Home > Domande a Bertinotti sul capitalismo

Domande a Bertinotti sul capitalismo

Publie le lunedì 22 settembre 2008 par Open-Publishing
2 commenti

Domande a Bertinotti sul capitalismo

di Carla Ravaioli

Quando la rapida affermazione della società dei consumi, il benessere che poco o tanto raggiungeva tutti i ceti sociali, andava cambiando la faccia del nemico storico dei partiti operai; e insieme cambiava il corpo sociale di quegli stessi partiti. L’auto, il frigo, la tv, impostisi come valori simbolici, ben più significativi della loro reale utilità, già si facevano agenti di una nuova antropologia. E’ da allora che, nei fatti, anche se mai nelle parole, per le sinistre come per tutti, il capitalismo viene assunto come sistema capace di crescere fino a produrre ricchezza per tutti; sistema dunque privo di alternative, da contrastare solo per ottenere le migliori condizioni possibili per i lavoratori. In sostanza la rivoluzione viene sostituita dal riformismo: ciò che ha (relativamente) funzionato per un certo periodo, ma ormai, come constatiamo ogni giorno, risulta sempre meno adeguato a una realtà non più in alcun modo "riformabile".

Per questo, caro Fausto, rimango sorpresa, anche se molto piacevolmente, da quanto affermi. Ma qui mi sorgono altre domande. Tu dici (e come sempre lo dici molto bene) che non sono solo gli obiettivi immediati (più salario, orari più brevi, diversa organizzazione del lavoro, ecc.) a conferire significato e valore alle lotte: «è la libertà degli espropriati di agire, di non ridursi a una variabile dipendente della crescita economica, di conquistare per questa via una libertà fin’allora negata»; ciò che serve a fare crescere l’intera società, a farne «lievitare la qualità democratica e le speranze». Perfetto. Ma il conflitto, praticato nelle sue forme storiche, di confronto tra lavoratori e "padrone", può ancora svolgere a pieno questa funzione? Non credi sia necessario spingere lo sguardo verso orizzonti finora - a me pare - praticamente ignorati dalle politiche del lavoro?

Mi spiego. La globalizzazione - buona o cattiva che sia - è un fatto, e un fatto decisivo rispetto a una serie di problemi: il mercato del lavoro innanzitutto, che si trova a confrontarsi con le sempre più folte migrazioni dal sud del mondo e con i salari stracciati dei paesi emergenti; ma più ancora il fatto che ogni organismo produttivo è oggi, volente o nolente, inserito nel mercato internazionale. Così che, ad esempio, l’imprenditore che delocalizza la propria azienda, o tende ad aumentare quanto possibile la quota dei precari nel suo organico, certo come sempre punta a massimizzare il suo profitto, ma obbedisce anche al fatto che oggi precarietà e massimo sfruttamento del lavoro sono gli strumenti obbligati di una competitività che certo appartiene alla storica "forma capitale", estremizzata però nella sua attuale versione neoliberista, e fattasi via via più feroce sotto l’incubo della crisi. Siamo sicuri che, in questa situazione, sia ancora possibile "rivendicare la necessità democratica del conflitto", e che non sia invece necessario proprio quel "superamento del capitalismo" che tu dai come consapevole obiettivo delle sinistre?

Certo, le ragioni perché questo sia, e possa magari in un immediato futuro trovare concretezza di azione politica, non mancano davvero. Ed è la stessa crisi che sta squassando il mondo, al di là delle sue immediate ricadute pesantemente negative sulla vita di tutti, e dei lavoratori in particolare, a dirne ormai la necessità.

Crisi complessa e multiforme, ma riconducibile e una causa fondamentale: l’incompatibilità del capitalismo - sistema economico fondato sull’accumulazione di plusvalore - con lo spazio in cui di trova ad operare, che è quello del Pianeta Terra, cioè una quantità data e non dilatabile.

Una contraddizione che già a partire da fine ‘700 e per buona parte dell’800 fu oggetto di analisi e dibattito tra grandi personaggi del pensiero economico, quali Ricardo, Sismondi e lo stesso Marx (si veda in proposito un pregevole articolo di Tonino Perna su Carta n.33). Il primo prevede per il capitale un inevitabile futuro a crescita zero, il secondo si pone di fatto come il primo teorico della "decrescita", mentre Marx anticipa le posizioni destinate a prevalere, cioè la convinzione che il progresso tecnologico avrebbe risolto il problema consentendo un continuo aumento della produttività; e questo è stato vero, ma (cosa all’epoca difficilmente prevedibile) al prezzo di un crescente squilibrio di tutti i parametri che regolano la vita di una società.

Squilibrio ecologico, innanzitutto, con inquinamento diffuso, desertificazioni e diminuita fertilità dei terreni, fino al mutamento climatico, che con una serie crescente di "fenomeni meteorologici estremi" va mettendo seriamente a rischio il futuro della specie umana, e già ha creato diversi milioni di vittime e oltre cinquanta milioni di profughi. E su questo dovrebbero finalmente riflettere a fondo le sinistre, che - alla pari di tutte le altre forze politiche - di fatto hanno ignorato il problema, al massimo considerato come una variabile marginale, di cui è inevitabile occuparsi di tanto in tanto, ma non certo decisivo nella definizione delle scelte politiche; oppure preso in seria considerazione ma solo in rapporto ad alcune problematiche, prima tra tutte la crescente scarsità di energie fossili, e la loro possibile sostituzione con energie rinnovabili. In realtà puntando a mantenere l’assetto socioeconomico attuale, fondato sull’insuperabile aporia di una crescita produttiva illimitata su un pianeta segnato da limiti precisi.

Ma anche squilibrio e irrazionalità della società tutta intera, del vecchio Occidente come delle nuovissime potenze e degli "emergenti" più poveri. Società trasformata in una enorme macchina impegnata solo a produrre e consumare a ritmi crescenti. Produrre non importa che cosa, per quali usi, con quali conseguenze, pur di mantenere attivi i meccanismi dell’accumulazione capitalistica; consumare non importa che cosa né perché, pur di alimentare la bulimia dei mercati. Macchina meramente autoreferenziale, e però paradossalmente impegnata a distruggere la base necessaria al suo stesso operare: su che cosa il lavoro, qualsiasi lavoro, esercita il proprio sapere, che cosa trasforma nello sterminato universo delle merci? non sono sempre "pezzi" di natura, minerale vegetale animale, che passano per le mani dell’operaio e per gli ingranaggi delle macchine?

Una società che, quando i mercati si fanno pigri e la produzione ristagna, ha sempre una nuova guerra di riserva, così da riattivare la produzione di armi e far ripartire il Pil: la guerra insomma usata come un normale strumento economico. Non è un caso che oggi, mentre ondeggiano paurosamente le borse di tutto il mondo, banche potentissime falliscono, la crescita si prevede negativa, l’industria bellica sia invece al suo meglio. Un solo dato: l’industria bellica americana quest’anno ha venduto all’ estero armamenti e equipaggiamenti militari per 32 miliardi di dollari, nel 2005 il saldo analogo era stato di 12 miliardi ( International Herald Tribune ).

Caro Fausto, io spero proprio che tu abbia ragione: che le sinistre siano convinte "che l’unica salvezza dell’umanità sta nel superamento del capitalismo", anche se non appare così evidente. Ma dopotutto non sono mancati comunisti convinti della sostanziale irrazionalità del nostro sistema economico e sociale. Proprio Bruno Trentin, cui dedichi grande affetto e apprezzamento, era consapevole dei rischi, non solo ecologici, connessi all’accumulazione, e nell’ormai lontano 2000, aveva accettato di discuterne con me in un libretto, poi intitolato appunto "Processo alla crescita" (Editori Riuniti).

Messaggi

  • Cara signora Ravaioli la "finanziarizzazione del capitale", quella che lei chiama globalizzazione, rappresenta il massimo livello di "autonomizzazione" del capitale dalle condizioni della sua riproduzione. In queste condizioni ci metta tutto quello che vuole comunque l’autonomia del sistema nei confronti di tutti e tutto raggiunge il suo massimo livello...la macchina ha buttato a terra il conducente e corre cieca nello spazio.Ora senza entrare nei dettagli che riguardano la trasformazione del "capitalista realmente operante" in "funzionario" del capitale monetario-finanziario (sul quale lei spende pure qualche parola di comprensione sulla sua presunta "costrizione" a sottopagare i precari e a sfruttarli fino a farli sanguinare) le ricordo che Marx, decenni e decenni e decenni orsono, aveva profetizzato che questa "separazione", come quella fra valore di scambio e denaro ecc. conduce a crisi...
    Il conflitto, secondo lei "primitivo e riduttivo" fra lavoro vivo e padrone (capitale) rimane entro uno spazio limitato, incapace di cogliere i termini epocali del disastro-sic! quali? Quello fra capitalismo e natura?...
    Lei, mi scusi, ma davvero non ha letto nulla di Marx. AbC.?
    Come vuole superarlo il capitalismo agitando lo spettro dell’apocalissi ecologica?
    La societa’ media il rapporto uomo natura. La formazione sociale capitalistica, storicamente determinata, qualifica questo rapporto attraverso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo...E allora cosa pretende mai? Rapporti limitati tra gli uomini generano rapporti limitati con la natura e viceversa. Esclusa l’idolatria di rito della tecnologia, della scienza, delle forze produttive (che hanno immanentizzato i rapporti sociali di produzione) il conflitto reale e’ quello tra gli uomini e tutte le condizioni finora esistenti della produzione e riproduzione della loro vita...
    Come diceva il buon vecchio Marx dopo aver analizzato il rapporto di produzione sociale, di umanizzazione della natura da parte della societa’ bisogna passare a considerare "l’elaborazione dell’uomo da parte di altri uomini"...La definizione del concetto di "classe" che a lei sfugge e’ tutta "oggettiva" (non sociologica) e’ definita dala distanza degli individui dai mezzi di produzione della loro vita: in una parola dalla misura o dismisura del loro potere di controllo sulla societa’ (che media il rapporto con la natura di cui l’uomo stesso, non si dimentichi, e’ una parte).
    Ma poi, il suo ragionamento resta indietro, molto indietro, alla condizione attuale...L’ecologismo non ha compreso una cosa fondamentale, qua’ si vive in una condizione in cui non c’e piu’ natura. La "natura" non esiste piu’.
    Se vuole umanizzare ancora qualcosa tocca umanizzare la societa’.
    Ci vuole il conflitto di classe tra chi controlla la macchina sociale della produzione della vita e chi non ha questo potere, Chi controlla il tempo, la sua organizzazione soociale, controlla la mia vita e questo "chi" e’ il capitalismo...Il capitalismo e’ la natura.

    • calvin, credo tu sia tropo pessimista... se dici che il capitalismo è la natura vuol dire che stiamo messi proprio male, che non abbiamo via di fuga...!!! perchè la natura è indomabile... invece il capitalismo va , non dico distrutto, poichè questa è una utopia, ma perlomeno umanizzato: chi ha a che fare con gli operai( capitalisti, imprenditori di fabbriche) deve sapere che ha a che fare con esseri umani!!!