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Direzione nazionale PRC 11 Febbraio 2009 - Intervento di Bruno Steri

Publie le giovedì 12 febbraio 2009 par Open-Publishing

Direzione nazionale PRC 11 Febbraio 2009 - Intervento di Bruno Steri

di Bruno Steri

Quando nella risoluzione presentata a questa Direzione – che condivido integralmente – facciamo riferimento al “fallimento del modello neoliberista”, alla clamorosa involuzione di quella “globalizzazione capitalistica” che ha prodotto la crisi economica in cui siamo immersi, non usiamo delle formule rituali. Noi pensiamo effettivamente quello che diciamo: e aggiungo che, in questa drammatica congiuntura, noi abbiamo effettivamente delle cose da dire (e fare) che altri, entro i limiti della loro opzione ideologica, non possono dire (né fare). Concordo con chi ha affermato che le scelte per la prossima scadenza elettorale e l’analisi della crisi in corso sono strettamente intrecciate: da questa seconda discendono le prime.

Non può sfuggire cosa sta accadendo oggi intorno a noi. C’è un’emergenza nell’emergenza. Infatti le misure adottate in tutti i Paesi dell’Occidente, a partire dagli Usa, per fronteggiare l’emergenza stanno drammaticamente fallendo. Vi invito a leggere, se non l’aveste già fatto, l’articolo di Mario Platero comparso l’altro ieri sul Sole 24 Ore. Vi sono a volte brani giornalistici che oltre a sintetizzare una certa situazione costituiscono dei veri e propri cartelli segnaletici: segnalano l’eccezionalità di una prospettiva. L’articolo in questione riassume in poche parole quello che è successo in questi ultimi mesi, da settembre dell’anno scorso ad oggi: per limitarci ai soli Stati Uniti, vi sono stati ben due mega-interventi tesi a tamponare, a suon di centinaia di miliardi di dollari, la falla apertasi nel sistema bancario. Oggi ci dicono che queste ingenti risorse sono state letteralmente risucchiate nel buco nero senza produrre alcuno degli effetti desiderati. Già due volte hanno fallito. Ed ora provano per la terza volta, con il piano di Obama e Summers. Il clima è quello del “o la va o la spacca”. E, tanto per chiarire il punto a cui siamo giunti, si precisa che è ben difficile immaginare un quarto intervento. Siamo cioè all’ultima spiaggia: nel senso che, qualora fallisse anche questo tentativo, ci si dovrà rassegnare e sopportare tutti gli effetti dirompenti della crisi (in verità, a “sopportare” saranno sempre i soliti noti).

Ma qui va precisato un punto. Noi usiamo il termine “neoliberismo” riferendoci alla forma assunta dalla globalizzazione capitalistica e, tra l’altro, con ciò giustamente evochiamo il grande movimento planetario che ad essa si è opposto in questi anni. Ma non deve sfuggirci anche un uso ristretto - tecnico - del temine, che allude alle politiche di bilancio e taglia-salari prodotte dalle impostazioni monetariste. E dobbiamo sapere, però, che a far danni non c’è solo la “deregulation”: oggi sono infatti all’opera provvedimenti eccezionali, alquanto frettolosamente definiti “keynesiani”, che rischiano di aggiungere danno al danno. Si dice comprensibilmente: non c’è altra strada, siamo obbligati ad agire e agire in fretta. Ma, attenzione, c’è anche qua e là la consapevolezza che contrastare una crisi da debito (privato) – una crisi profonda, strutturale, del tutto inassimilabile ai precedenti frangenti critici - con un ulteriore indebitamento (pubblico), non solo può risultare inefficace, come finora è stato: può inoltre significare imboccare una strada altrettanto pericolosa. Si legga anche oggi il Corriere della Sera: non possiamo fare altrimenti – si dice – ma sappiamo che domani potremmo trovarci ad affrontare un default del debito sovrano, quello cioè che sta in capo ad interi Stati: in cima alla lista sono i Paesi meno attrezzati come Grecia, Portogallo, la stessa Italia (i Pigs, come sono stati etichettati).

Ecco il punto. Loro sanno tutto questo, ma non possono fare altro. Non possono e non vogliono, perché non hanno nessuna intenzione di aggredire la struttura di classe della società in cui operiamo, perché non sono disposti ad adottare misure che intacchino in modo consistente l’ineguale distribuzione del reddito. Ecco perché noi – i comunisti – abbiamo molte cose da dire: possiamo e dobbiamo proporre – come del resto abbiamo fatto nell’ottimo documento uscito dall’ultimo Comitato politico nazionale – quelle misure che lorsignori si ostinano a ignorare. Non semplicemente soldi alle banche senza contropartite; ma consistente redistribuzione del reddito (penalizzando i grandi patrimoni), nazionalizzazione dei principali istituti di credito e costituzione di un polo pubblico per un credito selettivo. E tutto il resto.

Ecco perché l’analisi della crisi ha molto a che fare con le scelte elettorali. Senza Rifondazione, senza una sinistra anticapitalistica, queste misure sono destinate a restare lettera morta. E la crisi continuerà a galoppare. Ecco perché occorre una chiara e netta cesura rispetto all’esangue Partito democratico. E occorre lanciare un appello unitario, ma non rivolto a chicchessia: un appello a quelle forze comuniste e anticapitaliste – partiti, associazioni, forze sociali e di movimento – disponibili ad un’unità d’azione, per una presenza comunista e anticapitalista in queste elezioni europee. Cosa significa ciò, concretamente? Intanto, significa due cose: No al Trattato di Lisbona (fotocopia del Trattato costituente già bocciato da francesi e olandesi e mai giudicato con il voto dai cittadini italiani); chiaro riferimento al gruppo parlamentare del Gue (Gauche unitarie européenne), collocato a sinistra del Ps europeo, di quello schieramento cioè che in questi anni è stato compartecipe delle politiche liberiste e dell’assetto a-democratico dell’Unione europea. Siamo per la massima unità possibile, ma siamo anche contro i pasticci. Pensiamo che gli elettori non debbano essere presi in giro, con liste-pastrocchio che includano tre o addirittura quattro divergenti prospettive (noi col Gue, Sd e socialisti col gruppo socialista, i Verdi col gruppo verde e, addirittura, Pannella con i liberali). Vorremmo possibilmente essere e restare gente seria. Per questo vogliamo aprire la nostra lista, al di là del limite di una nostra presuntuosa autosufficienza; e, nel contempo, proporre una prospettiva credibile a coloro a cui chiediamo un voto.