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Dopo la tempesta

Publie le mercoledì 9 luglio 2008 par Open-Publishing

Dopo la tempesta

di Claudio Grassi e Simone Oggionni

A distanza di due mesi dalla sconfitta elettorale siamo ancora impegnati a svolgerne un’analisi organica e minuziosa: a cercare di individuare, in profondità, le cause di quello che si presenta come il più pesante arretramento elettorale della storia della sinistra italiana. Due milioni e 400.000 voti perduti in due anni, oltre il 60% di consensi in meno di quanti ne disponessero nel 2006 le tre forze (Prc, Pdci e Verdi) che, insieme a Sd, hanno dato vita alla Sinistra l’Arcobaleno.

Un arretramento omogeneo, simile per entità e segno in tutto il territorio nazionale. E che avviene parallelamente a una affermazione delle destre altrettanto inedita e speculare sul piano delle sue ragioni scatenanti.
Qual è, appunto, il segno e il significato politico di questo nostro tracollo e del contestuale avanzamento della destra?

La sconfitta elettorale

A nostro avviso i due fenomeni si innestano al culmine del ciclo lungo della rivoluzione passiva neo-liberista che – come abbiamo più volte sostenuto – ha agito da sfondo strutturale rispetto alla crisi di egemonia culturale e ideale della sinistra che, negli ultimi venticinque anni, ha progressivamente condotto al nostro sradicamento dai luoghi della subalternità sociale.

Se da un lato, quindi, la sinistra si è dimostrata incapace di reagire alla frantumazione dei vincoli di solidarietà della classe (prodotto della frammentazione lavorativa della classe medesima), proponendo di sé un profilo programmatico non percepibile come utile e aderente alle istanze dei lavoratori e dei ceti più deboli, la destra – proprio a questo livello – ha sfondato. Ha utilizzato le armi più incisive della propaganda e della costruzione del consenso al fine di cementare – intorno al proprio programma e alla figura dei suoi leaders – un blocco sociale ampio e trasversale. Facendo leva – con solo apparente paradosso – sulle ansie e sulle paure di insicurezza sociale prodotte dal medesimo ciclo lungo e, nella fattispecie, da politiche economiche e sociali che da un lato hanno impoverito e redistribuito verso l’alto e, dall’altro lato, hanno moltiplicato i bisogni indotti e diversificato le priorità rivendicate (meno conflittualità, più sicurezza).

E così, in questa traslazione dei bisogni, alcuni degli attori sociali del nuovo proletariato sono diventati, nel corso degli anni, il bersaglio di un razzismo di massa la cui intensità ha un solo precedente nella storia contemporanea del nostro Paese: la fine degli anni Trenta, il diffondersi epidemico – e il farsi legge – di pratiche di violenza razzista. Al punto che oggi la gravità di questo processo ci impone di moltiplicare gli sforzi – con ogni strumento e a ogni livello – affinché la coscienza civile del Paese freni una deriva che, con la complicità delle istituzioni, rischia di farsi ingovernabile e irreversibile.

Detto ciò, e cioè che esistono ragioni strutturali all’origine della crisi, non ci possiamo esimere dall’affrontare le due motivazioni contingenti – ma non per questo meno decisive – da cui è scaturito il risultato del 13 e 14 aprile scorso. è essenziale ricordare, infatti, che il tracollo di consensi che rileviamo è di tale consistenza in relazione all’ultimo biennio, a far data cioè dal principio della nostra esperienza di governo.

Il governo Prodi

La prima delle due ragioni allude precisamente al tema del governo, alla scelta di farne parte nei termini decisi al VI congresso nazionale del Prc, alla nostra incidenza all’interno di esso. Un’incidenza ampiamente insufficiente, al punto che oggi la nostra partecipazione al governo viene unanimemente ritenuta fallimentare. Consapevoli di tale rischio, al congresso nazionale di Venezia avevamo proposto che si provasse a dare vita a un accordo programmatico con l’Ulivo fondato sull’individuazione di un asse della mediazione che contenesse alcuni punti discriminanti e per noi essenziali.

Non era in questione la necessità di cercare una convergenza tale da sbarrare il passo alle destre: questo ci chiedeva la nostra gente e, se non ci fossimo posti con decisione sulla strada della ricerca di un accordo con il centrosinistra, ci saremmo posti fuori dalla politica. Erano in questione i contenuti e le modalità di una convergenza che si presentava segnata da un’attitudine immotivatamente ottimistica. Tuttavia a Venezia, come si ricorderà, prevalse una posizione affatto diversa: si sostenne che avremmo potuto tentare la «sfida» del governo grazie al ruolo che i movimenti avrebbero giocato nello scenario politico del Paese; che il governo sarebbe divenuto permeabile alle loro istanze; che le forze moderate del centro-sinistra avrebbero maturato scelte di sostanziale discontinuità con le esperienze degli anni Novanta; che si sarebbe aperta una grande stagione riformatrice, ponendo con l’alternanza (il passaggio del governo) le basi dell’alternativa (di società).

Il fatto che alla puntuale smentita delle ipotesi di partenza e, con esse, dell’impianto politico del documento che prevalse a Venezia, il gruppo dirigente del partito abbia risposto nei primi mesi di governo minimizzando le difficoltà, non ha fatto altro che aumentare la delusione, la frustrazione e il senso di impotenza del nostro elettorato che, mentre non percepiva alcun miglioramento nella propria condizione di vita, prendeva atto dell’incapacità della sinistra e in primo luogo del nostro partito di riconoscere, per come si presentavano, i problemi di convivenza e compatibilità con le forze moderate dell’Unione. Anzi, un tale atteggiamento è stato esso stesso concausa della sconfitta, nella misura in cui si è rivelato – nel momento della disillusione – un elemento decisivo di rottura con i nostri referenti sociali.

I punti più avanzati contenuti nel programma dell’Unione (già in sé insufficienti rispetto alle esigenze reali dei lavoratori) sono divenuti con il tempo sempre più marginali rispetto a un indirizzo nettamente prevalente, segnato dalla priorità del «risanamento» dei conti pubblici, dall’assenza di politiche redistributive, da scelte a esclusivo beneficio di imprese e banche.

Nel frattempo i segnali arrivavano forti e chiari, ma senza che il partito li volesse registrare: la spaccatura del movimento contro la guerra del 9 giugno (con il partito in una Piazza del Popolo deserta), l’arretramento alle elezioni amministrative del 2007, la difficoltà di relazionarsi con i ceti operai, come dimostra la fredda accoglienza riservataci davanti ai cancelli di Mirafiori. Molto più che spie di un malessere e di un disamoramento che, esacerbati sino all’apice del nostro voto favorevole al protocollo sul welfare, sono stati la prima delle due ragioni che chiamiamo in causa.

La Sinistra l’Arcobaleno

La seconda concerne il metodo e la sostanza del processo di costituzione della Sinistra l’Arcobaleno. Se infatti un tale percorso ha preso avvio non all’interno degli organismi del partito ma dall’iniziativa congiunta di alcuni dirigenti del Prc e di Sd, al di fuori quindi di qualsiasi intento di definizione di una linea politica condivisa, è perché esso è stato ed è strutturalmente eversivo rispetto al Partito della Rifondazione Comunista. Benintesi, non ci si riferisce alla Sinistra l’Arcobaleno come lista elettorale unitaria resa necessaria dalle alte soglie di sbarramento elettorale: è evidente che, una volta confermato l’attuale dispositivo elettorale, non restava che unire in coalizione le forze della sinistra di alternativa. Ci riferiamo, invece, al progetto di fare di tale proposta elettorale il battesimo inaugurale del nuovo soggetto politico della sinistra unita. In ciò sta l’eversione, la negazione alla radice – nell’ipotesi del suo superamento – dell’autonomia del nostro partito, che noi riteniamo viceversa essenziale non in quanto convenienza tattica ma per una ragione di ordine strategico.

è a ridosso delle elezioni politiche che viene definito «irreversibile […] il processo di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra» e si ipotizza che all’interno di esso il «comunismo, al pari di altre esperienze, potrà sopravvivere come tendenza culturale». Facendo accettare al partito che altrove si decidessero i suoi destini; e nascondendo, ancora una volta, i fattori di controindicazione esistenti all’interno del raggruppamento elettorale (come le grandi differenze di cultura politica, nei riferimenti internazionali e nel rapporto con il Pd) che pure emergevano da un’analisi obiettiva della proposta.

L’aver puntato, nel vivo della campagna elettorale, sulla prospettiva di un superamento delle forze che componevano la coalizione ha incrementato l’indeterminatezza della proposta politica e del suo profilo identitario e programmatico. Ciò ha contribuito in misura rilevante a fare apparire la Sinistra l’Arcobaleno come un aggregato di ceto politico non credibile che, tra l’altro, aveva dato pessima prova di sé nel corso dei due anni di governo. Se a ciò aggiungiamo le modalità con cui si sono formate le liste e il fatto che l’argomentazione principale a favore del voto agitata in campagna elettorale fosse quella secondo cui «così non sarebbe scomparsa la sinistra», non è difficile capire perché tre elettori su quattro non l’abbiano votata.

Ricordiamo questi eventi, e li riproponiamo nella veste di cause della nostra sconfitta, perché pensiamo che soltanto così sia verosimile definire – e proporre al partito in questo suo difficile confronto congressuale – un progetto politico credibile. Ciò è possibile, perché i milioni di voti perduti, così come le centinaia di migliaia di militanti che hanno riempito le strade di Roma lo scorso 20 ottobre e che il governo Prodi ha così clamorosamente deluso, non sono definitivamente e improvvisamente scomparsi. Molti di loro hanno punito questa sinistra e le scelte compiute in questi anni. Se sapremo trarre insegnamento dagli errori e cambiare rotta, già in questi mesi di opposizione sociale alle destre e in occasione delle prossime elezioni europee, presentandoci con il nostro programma, il nostro nome e il nostro simbolo, saremo di nuovo nelle condizioni di intercettare il loro consenso e la loro richiesta di rappresentanza.

Il cuore del congresso

Questo congresso ha un cuore ed, essenzialmente, un tema di dibattito su cui si dividono le opzioni al nostro interno: il futuro di Rifondazione Comunista.

Coerentemente con le aspettative riposte in campagna elettorale sulla lista della Sinistra l’Arcobaleno, una parte di compagni avanza oggi la prospettiva del «superamento» di Rifondazione Comunista in un nuovo soggetto politico. Per stare alla lettera della mozione il cui primo firmatario è Nichi Vendola, il Prc dovrebbe mettere le proprie risorse e la propria sovranità al servizio di un progetto di «costituente della sinistra».
Adoperando le parole che Alfonso Gianni ha pronunciato all’indomani del voto del 14 aprile, dovremmo pensare a «un percorso da iniziarsi subito, di rifondazione della sinistra, nel quale le forze partitiche superino le loro specifiche forme organizzate». Per usare, invece, quelle più recenti di Peppe De Cristofaro, segretario regionale della Campania, se la Sinistra l’Arcobaleno avesse ottenuto l’8% dei voti (si badi, meno della somma dei consensi raccolti due anni prima da tre dei quattro partiti della SA), sarebbe stato «inevitabile proporre lo scioglimento di Rc».

A nostro parere questo «superamento» assumerebbe – anche perché la forza politica disponibile a una tale impresa è principalmente Sinistra democratica – la forma di un soggettività politica non in grado di mantenere un profilo di autonomia nei confronti del Partito democratico. Verrebbe a mancare, con ciò, un partito strategicamente alternativo all’area riformista e liberale, un partito di classe e conflittuale, come è sempre stata, e come noi vogliamo che continui a essere, Rifondazione Comunista.

Ragioni per certi versi specularmente analoghe a quelle che abbiamo addotto a proposito della «costituente della sinistra» ci inducono altresì a non condividere la posizione di quanti propongono per l’immediato un processo costituente di unificazione dei comunisti. Posta all’interno di un dibattito congressuale straordinario nel quale è in gioco niente meno che la sopravvivenza e il rilancio del nostro partito, una tale proposta mina la possibilità di conseguire il suddetto obiettivo, alludendo anch’essa alla costituzione di una nuova forza politica e risultando così contrapposta ma complementare all’ipotesi della costituente della sinistra. Ciò che rileviamo è, in buona sostanza, che entrambe le proposte considerano conclusa l’esperienza di Rifondazione Comunista.

Viceversa noi riteniamo che il Prc, dentro un processo di unità a sinistra che parta dalle lotte e dai conflitti e in un processo di auto-riforma così come proposto a Carrara, possa essere il perno attorno a cui costruire una sinistra di alternativa nel nostro Paese. La realizzazione delle altre due proposte in campo – «costituente della sinistra» e «costituente comunista» – sancirebbe la fine dell’esperienza di Rifondazione Comunista e la costruzione di due soggettività, a nostro parere, marginali e minoritarie: una subalterna al Pd e l’altra rinchiusa in un recinto residuale e identitario.

Quale Prc?

è per le ragioni di natura politica sopra descritte, e non perché saremmo interessati a chiuderci nel «fortino arroccato» della nostra identità, che osteggiamo uno scenario che vedesse disciolto in una sinistra generica il patrimonio di Rc. Nel farlo, avanziamo una proposta chiara: rafforzare e rilanciare Rifondazione Comunista e, al contempo, ricostruire la sinistra dal basso, nei territori, nel vivo delle vertenze e delle mobilitazioni, e – a livello centrale – con un coordinamento permanente di tutte le forze politiche, sociali e di movimento che si riconoscono nella sinistra alternativa.

Ciò non è però sufficiente. Di fronte alla profondità della nostra sconfitta, è necessario chiarire da quale Rifondazione comunista (e per quale sinistra) è urgente ripartire.

Intendiamo ripartire da una Rifondazione Comunista che sappia affrontare il tema del «governo» tenendo ben dritta la barra dell’alternativa di società e dunque evitando la velleitaria pretesa di invertire i rapporti di forza tra le classi attraverso un’alleanza di governo con forze indisponibili alla discontinuità. Non quindi al fine di proporre lo sterile assioma secondo il quale – sul piano astratto dei principi – non è possibile costruire rapporti con la sinistra moderata, ma per affermare la convinzione che oggi, nei confronti di questo Pd, non è possibile aprire un dialogo teso alla costruzione di una nuova alleanza di governo. In controluce, ciò significa mirare alla costruzione di un partito – e di una sinistra più ampia – che viva nella società e, in primo luogo, nei luoghi del conflitto e della produzione, e che per questo sappia evitare il rischio di essere percepito come un corpo estraneo dai suoi stessi riferimenti sociali.
Da un partito che, mentre pone le sue radici nella società e nel territorio, consolida e cura il suo profilo teorico e culturale e dunque la sua alternatività al modo di produzione capitalistico.

Da un partito che, in questo senso, lavora alla costruzione dell’intellettuale collettivo, in perenne ricerca, in cui i corpi intermedi e i territori siano parte attiva nella costruzione della linea politica e non i terminali esecutivi di quanto viene stabilito al centro o, estemporaneamente, sui grandi mezzi di informazione.

Da un partito che riconquista, nei comportamenti individuali dei suoi dirigenti e in quelli collettivi, un costume di sobrietà e di austerità, contraddicendo alla radice le ragioni di quanti – percependoci come parte della «casta» – ci hanno voluto punire con il voto di aprile.

Come è evidente, questi non sono intendimenti improvvisati: emergono, in filigrana, dalle critiche che abbiamo mosso al partito negli ultimi anni e, con ancora maggiore intransigenza, negli ultimi mesi. E che tornano, puntualmente, nella mozione congressuale che stiamo presentando in ogni circolo e in ogni federazione insieme a quelle compagne e a quei compagni che, pur provenendo da una diversa collocazione all’interno del partito, oggi riconoscono i limiti profondi della proposta di Venezia e ricollocano quella loro scelta di innovazione dentro la prospettiva di rilancio di Rifondazione Comunista.

Da Carrara al VII congresso

Non era scontato unire in un’unica mozione congressuale esperienze e, anche, culture politiche differenti. Sarebbe divenuto impossibile se alla Conferenza di Carrara avessimo seguito chi ci proponeva una scelta differente e cioè di contrastare – non comprendendo le contraddizioni latenti che vi erano nella maggioranza di Venezia – l’investimento unitario che allora si fece sul rilancio del partito e sul suo rafforzamento territoriale. E invece possiamo dire che è stata proprio quella scelta a permetterci di consolidare quella convergenza con settori del partito diversi (e con tanta parte del partito vivo nei territori) che oggi ci consente di disporre di una mozione unica in grado di porre realisticamente l’obiettivo di rilanciare il Prc.

Un’esperienza in cui, nel merito dei testi discussi così come nella pratica, si sono poste le basi di una modalità unitaria e collegiale di gestire e intendere il partito. Che ha portato alla proposta, sostenuta sino all’ultimo momento utile, di svolgere un congresso a tesi emendabili, in cui fosse possibile fare prevalere gli elementi di consenso e circoscrivere, nell’ambito di una proposta largamente condivisa, i fattori di dissenso. E che ci conduce oggi, infine, ad avanzare a chi gli insegnamenti di Carrara li ha progressivamente smentiti e abbandonati una proposta di gestione unitaria del partito, sulla base vincolante della linea politica che emergesse prevalente al congresso.

Il partito e i Giovani comunisti

Tutto ciò ha molto a che vedere anche con il dibattito interno ai Giovani Comunisti che, in tutti questi anni, sono stati obiettivamente parte essenziale del progetto di definizione della linea politica di Rifondazione comunista. In particolare, sono stati decisivi nella costruzione di quella «innovazione» di cui oggi rileviamo tutta l’ambivalenza e che, inevitabilmente, si trova a essere oggetto polemico del congresso.
Abbiamo, al riguardo, una idea molto chiara. E cioè che l’innovazione delle pratiche e della cultura politica del partito (e dei Giovani Comunisti) sia un valore prezioso, e sia quindi da difendere, nella misura in cui essa non scinde da sé il tema della rifondazione comunista, e cioè della sua auto-collocazione all’interno di un orizzonte strategico di ricerca di forme di «comunismo» adeguate alla fase storica che stiamo attraversando. Rientrano in questo novero scelte che riteniamo ormai patrimonio imprescindibile di tutto il partito: l’internità ai movimenti di massa anti-liberisti; l’affermazione della centralità decisiva del pensiero della differenza e dell’autodeterminazione; la pratica di un’attenzione e una disponibilità scevre da settarismi e diffidenze nei confronti della società e dei mille «focolai di resistenza» esterni alle nostre strutture e disseminati nel Paese.

Ma vi è anche una presunta innovazione – di cui una parte importante del gruppo dirigente dei Giovani Comunisti è stata altrettanto protagonista – che ha coinciso con una sostanziale involuzione: l’idea secondo cui un contesto produttivo in rapida trasformazione (e una società sempre più complessa, con nuovi bisogni e nuovi soggetti) inducesse meccanicamente la necessità di liberarsi delle forme consolidate della politica e dunque anche della nostra organizzazione giovanile. In quest’ottica abbiamo registrato la proposta – organica all’ipotesi della «costituente della sinistra» – di dare vita, oltre i Gc, a uno spazio pubblico generazionale della sinistra diffusa, a cui ciascuno di noi dovrebbe singolarmente partecipare.

Vi è, in questo, un elemento di differenza culturale che chiama in causa niente meno che la concezione del partito e della politica, da noi intesa come luogo pubblico del confronto e del conflitto di soggetti collettivi organizzati e non come arena aperta in cui agiscono, senza armonia né organicità, individui soli. Ed è evidente che, in questo orizzonte, anche il tema della «egemonia», e cioè della capacità politica di acquisire e produrre consenso, viene archiviato. Con le conseguenze negative che è facile intuire.

La sfida dell’opposizione sociale

Noi invece vogliamo raccogliere la sfida per l’egemonia che la destra ci ha lanciato nella società.

Si è aperta una legislatura – a detta di tutti i suoi protagonisti – «costituente», che potrebbe trasformare il nostro Paese in una Repubblica presidenziale e federalista, anche sul piano economico, in un sistema politico compiutamente bipartitico e con un sistema elettorale maggioritario. E, sul piano sociale, in una vera e propria democrazia padronale in cui verrebbe istituzionalizzata la precarietà e la ricattabilità dei lavoratori e approfondito il disequilibrio tra sacche di povertà e nicchie di privilegio.

Non ci resta che aprire una stagione di conflitto e di opposizione al governo Berlusconi e alle sue politiche, a quelle già praticate (il pacchetto sicurezza, la gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania) e a quelle messe in cantiere (la detassazione degli straordinari e dei premi di risultato, lo snaturamento del ruolo del contratto nazionale, la trasformazione della pubblica amministrazione in Società per azioni, il ritorno al nucleare, il federalismo fiscale).

Senza Rifondazione Comunista e – insistiamo – il suo rilancio, abbiamo l’impressione che ciò risulti impossibile. Non possiamo permettercelo.