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Dosier Trieste: inquinamento tra politica e affari

Publie le martedì 12 agosto 2008 par Open-Publishing

Inquinamenti e corruzione (di Franz Widmar)

Per difendere l’ambiente, e con esso la vita, non basta combattere gli
inquinamenti e le devastazioni: occorre anche avere il coraggio di
denunciare apertamente i meccanismi di corruzione pubblica e privata che li producono.

Perché tutti gli inquinamenti e le devastazioni che non siano incidenti
occasionali sono prodotti da sistemi di corruttela che intrecciano interessi

privati e connivenze istituzionali in reti illegali di potere trasversale
per realizzare profitti illeciti a spese di tutti.

I "sistemi" più noti, estesi ed influenti sono le organizzazioni classiche
di tipo mafioso e camorristico, nazionali e transnazionali, con le loro
metastasi nelle istituzioni e nella politica di uno o più Paesi.
Ma vi sono anche categorie di sistemi minori, che in realtà diverse e più
limitate riescono a svolgere efficacemente attività analoghe, come la
discarica abusiva dei veleni industriali ed il controllo degli appalti. E
con impunità anche maggiori proprio perché non fanno parte, perlomeno
direttamente, dei grandi sistemi indagati di criminalità organizzata e
riconosciuta, e perché esercitano con mezzi più silenziosi ed incruenti il
proprio controllo sulla società, le istituzioni e l’informazione.
Le indagini che pubblicheremo qui riguardano ambedue le categorie di
"sistemi" e le loro connessioni, a tutti i livelli.
A cominciare da una realtà molto particolare dell’Italia nordorientale.

I.

Italia nordorientale: il "Sistema Trieste"

DAGLI Inquinamenti AGLI appalti

La bella e plurinazionale città-porto di Trieste, dove è stata fondata la
nostra organizzazione, è anche un caso speciale quanto esemplare di questi ’sistemi’ minori ma efficientissimi, che qui la Magistratura non ha potuto sinora nemmeno scalfire nonstante l’impegno di magistrati ed investigatori anche molto validi.

Vedremo qui dunque di inquadrare la struttura di questo "Sistema Trieste"
sintetizzandone due aspetti fondamentali, annosi e pure notori, quelli su
inquinamenti ed appalti pubblici, che i media locali sembrano non aver mai
potuto o voluto pubblicare, e tantomeno indagare e denunciare seriamente.

Confermando di fatto l’esistenza di una pressione disinformativa occulta
che vìola le garanzie democratiche costituzionali della libertà d’informazione, conculcandone sia il dovere dei giornalisti che il diritto dei cittadini rispettivamente a fornirla ed ottenerla in maniera quanto più chiara, completa ed imparziale.

Anche a Trieste il "sistema" ha ovviamente interessi ed attività ulteriori,
che arrivano sino alla copertura, se non all’esercizio, di traffici
marittimi e terrestri di rifiuti e altro che si snodano anche qui fra
Europa, Africa, Asia minore ed oltre.

UNA zona industriale SUL MARE COME DIscarica di inquinanti , ED altre
ANCORA

Il modo di operare del "Sistema Trieste" è bene rappresentato dal caso della Zona Industriale realizzata come discarica impunita di inquinanti
parassitando ingenti risorse dello Stato e della città stessa. Senza che
nessuno, da decenni, denunci mai seriamente i fatti, benché noti e
documentati.

Occorre anzitutto sapere che Trieste ed il suo porto sorgono su un esiguo
arco marnoso-arenaceo stretto tra il mare e l’altipiano carsico petroso e
battuto d’inverno dal forte vento freddo di bora. I terreni agricoli attorno
alla città sono sempre stati perciò ridottissimi ed in parte di difficile
accesso, tranne le due brevi valli terminali piane dei torrenti carsici
Rosandra-Glinscica ed Ospo-Osp, adatti alle colture di cereali, orti,
vigneti, oliveti, frutteti, con pascoli di pregio ed antiche saline.
Le foci dei due fiumi formavano anche le prime zone umide importanti
dell’Adriatico orientale, sia per il passo degli uccelli acquatici da tutta
l’Europa centrale ed orientale, sia per la presenza di altre specie oggi
protette.

Dopo la seconda guerra mondiale le preziose terre fertili di ambedue le
valli sono state espropriate e distrutte a spese pubbliche tramite un
apposito ente, l’E.Z.I.T. - Ente Zona Industriale di Trieste - interrandoli
per realizzare una zona industriale sul mare, ma ampliata fuori misura per
scopi ben diversi dagli insedialmenti produttivi.

L’interramento delle due valli è servito infatti per decenni come discarica
gratuita incontrollata di enormi quantità di rifiuti tossico-nocivi
industriali e di cantiere, in una colossale speculazione che risparmiava
alle imprese i costi di smaltimento regolare delle sostanze pericolose, e li
ha riversati sull’ambiente e sulla salute pubblica distruggendo habitat
naturali e risorse agricole, inquinando il suolo, le falde acquifere ed il
mare, con latenza, dispersione continua e assorbimento inavvertito di
sostanze tossiche.

Finendo per colpire anche il lavoro nella stessa zona industriale, quando
il suo stato di inquinamento gravissimo è infine emerso ed il Ministero dell’Ambiente l’ha dovuta dichiarare "Sito inquinato d’interesse nazionale",
paralizzandone l’utilizzo e sviluppo sino a bonifica sia per nuovi impianti
che per le per le imprese già insediate sui lotti di terreno che l’ EZIT
aveva venduto loro nascondendone lo stato di inagibilità sanitaria.

Questo colossale inquinamento continuato, sia nelle attività di discarica
che nelle conseguenze, comporta evidentemente responsabilità penali e
civili pesanti e non prescritte a carico dei responsabili, mentre le
bonifiche hanno costi altissimi e tempi lunghi.

Ed è altrettanto evidente che i responsabili civili e penali sono, prima
ancora delle imprese che hanno scaricato i loro rifiuti tossico-nocivi, gli
Enti pubblici che ne hanno consentita la discarica dovendo impedirla: primi
fra questi l’EZIT ed i Comuni di Trieste e di Muggia, e personalmente i loro
amministratori, tutti politici o di nomina politica.
Così come è palese che il concorso impunito pluridecennale di parti
pubbliche e private in questi gravi reati continuati non può non appartenere
al "Sistema Trieste".

E continuerà ad appartenervi finché si omette di contestare i reati ed il
risarcimento dei danni ai veri responsabili, affidando le bonifiche allo
stesso EZIT che ha inquinato e tentando di accollarne le spese allo Stato,
o addirittura alle imprese che lo stesso EZIT aveva frodato vendendo loro
come agibili i terreni inquinati.
Per non dire delle manovre per estendere la Zona industriale con nuove
discariche, sia a mare, sia nelle aree pianeggianti superstiti delle due
valli "bonificate".

La storia di questa zona industriale-discarica inizia poco dopo la seconda
guerra mondiale, con l’interamento graduale della parte bassa della valle
della Rosandra, detta valle di Zaule, ed è stata coperta materialmente ed
amministrativamente con lo scarico di materiali di scavo e demolizione
"inerti" che invece contengono spesso percentuali anche elevate di
inquinanti molto pericolosi.

Rimaneva ancora intatta la parte bassa della valle dell’Ospo, detta valle
delle Noghere, l’ ultima grande zona agricola ed umida della provincia di
Trieste.

Dal 1959 venne anch’essa inclusa, in due tranches, nella Zona Industriale
senza che vi fosse alcuna necessità reale o seriamente prevedibile di
impiantarvi imprese, dato che l’area di Zaule era ancora semivuota, e lo
rimase a molto a lungo.

Per "bonificare" le Noghere innalzando di due metri il livello del suolo fu
così autorizzata la discarica di "inerti" su 1.500.000 metri quadrati, cioè
per circa 3-4 milioni di metri cubi di materiali.

Questa "bonifica", che sarebbe dovuta cessare all’inizio del 1980, era
invece anche discarica di rifiuti industriali - come conferma ancora nel
1979 un documento ufficiale dell’Associazione Industriali di Trieste -
incluse le ceneri tossiche (diossina) degli inceneritori di Trieste,
Monfalcone e Mestre.

La discarica risulta inoltre continuata sino al 1981, ed i carotaggi ora
eseguiti per la bonifica del suolo nell’area dello stabilimento "Pasta Zara
2" hanno dato un deposito di materiali di riporto spesso sino a 7 metri.
Tenendo dunque conto della natura del suolo originario, della diversa
compattezza dei materiali e del genere di rifiuti sinora rinvenuti, si può
calcolare che alle Noghere siano stati scaricati per vent’anni senza alcun
vero controllo non 3-4, ma oltre 10 milioni di metri cubi di materiali
solidi e liquidi, formati in buona parte da rifiuti industriali tossico-nocivi (e da alcune testimonianze sembra vi scaricassero anche materiali delle esumazioni dal cimitero comunale di Sant’Anna).

La quantità stessa dei materiali scaricati confermerebbe che non provenivano soltanto da Trieste e provincia, ma anche dal resto della Regione, e forse da più lontano.

Da sondaggi recenti risulta che attualmente in alcuni punti della Valle
delle Noghere gli inquinanti costituiscono almeno il 55% del terreno (550
grammi per chilo): si può parlare di avvelenamento, più che di inquinamento.

Nel 1981-82 la discarica delle Noghere venne sostituita con la realizzazione
di un terrapieno a mare entro il margine settentrionale dell’area demaniale
del Porto di Trieste. Il luogo è a ridosso immediato dell’abitato periferico
di Barcola, con porticciolo da pesca e diporto, e dell’omonima riviera
balneare triestina, che si estende sino al romantico castello di Miramare ed
è frequentata da decine di migliaia di persone.
Lo stesso Comune di Trieste vi riversò le ceneri tossiche dell’inceneritore,
e sul terrapieno-discarica avvelenato venne poi concesso l’insediamento di
società nautiche e stabilimenti balneari.

Esaurita anche Barcola, nel 1984 il "Sistema Trieste" progettò di utilizzare
l’intera area industriale ancora vuota delle Noghere, sino a ridosso del
confine italo-sloveno, per costruirvi una centrale elettrica a carbone, che
avrebbe occupato l’intera area industriale e giustificato anche la
costruzione di un porto carboni con un colossale interramento a mare per
altri 1.500.000 metri quadrati.

Per la profondità e cedevolezza dei fondali marini melmosi quest’operazione avrebbe potuto assorbire dai 30 ai 50 milioni di metri cubi di materiali da discarica: l’immondezzaio speculativo gratuito di mezza Italia settentrionale, con effetti devastanti sull’intero vallone di Muggia, sulla circolazione delle correnti nel golfo di Trieste, e quant’altro; mentre la
centrale avrebbe inquinato l’aria, scaricando anche piogge acide su città,
colture e boschi in Italia, Slovenia e Croazia per un raggio di un buon
centinaio di chilometri.

A Trieste pochissimi sapevano e sanno - e nessuno l’ha mai detto o scritto
che l’abbandono di questo progetto disastroso non fu un successo delle
proteste ambientaliste triestine, né di un comitato elettoralistico creato
da alcuni politici quando a livelli riservati si sapeva che la partita era
ormai chiusa.
Fu infatti merito jugoslavo: Belgrado, intervenne direttamente su Roma dopo aver accertato che la centrale avrebbe inquinato pesantemente anche l’Istria ed Carso sloveno, peggio di quella già esistente di Monfalcone cui avrebbe sommato i propri effetti.

Nel 1987 il"Sistema" ripiegò pertanto su una riapertura della discarica
delle Noghere ampliandola sul fronte mare, al di là della strada per la
finitima cittadina di Muggia, e senza le minime garanzie antiinquinamento.
Gli interessi e le connivenze in gioco erano tali che degli allora 60
consiglieri comunali di Trieste fu - come per altre enormità impunite - uno
solo, l’indipendente Paolo G.Parovel, ad opporsi e denunciare la situazione
e le sue logiche conseguenze; alcuni altri consiglieri evitarono invece di
partecipare alla discussione od al voto (cfr. verbali seduta n.171 del
19.5.87).

Nel 1998-2001 è stata invece realizzata proprio nel Comune di Muggia la
discarica inquinante a mare del terrapieno "Acquario", con licenze di
destinazione ad impianti balneari e turistici ma usata per scaricare a costo
zero rifiuti tossico-nocivi scavati nei lavori di trasformazione del vicino
ex cantiere navale San Rocco nell’omonimo porto e villaggio turistico (con
collinetta di altri rifiuti tossici sulla spiaggia, per i giochi dei
bambini).

Benché le discariche a mare siano vietate per legge, questa venne
autorizzata e comunque consentita da tutte le autorità che avrebbero dovuto impedirla (Comune, Provincia e Regione, ecc.), e quando degli allevatori di mitili protestarono la Capitaneria di Porto li sottopose a ispezione e minacciò per iscritto la revoca della concessione perché gli impianti balneari previsti sarebbero stati d’interesse pubbblico prevalente.
Nessuna di queste autorità ha inoltre vigilato su cosa venisse
effettivamente scaricato nel terrapieno, infine sequestrato nel 2003 su
denuncia degli Amici della Terra. In un pimo processo, nei confronti dei
corresponsabili privati ma non di quelli pubblici, è emerso pure che parte
dei rifiuti tossici di San Rocco venivano scaricati alle Noghere (ancora!)
ed altrove.

Per quanto riguarda dunque prezioso bene ambientale delle valle delle
Noghere, da tutti questi elementi risulterebbe evidente che sia stata in
realtà espropriata e devastata, usando somme rilevantissime di denaro
pubblico, non tanto per la necessità di insediarvi imprese (rimase infatti a
lungo ed è tuttora in buona parte inutilizzata) ma soprattutto per
"risparmiare" a livello locale e regionale i costi privati dello smaltimento
regolare ed altrove di enormi quantità di rifiuti industriali, imposto con
rigore crescente dalle leggi italiane e dalle norme europee.

Ed è altrettanto indicativo del "Sistema Trieste" che nonostante l’avvelenamento drammatico della zona fosse documentatamente ben noto alle istituzioni sanitarie sin dal 1975, l’EZIT poté continuare tranquillamente sia a lasciara scaricare gli inquinanti; sia a vendere i terreni alle imprese,
anche di grandi dimensioni e persino per prodotti alimentari, come di
recente per lo stabilimiento Pasta Zara 2, dove si è dovuta estrarre e
stoccare provvisoriamente un’intera collina di rifiuti tossici.
Mentre a Barcola ed a Muggia (Acquario) si è continuata ad usare la stessa
procedura di autorizzare discariche incontrollate a mare, riempiendole di
inquinanti e poi coprendole con l’insediamento di attività, addirittura
balneari.

Va aggiunto che negli anni in cui non si potevano più usare le discariche
delle Noghere e di Barcola, cioè tra il 1982 ed il 1987 e dall’inizio degli
anni ’90 ad oggi, i loro utilizzatori devono aver necessariamente scaricato
altrove masse altrettanto ingenti dello stesso genere di rifiuti.
Rimane dunque da accertare seriamente dove, come e con quali consensi e controlli di quali enti istituzionali.

Gli inquinatori potrebbero anche aver utilizzato la "bonifica" più vicina,
quella del Lisert ovvero delle Terme di Monfalcone, zona umida salmastra del massimo pregio ambientale, archeologico e turistico, che è stata invece
interrata a discarica per creare una zona industriale ancor più
sovradimensionata e tuttora semivuota, di cui la Magistratura sta infine
accertando gli inquinamenti.

Certo è che come ripiego vennero utilizzati la grande discarica comunale
triestina presso Trebiciano-Trebce ed i suoi dintorni, e che il Club di
Trieste degli Amici della Terra- Friends of the Earth ha già individuato
tutta una serie di discariche abusive od utilizzate irregolarmente. nella
provincia di Trieste, ed in particolare sul Carso, dove tendono ad
inquinarne l’intero sistema sotterraneo.

Tra queste c’è anche un’ex cava riempita di rifiuti anche radioattivi. La
discarica, autorizzata dal Comune di Duino-Aurisina, corresponsabile quello
di Trieste, era stata gestita da una nota impresa nazionale in odore di
camorra, poi svanita nel nulla con un asserito fallimento di cui non si
troverebbero gli atti giudiziari. Gli Amici della Terra segnalarono il fatto
alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, cui nel
2000 la Procura di Trieste precisa che questa società, la Ecormed srl,
sarebbe stata «parte di un oligopolio di dieci aziende raccoglitrici di
rifiuti radioattivi di provenienza civile », ma non procede; nel 2002 gli
Amici della Terra presentano perciò un esposto basato anche su rilevamenti dell’Università di Trieste, ma nel 2003 la stessa Procura chiede ed ottiene in due giorni l’archiviazione per prescrizione, senza indagini e senza informarne i denuncianti per l’eventuale opposizione. La discarica inquinata è sempre lì.

Ed é significativo che l’omertà pluridecennale di autorità e media locali
sulla realtà drammatica di tutte queste discariche tossiche si sia spezzata
soltanto quando il sequestro giudiziario del terrapieno inquinato di
Barcola - sempre su impulso degli Amici della Terra - ha colpito
direttamente le attività e gli interessi delle migliaia di soci ed utenti
delle associazioni sportive e balneari che vi erano state insediate.

Com’é anche significativo che contemporaneamente ai casi Acquario e Barcola i troppo attivi ed indipendenti Amici della Terra triestini si siano trovati sotto improvviso, pesantissimo attacco convergente, con accuse di
"giustizialismo" e simili, da parte del "sistema" locale e della dirigenza
nazionale romana italiana dell’associazione, che da Roma ha preteso di
toglier loro il nome; e col Tribunale civile di Trieste che ha dato prima
torto e poi sorprendentemente ragione ai dirigenti romani, in parallelo ad
iniziative della Procura locale per delegittimare il gruppo triestino ed
archiviarne alcune denunce.

Mentre Friends of the Earth International (Amsterdam) ha deciso di indagare ufficialmente sui comportamenti anomali della sezione italiana.

I "CARTELLI" DEGLI APPALTI PUBBLICI

Tra le strutture portanti "Sistema Trieste" vi sono anche "cartelli" degli
appalti pubblici.

Si tratta in sostanza di gruppi di imprese organizzate attorno ad uno o più
capofila dominanti, con lo scopo e con il risultato illeciti di
monopolizzare l’esecuzione delle opere pubbliche di un territorio escludendo la concorrenza e spartendosi i lavori secondo regole proprie.
L’adesione delle imprese minori al cartello può essere di partecipazione
volontaria in vista di profitti così garantiti, ma anche di sottomissione
forzosa poiché il rifiuto può comportare l’esclusione di fatto da qualsiasi
lavoro conveniente su piazza.

Per ottenere questi risultati un "cartello" degli appalti ha ovviamente
bisogno di due condizioni fondamentali, ben note dalle cronache italiane e
non solo del martoriato meridione.

La prima condizione è disporre di adeguate, illecite connivenze politiche
e/o istituzionali, che vengono in genere ricompensate altrettanto
illecitamente con voti, finanziamenti a partiti o personali, e con altri
benefici diretti o indiretti.

La seconda è la garanzia illecita che alle gare d’appalto non partecipino, o
non partecipino seriamente, imprese concorrenti da fuori piazza. Poiché il
"cartello" non può condizionarle direttamente, questa garanzia dev’essere
fornita da chi può gestire un sistema di condizionamenti illegali su scala
regionale e nazionale, come le organizzazioni di tipo mafioso. E la garanzia
viene ricompensata per lo più acquistando da loro ditte di copertura
forniture sovraffatturate di beni e servizi esenti da certificazione
antimafia (come nel settore edilizio i materiali da costruzione e l’affitto
di macchine da movimento terra).

Tra i "cartelli degli appalti" triestini, che non si identificano
necessariamente in toto con questo schema ma di fatto svolgono la stessa
illecita funzione monopolistica, spiccano le vicende quasi ventennali di un
gruppo d’imprese edili associate - volenti o nolenti - nel consorzio cui si
riferiscono anche gli atti istruttori ormai pubblici del procedimento penale
n. 6043/02 RGNR del Tribunale di Trieste, con indagini della Guardia di
Finanza, su gare per la costruzione di parcheggi sotterranei, ove nel 2003
ne troviamo così definiti i ruoli:

«Il CIET Consorzio Imprese Edili Triestine S.r.l. è stato costituito il
17.11.1986 ed il 26.07.2001 è stato posto in liquidazione. Ad esso sono
state associate le maggiori imprese triestine operanti nel settore dell’edilizia.

In merito al ruolo che il CIET avrebbe svolto nel corso degli anni in
relazione agli appalti pubblici appare interessante quanto emerge da due
documenti sequestrati [...]. In particolare su un foglio dattiloscritto, il
cui contenuto anche se in maniera parziale è ripreso nella lettera dd.
09.05.2001 [...], si evidenzia in sintesi che:

 il CIET è sempre stato il braccio operativo del Collegio [dei Costruttori, ndr.] in una prospettiva iniziale di potere ottenere appalti in concessione a favore dell’imprenditoria locale. [...]

Quanto già accertato in merito al ruolo svolto dal CIET nella "vicenda
parcheggi" appare strettamente connesso con quanto segnalato da PAROVEL nell’esposto indicato in premessa il quale ha evidenziato che il CIET (e quindi le imprese di costruzione ad esso associate) farebbe parte di un "sistema" per l’assegnazione di opere pubbliche triestine che coinvolgerebbe anche politici e professionisti.»

Gli inquirenti si riferiscono alle dichiarazioni e documentazioni probatorie
del noto giornalista investigativo triestino Paolo G.Parovel, già
consigliere comunale indipendente dal 1982 al 1988 con una propria lista di mitteleuropei, verdi e radicali, nonché titolare e conduttore dal 1986 al
2003 del noto settimanale radiofonico d’informazione "L’Altra Trieste".
Parovel era stato il primo a denunciare, nel 1987, alla Procura di Trieste
operazioni anomale del CIET e dell’amministrazione comunale. La Procura
archiviò allora la denuncia in pochi giorni benché i fatti fossero provati
su base documentale, e così accadde per denunce integrative ed ulteriori
presentate o promosse da lui negli anni 1990, 1992 e 1993 dallo stesso
Parovel, che nove anni dopo dichiara in merito agli investigatori, tra altro
che:

[...] - gli esposti riguardavano in particolare grandi opere che, come il
cosiddetto intervento di "recupero" di Cittavecchia . venivano affidate in
concessione senza nemmeno gara d’appalto in forza di un rapporto trasversale privilegiato tra partiti, professionisti ed imprese [...] con il risultato di realizzare un monopolio delle grandi opere pubbliche del Comune di Trieste in violazione delle norme di concorrenza ed economicità di spesa e di una sostituzione delle imprese al Comune nella scelta degli affidatari di opere pubbliche in regime di concessione e dunque di elusione sistematica delle gare d’appalto;

 il CIET risultava formato da alcune imprese dominanti il "cartello" e le
sue relazioni trasversali, e da imprese subordinate che erano state
costrette ad aderirvi per non rimanere escluse da qualsiasi lavoro
importante sulla piazza di Trieste;

 la rete di rapporti privilegiati tra politici, professionisti ed imprese
ha determinato una situazione ambientale di omertà, impedimento alle
indagini e "punizione" degli oppositori;

 il valore complessivo delle opere pubbliche interessate dal caso si
aggirava sui 1000 miliardi di lire.

[...] Nel corso della mia attività di consigliere comunale ebbi
ripetutamente a constatare che parallelamente ed in sinergia al "cartello"
di imprese facenti capo al CIET vi era un "cartello" di professionisti che
in pratica monopolizzava le progettazioni pubbliche di rilievo e dal 1984
aveva cominciato ad ottenere anche incarichi urbanistici che avrebbero
dovuto essere svolti da tecnici del Comune. Contemporaneamente questi stessi professionisti monopolizzavano più o meno a turno ma con costante presenza collegata ai medesimi interessi le Commissioni Urbanistica ed Edilizia del Comune, che l’amministrazione malgrado reclami ometteva di rinnovare benché scadute a volte da anni. Questi professionisti risultavano collegati all’intero arco dei partiti politici in una distribuzione di posti che la stampa locale stessa denunciava come concordata.»

Così proseguono in merito gli inquirenti: «Si ritiene opportuno evidenziare
che tutti i lavori affidati al CIET (per importi di diverse decine di
miliardi), sulla base di quanto riportato sui predetti documenti, sarebbero
stati affidati in regime di convenzione e/o concessione senza alcuna gara.
Tale circostanza emergerebbe anche dalla lettura dei verbali del CdA del
CIET. Il CIET avrebbe poi affidato la realizzazione dei lavori ad imprese
associate allo stesso, le quali avrebbero costituito apposite società [...].
Sulla base di quanto sopra evidenziato sembrerebbe che il CIET e le imprese triestine ad esso associate per anni abbiano beneficiato di un rapporto "privilegiato" e pressochè "esclusivo" con il Comune di Trieste per quanto concerne l’affidamento in concessione e conseguente realizzazione di opere pubbliche.»

E concludono, esaminate le prime prove: «Da quanto sopra esposto emergerebbe una sorta di continuità nell’operato del CIET e dei soggetti ad esso collegati (costruttori e professionisti) finalizzati all’ottenimento di
appalti pubblici (sia in concessione che attraverso l’espletamento di gare)
del Comune di Trieste, sulla base della quale non si può escludere che l’esistenza di "accordi" tra le perincipali imprese aderenti al CIET risalga fino alla metà degli anni ottanta ovvero alla costituzione del CIET stesso. [...]

Pertanto, appare verosimile ritenere che anche le vicende inerenti alla
"gara parcheggi" si inseriscano in tale contesto. Infatti, gli elementi
emersi nel corso delle indagini finora svolte in merito a detta gara (ruolo
di promozione e coordinamento assunto dal CIET, accordi tra imprese,
incarichi a professionisti, collaborazione pre-gara Comune/CIET, ecc.)
sembrerebbero confermare l’esistenza del "sistema" evidenziato da PAROVEL, fondato su un "rapporto trasversale privilegiato tra politici,
professionisti e imprese".

Le caratteristiche di continutà dei reati, ipotizzati dagli inquirenti nell’ambito
dell’associazione a delinquere finalizzata alla turbata libertà degli
incanti (artt. 416 e 353 c.p.) sono decisive, poiché escludono la
prescrizione consentendo di procedere per l’intero ventennio di attività
evidenziato, e le indagini ulteriori - brillantemente condotte dalla GdF e
dal PM (dott. G. Milillo) anche tramite intrercettazioni - hanno confermato
il tutto.
Ma nel 2007 la magistratura triestina non ha infine riconosciuto la
documentata continuità dei reati, così applicando prescrizione anche ai
fatti relativi alla gara parcheggi.

Dalle vicende relative e dagli stessi atti istruttori emergono anche altre
informazioni decisamente inquietanti.

Parovel per queste ed altre sue denunce del "sistema" triestino subì pesanti ritorsioni ambientali: minacce di morte, incendio dell’auto, accompagnati da boicottaggi economici e censure stampa che impedirono anche la sua rielezione nel 1988, del che si vantarono poi sui media le stesse imprese leader del "cartello"; è tuttora (2007) sottoposto a silenzio stampa dai due quotidiani monopolisti locali, di lingua italiana e di lingua slovena: i suoi libri non vengono recensiti, e le notizie sulle sue iniziative
giudiziarie e culturali o non vengono pubblicate, o lo sono omettendo il suo
nome; la sua trasmissione radiofonica, dove continuava nelle denunce del
malaffare economico e politico, é stata eliminata nel 2003 acquistando
segretamente le frequenze ed i ripetitori dell’emittente.

Quasi contemporaneamente alle prime denunce di Parovel (1987-88) un
colonnello della Guardia di Finanza avrebbe trovato prove su tangenti di
costruttori locali a partiti e politici su conti esteri, ma la sua indagine
venne insabbiata e lui angariato sino a costringerlo alle dimissioni, il
tutto ad opera di superiori successivamente risultati coinvolti in
malversazioni.

Non ebbero seguito giudiziario nemmeno contestuali inchieste e rilievi sul
"cartello" di un periodico locale poi estinto, né quelle pubblicate poi, con
esplicita denuncia anche di tangenti, da testate italiane ed estere
autorevoli come l’Espresso, l’Indipendente, l’Unità, il Manifesto, la Neue
Zürcher Zeitung e da un noto libro su Tangentopoli (L’Italia a sacco).
Inoltre lo scopo ’sociale’ dichiarato dal CIET, quello di garantire lavoro
alle imprese triestine, riguarda certamente i loro titolari e professionisti
collegati ma ben poco i lavoratori e fornitori locali, poiché le opere
risultano svolte prevalentemente con imprese, operai e subforniture da fuori provincia.

Mentre le cronache quotidiane ci confermano che lo stesso "cartello" d’imprese e professionisti, forte di un’impunità di fatto ulteriormente consolidata, continua a prosperare indisturbato negli stessi rapporti privilegiati con il Comune di Trieste ed altri enti locali: rapporti che a questo punto sembra si ritengano legittimi od almeno legittimati dall’agire della Giustizia italiana.

É invece capitolo ancora aperto cosa ne pensino, sulla base delle medesime evidenze ed indagini, le istituzioni competenti dell’Unione Europea.

http://www.greenaction-planet.org/index.php