteriori forme di svantaggio. Questo significa per noi cancellare la legge 30 e sostituirla con un sistema di norme e diritti complessivamente alternativo, partendo dalle nostre proposte")? Proposte sulle quali la CGIL aveva raccolto 5 milioni di firme, durante la campagna contro lo smantellamento dell’articolo 18. Cinque milioni di firme contro la legge 30, non perché da essa fosse espunto il job on call.

    E non c’è contraddizione tra quanto scritto nel protocollo sulle pensioni e la tesi 7 "Uno stato sociale inclusivo, efficiente e di qualità": "La priorità è quella di cambiare radicalmente i peggioramenti alla precedente normativa contenuti nella Legge approvata nel 2004 dal Governo Berlusconi, a partire dall’inaccettabile scalone che dal gennaio 2008 azzera la regola del pensionamento flessibile e volontario e perché non risolve ma accentua tutti questi problemi e, al contrario occorre rafforzare e integrare gli strumenti della riforma del ’95"? Come si fa a sostenere, soprattutto da un punto di vista confederale, che gli scalini di Damiano siano un cambiamento dello scalone Maroni? È come se, dopo che qualcuno ti aveva minacciato di tagliarti di netto un braccio alla data fatidica del 1 gennaio 2008, tu cantassi vittoria perché sei riuscito a concordare tre tagli progressivi, un anno dopo l’altro, però sempre arrivando alla spalla.

    Lo stesso sul tempo determinato, al cui riguardo la CGIL decise coraggiosamente di non apporre la propria firma sull’avviso comune, concordato, si badi bene, da CISL e UIL nel 2000 non con il governo Berlusconi, ma con quello di centrosinistra di Giuliano Amato, sostenendo che la cancellazione delle causali e dei tetti percentuali erano un regalo ai padroni. Oggi firma e presenta come una vittoria un protocollo che riconferma tale cancellazione.

    E sulla competitività? Quante volte abbiamo ascoltato il refrain di Epifani per cui il sistema delle imprese italiano subiva la concorrenza internazionale perché la rincorreva invano sul versante del costo del lavoro e non la contrastava con un’efficace politica di ricerca e innovazione produttiva? Oggi si firma un protocollo nel quale le uniche scelte in direzione della competitività sono la detassazione e la decontribuzione del salario variabile e degli straordinari.

    E sempre per restare in tema, che effetti provocano queste defiscalizzazioni (leggi: ancora soldi alle imprese) in materia di politiche contrattuali? Non era forse il Contratto nazionale nel mirino di Confindustria (con l’appoggio di CISL e UIL)? E che dire della questione dei contratti pubblici, ormai triennalizzati d’ufficio dal governo omettendo ogni finanziamento per il bilancio del prossimo anno?

    Sono tutte domande che retoricamente rivolgiamo al gruppo dirigente della CGIL (a quelli di CISL e UIL ci sembrerebbe, francamente, grottesco, visto che il 20 ottobre hanno deciso di "manifestare" in sostegno della precarietà, con la destra e con la Bonino), ma che soprattutto devono porsi, per decidere che fare, i gruppi dirigenti sindacali che, dall’interno o dall’esterno della confederazione di Corso d’Italia, hanno dato battaglia a sostegno del No.

    Fabrizio Burattini

    CGIL Roma Sud

    via del Velodromo, 80 - 00179 Roma

    tel. +39.06.787810

    fax +39.06.7886623

    cell. +39.348.8101712

    email burattini@lazio.cgil.it

  • Siamo tutti da inviare alla Commissione di Garanzia della Cgil ....

    Cari compagni dopo aver letto la relazione di Epifani e le sue accuse rivolte a Cremaschi e a tutti coloro che a testa alta hanno votato No e sostenuto la vera Democrazia,cioè la possibilità, il diritto al pensiero diverso da quello che la maggioranza di palazzo aveva espresso,mi viene da dire ad Epifani che 1.000.000 di uomini e donne devono avere lo stesso trattamento di Cremaschi,perchè ritengo sia doveroso da parte di un’organizzazione dare la Democratica possibilità a chiunque di esprimere il proprio parere.

    Fra l’altro mi viene da chiedere al mio Seg. Epifani 2 cose:

    la prima che le contestazioni che Cremaschi ha posto in merito ad alcune situazioni dubbie di voto al Referendum,sono state trasmesse e sollevate da noi comuni mortali (lavoratori)e da me in particolare,che mi sono reso conto che per esempio un Call-Center di 600 persone circa nel territorio di Bari non ha votato e non sapeva nemmeno nulla di assemblee informative sul Protocollo.

    Domanda chi è sotto accusa Cremaschi o questi dirigenti territoriali che hanno omesso i loro compiti?

    Secondo,lei caro Seg Epifani ritiene che sia decoroso il suo atteggiamento in Tv in merito al risultato del Referendum,cioè l’espressione "Cappotto",io penso che si debba vergognare,e questo è un tema da affrontare in Commissione Garanti,e lo pongo io iscritto alla Cgil chiedendo che venga fatto.

    Inoltre dico che Cremaschi è un degno rappresentante della nostra Confederazione e che ha un parere diverso da quello vostro perchè attraversa la Nazione da Milano a Palermo,va nei luoghi di lavoro dove il disagio è enorme non solo per i salari da fame ma anche per le condizioni di vita,ecco Epifani cosa ha Cremaschi che tu non hai.

    Infine se in Cgil non si apre una vera discussione su questi temi Democrazia e Autonomia,la nostra Confederazione butterà i 100 anni di storia che l’hanno caratterizzata e distinta nella difesa del sociale e delle masse.

    Massimo Paparella Bari