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E’ l’opposto di un patto sociale è l’allargamento del conflitto

Publie le venerdì 4 agosto 2006 par Open-Publishing

di Piero Sansonetti

L’idea esposta qui a fianco, dal mio amico Giorgio Cremaschi, è molto chiara. Lui dice: non esiste nessuna possibilità di allargare l’attuale maggioranza di centrosinistra, perché questa maggioranza è già troppo ampia - in termini di idee, di progetti politici, di rappresentanza sociale - e non è egemonizzata dalla sinistra, ma è egemonizzata dal centro, dai moderati. Estenderla sarebbe suicida.

Non è altrettanto chiara la via che Giorgio ci propone, per uscire dalla stretta (ma su questo scriverò nelle ultime righe).

Mi sembra invece un po’ confusa la contestazione a Bertinotti (cioè alle idee espresse da Bertinotti nell’intervista rilasciata a Rina Gagliardi e pubblicata domenica da Liberazione).

Cremaschi sostiene che Bertinotti ha proposto un nuovo patto sociale, e che in sostanza ha indicato, per la sinistra italiana, una politica simile a quella che Enrico Berlinguer, negli anni ’70, propose con il “compromesso storico”. E poi aggiunge - spostandosi di una ventina d’anni - che il più “organico” patto sociale che mai sia stato concluso in Italia è quello del 1993 - la concertazione, la linea Ciampi- Cofferati - e che quel patto sociale ha prodotto «la più vasta redistribuzione della ricchezza ai danni del lavoro degli ultimi decenni».

Ha ragione Cremaschi? Probabilmente ha ragione sull’ultimo punto, e cioè sulla critica spietata al patto del ’93. (Rovesciare gli effetti di quel patto è il compito della sinistra al governo). Ma nel definire «nuovo patto sociale» la proposta politica di Bertinotti, si sbaglia. Bertinotti in realtà, nell’intervista a Rina Gagliardi, ha negato espressamente questa possibilità. In modo nettissimo, esplicito. Cos’è il patto sociale? Un compromesso tra le forze del lavoro e la grande borghesia. Basato sulla necessità di fare fronte a una emergenza nazionale e sulla volontà di rinunciare ciascuno a qualcosa, con l’obiettivo del bene comune, dell’interesse nazionale. Chi pensa che il “bene comune” sia una pura astrazione, e cioè che non esista - in termini politici, economici, di destino dei gruppi sociali, dei ceti, delle classi - perché ogni interesse collettivo vince o perde non a seconda del bene della nazione ma a seconda dei suoi rapporti di forza con altri interessi collettivi; chi pensa questo non può ipotizzare un patto sociale, se non come conclusione e sigla di una sconfitta. Il patto sociale - è sempre stato così, dai tempi di La Malfa e Amendola - ha come “interfaccia” politico la Grande Coalizione. Questo ovunque: in Italia, in Germania, nelle fasi bipartisan della politica americana. Fausto Bertinotti con molta nettezza ha escluso questa via e anzi l’ha indicata come la «politica da battere». Non da battere in astratto, ma nel concreto, nel presente, visto che la grande coalizione non è una ipotesi immaginaria, ma è una prospettiva attualissima alla quale stanno lavorando consistenti forze moderate e in particolare i gruppi più forti che dirigono la borghesia italiana (e la Confindustria).

Che via ha indicato, allora, Bertinotti? Quella del tutto opposta: per impedire che la grande borghesia si ricomponga e trovi lo sbocco politico alla ripresa del liberismo - che è in crisi sia sul piano dei consensi, sia su quello del suo reale funzionamento e della possibilità di dare uno sbocco alla decadenza italiana - non bisogna restare fermi ad aspettare il cadavere del nemico - che non passerà - ma muoversi, assumere la politica come conflitto e dinamismo, e cercare di entrare nelle file stesse della borghesia per spostare a sinistra alcuni suoi settori, i più disponibili. E questo è essenziale proprio per ottenere l’obiettivo che dicevamo prima: il riequilibrio delle ricchezze a favore dei ceti deboli. La crisi del liberismo - e dunque la crisi della borghesia - non sono elementi statici, fatti di cronaca. Sono fenomeni molto profondi, che naturalmente provocano spostamenti politici e di pensiero dentro i pezzi più alti e più intelligenti della classe dominante. Non è sempre stato così? Non è questo uno dei punti di partenza di ogni politica di sinistra?

E allora ecco che si torna alla storia di Marchionne, il mitico amministratore Fiat che negli ultimi tempi ha svolto ragionamenti assai interessanti sull’impossibilità, per la borghesia e il ceto imprenditoriale, di pensare che ci si cava dagli impacci schiacciando il costo del lavoro. Marchionne ha detto di preferire la via del welfare europeo a quella della competitività assoluta americana e del mercato come Dio di ogni processo sociale e produttivo.

Dice Bertinotti: vi pare di un certo interesse uno spostamento ideale di questo genere, che avviene in un luogo importante di direzione dell’impresa italiana?

A me sembra un buon modo di ragionare di politica. Piuttosto che partire sempre dal conteggio dei seggi parlamentari e delle aspirazioni politiche di alcuni leader. E’ un modo per ridare alla politica il suo ruolo di direzione dei problemi e dei conflitti reali, e non solo dei propri “autoconflitti” interni.

Bertinotti propone di parlare di allargamento della maggioranza partendo dalla necessità di allargare il suo blocco sociale e le sue basi (almeno così a me è sembrato di capire) ma anche dal bisogno di dare una sponda a un pezzo di borghesia in crisi (e che sarebbe da sciocchi lasciare che sia di nuovo fagocitata dai conservatori e dal blocco liberista). Avviando, in questo quadro, alcune convergenze conflittuali (se posso usare questo termine un po’ gergale) con forze diverse dai nostri tradizionali alleati. Cosa vuol dire convergenze conflittuali? Che naturalmente non ci sarà l’azzeramento dello scontro di interessi (per esempio il più classico scontro capitale-lavoro) ma questo scontro avverrà dentro un quadro nel quale si è aperta una ricerca comune della strada per uscire dalla gabbia del liberismo e cioè del fallimento registrato dal capitalismo occidentale moderno. Non abbiamo sempre detto che dovevamo spezzare il pensiero unico? Ecco qui.

Dice Cremaschi: ma questo è lo schema del compromesso storico di Berlinguer. Francamente ho un enorme rispetto di Berlinguer e credo che sia difficile liquidare - nel bene e nel male - la sua storia e le sue idee in poche righe. Non mi sembra che sia ragionevole nessun paragone. Il compromesso storico fu una cosa diversissima, avvenne nell’epoca del “fattore K” e fu studiato anche nell’ottica di aggirarlo (cioè di permettere l’accesso del Pci al governo), fu spinto da considerazioni e movimenti culturali molto forti, e segnati dagli avvenimenti e dai pensieri di quell’epoca (sia sul fronte marxista che su quello cattolico-conciliare), fu sostenuto dalla ricerca di idee nuove che servissero a superare il vecchio blocco stalinista e il cattolicesimo reazionario e integralista. C’entra poco, anzi non c’entra niente con la fase attuale.

Naturalmente tutte queste considerazioni che ho fatto non servono a dire se la analisi di Bertinotti sia quella giusta. Mi sembra però indiscutibile una cosa: è difficile ignorare l’appello di Bertinotti a riprendere l’iniziativa politica, a non immaginare l’avventura del centrosinistra come un qualcosa di già definito, di fisso, immobile, pura impresa amministrativa da compiere in un ambiente sterile e con rapporti di forza già definiti e immodificabili.

Non capisco, dall’articolo di Giorgio, come lui risponda a questa necessità. Leggendo il suo articolo non ho visto vie d’uscita.

http://www.liberazione.it