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Elicotteri, trattori e casinò,ecco la holding del principe
Publie le martedì 20 giugno 2006 par Open-PublishingIl cuore dell’impero è a Ginevra, dove ha sede l’Ordine Mauriziano
Ufficialmente si occupa di beneficenza, ma nei suoi uffici passano miliardi
Elicotteri, trattori e casinò
ecco la holding del principe
Savoia spa, quarant’anni di affari spericolati
dal nostro inviato LEONARDO COEN
Elicotteri, trattori e casinò
ecco la holding del principe
Vittorio Emanuele con Gian Nicolino Narducci
VÉSENAZ - Chemin du Vieux Vésenaz numero 50a, villaggio per residenti miliardari, ex dittatori del terzo Mondo e sceicchi in trasferta elvetica sulla sponda orientale del lago di Ginevra, a qualche chilometro dalla città. E’ l’indirizzo dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro che Vittorio Emanuele presiede e di cui suo figlio Emanuele Filiberto, principe di Piemonte e principe di Venezia, è Gran Cancelliere. Ma è anche l’indirizzo della Cancelleria degli Ordini Dinastici di Casa Savoia, nonché delle Opere Ospedaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, come pure della Fondation Prince de Venise (si occupa di cultura).
Tutte istituzioni benefiche, non a scopo di lucro. Le finalità ufficiali dell’Ordine di San Maurizio (istituito dal Duca Amedeo VIII nel 1434) sono innanzitutto di "dare aiuto ai poveri e ai malati", poi di "dedicarsi al servizio dell’umanità". E come? "Cercando di creare un mondo migliore, impegnando le qualità fondamentali del Cavaliere: Onestà, Fedeltà, Comprensione, Generosità, Perdono: combattendo senza quartiere l’ingiustizia a tutti i livelli". Oggi l’Ordine conta 4mila membri, fra cavalieri e dame, sparsi in oltre 40 Paesi.
Gli uffici di Vittorio sono al primo piano. Quello di Emanuele, a piano terra. Per la Procura di Potenza, è in questa vecchia e signorile magione che si troverebbe la sede dell’impalpabile ed indecifrabile holding Savoia: coniugare mediazioni d’affari non sempre limpidi dietro gli stemmi della Real Casa, coltivare amicizie pericolose, circondarsi di cattivi consiglieri.
Sullo zerbino campeggia l’immagine di un cavallo. Superata la porta d’ingresso, a destra, prima delle scale, è appeso il ritratto di Maria Gabriella di Savoia, che fu regina di Spagna. Emanuele Filiberto è appena arrivato con la sua nerissima Nissan Infinity. Rifiuta vigorosamente qualsiasi coinvolgimento dell’Ordine, "i bilanci sono trasparenti e certificati in Svizzera". Nega che suo padre possa aver firmato documenti compromettenti, "papà è un uomo onesto, magari credulone, di certo è impulsivo, spesso non riflette abbastanza su quello che dice". Forse "qualcuno ha speso indebitamente il nostro nome".
E’ prudente, "non posso parlare di cose che non conosco". Dice anche: "Io e mio padre siamo diversi". In che senso? Che lei non si sarebbe invischiato in una storia simile? Emanuele preferisce metterla sul piano psicologico: "Mio padre è come un homme blessé, un uomo ferito. Si è sempre sentito come un orfano, un senza famiglia. E molto solo".
Forse per rompere la sua solitudine cominciò ad avere singolari frequentazioni. Quella del conte Corrado Agusta: costruiva elicotteri da guerra (A-205 e A-206 i più gettonati, su licenza dell’americana Bell, quella dei Cobra), ma non si potevano vendere dappertutto. Chi li voleva era nella lista nera dei Paesi proibiti dall’Onu. Ci pensò Vittorio Emanuele, amico dello Scià di Persia che prima di sposarsi con Soraya corteggiava Gabriella di Savoia. Tra una sciata e l’altra, a Gstaad, l’erede al trono d’Italia otteneva il consenso dello Scià: ne piazzò più di 300.
Ma i giudici italiani scoprirono che questi elicotteri pigliavano altre direzioni. Dall’Iran venivano dirottati in Giordania. Quelli destinati alla Malesia e a Singapore finivano a Taiwan e nel Sudafrica dell’apartheid. Sotto l’occhio benevolo delle "barbe finte", i servizi segreti.
Con gli elicotteri pigliavano strane destinazioni anche sistemi d’arma e pezzi di ricambio. Il giudice Palermo scoprì che c’era un doppio traffico: armi in Oriente, droga in Occidente. Dall’inchiesta saltò fuori che Vittorio Emanuele non era niente affatto sprovveduto, come affarista, e sapeva circondarsi di persone, diciamo così, "giuste": come il colonnello Massimo Pugliese, un fedelissimo di casa Savoia, ex responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari; il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi; l’attore massone Rossano Brazzi che era entrato nel giro di Reagan. E chi amministrava allora i beni di Casa Savoia? L’avvocato Carlo d’Amelio, presidente del Cmc (gruppo Permindex, in realtà una società creata dalla Cia che serviva a finanziare attività anticomuniste in Italia).
E qui si apre il capitolo P2. Molti di questi "amici" di Vittorio Emanuele ne facevano infatti parte. Lui stesso venne reclutato nel 1974 da Giovanni Bricchi, Gran Maestro Aggiunto e trait d’union fra la P2 e le logge di destra statunitensi. Fascicolo d’iscrizione 0516, codice massonico E.16.77, tessera 1621. Nell’ufficio di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi fu rinvenuta una lettera del principe che chiedeva "all’illustre fratello" di essere "messo in sonno per ragioni personali" e una seconda missiva datata 21 ottobre 1980, scritta a mano in cui invece Vittorio Emanuele mostrava d’aver cambiato idea e pietiva una nuova "regolarizzazione".
Gelli affidò al fratello 1621 una missione delicata. Era il 1975 e Giovanni Leone, il nostro presidente, doveva recarsi in Arabia Saudita. Chi meglio di un quasi re poteva preparare la visita presso il sovrano Feisal?
Tuttavia, queste doti diplomatiche non gli furono d’aiuto in altre occasioni. In Iraq nel 1995 si presentò come rappresentante di molte aziende italiane: "Niente armi, niente elicotteri, ma trattori e tecnologia agricola". Tornò a Ginevra a mani vuote e con la salmonellosi. Ad Arafat e ad Israele propose un ponte autostradale e ferroviario tra Gerico e Gaza. Non aveva capito la situazione.
Politica ed affari sono sempre stati un cocktail perfetto, Vittorio Emanuele si sapeva ben destreggiare in questo ambiente trasversale. Ebbe molta ammirazione per Bettino Craxi: avevano un grande amico in comune, Silvano Larini. Si vedevano a Cavallo, anzi, coltivarono persino il progetto di trasformarla nell’isola più esclusiva e redditizia del Mediterraneo. Talvolta Larini e Vittorio si incontravano a Ginevra. Qualcuno ricorda di averli visti a cena all’hotel Richemond, con il banchiere Chicchi Pacini Battaglia, altro cassiere delle tangenti targate Psi.
Quando il conte Agusta cedette la fabbrica di elicotteri alle Partecipazioni Statali, per il principe cambiò poco o nulla. A dirigerle c’era un fedelissimo di Bettino, Roberto D’Alessandro, ex sindaco di Portofino e anche lui amico del conte Agusta che a Portofino aveva la villa più bella (quella dove morì Francesca Vacca). Il principe, del resto, sapeva il fatto suo. Esule e interdetto a metter piede in Italia, per il governo italiano lavorò spesso nell’ombra. A Bandar Abbas, in Iran, dove stava l’Eni. Bisognava costruire un porto (Condotte) e un’acciaieria (Italimpianti). L’operazione costò centinaia di nostri miliardi (pubblici). Se ne seppe perché un armatore genovese, Enrico De Franceschini, litigò con Vittorio Emanuele: saltò fuori il nome di una società off shore, la Financial, sede alle Bahamas, e saltarono fuori pacchi di tangenti. Si disse che dietro la Financial ci fosse il Savoia. Un’indiscrezione rimasta tale.
Infine, tanto per rimanere in tema con l’argomento del giorno, tra gli avventurosi affari di Vittorio Emanuele ebbe giorni di gloria quello dell’isolotto di Manoel, davanti alla Valletta. Assieme al finanziere spagnolo Juan Blas Sitges, il figlio di re Umberto annunciò un ambizioso progetto: trasformare Manoel Island in un ghetto turistico per super ricchi.
Monarca di questo regno maltese, Vittorio Emanuele: porto attrezzato per 837 barche, 400 ville, due alberghi cinque stelle, golf club, parco, museo dedicato alla ricostruzione storica dell’assedio di Malta da parte dei turchi nel 1565. E, guarda la coincidenza, un fastoso Casinò. A due passi dalla Sicilia - i siciliani sono considerati i più grandi giocatori d’Europa - dalla Grecia e dalla Turchia. Il tutto con un preventivo di 150 milioni di dollari d’investimento, l’intervento di un consorzio svizzero e il consenso dell’allora leader socialista Carmelo Mifsud Bonnici.
Dove maturò il sogno di Manoel Island? A Gstaad. Dove si si perfezionò l’accordo coi maltesi? A Ginevra: nel ristorante dell’hotel du Rhone, con il giovane avvocato Mark Mikaleff, monarchico convinto, che avrebbe dovuto essere il terzo socio (oltre il principe e Sitges). L’affare saltò nella primavera del 1987 e Mikaleff, che ritenne di essere bidonato, citò per danni Vittorio Emanuele: "Non ha fatto fronte agli impegni assunti, volevano trasformare l’isolotto in un paradiso fiscale, i maltesi esclusi da questo privilegio si sarebbero infuriati, loro mi dissero che dovevo piantarla e che ero diventato imbarazzante".
(20 giugno 2006)
http://www.repubblica.it/2006/06/sezioni/cronaca/vittorio-emanuele-3/holding/holding.html