Home > Elogio della microeconomia
E’ di grande interesse che il dibattito pubblico sull’economia nazionale verta quasi esclusivamente su quei temi che in linguaggio accademico vengono detti macroeconomici, come l’occupazione, l’inflazione, il reddito nazionale, la spesa pubblica, etc. Sebbene non occorra sopravvalutare il livello medio di comprensione che i cittadini hanno di queste materie, dato il loro stato di disinformazione e passività, attentamente coltivato dalle élite al potere, è giocoforza che di quanto rimane fuori da questa area di interesse, essi non avranno alcuna nozione, neanche superficiale ed approssimativa.
Ciò che rimane fuori sono i temi della microeconomia, che costituiscono il gradino logico più basso della macroeconomia. Questi coprono argomenti che vanno dalla formazione dei prezzi sul mercato all’organizzazione del lavoro all’interno dell’unità produttiva, dal funzionamento delle catene di commercializzazione delle merci alle conseguenze legate all’innovazione tecnologica, dalle propensioni all’acquisto del consumatore al ruolo economico dei servizi pubblici. In altre parole si tratta dei meccanismi elementari della formazione e della ripartizione della ricchezza, cioè della fisiologia di base, cellulare, dell’organismo economico.
Vi è una ragione per questo stato di cose. Nell’economia di mercato, o della libera impresa, cioè nel capitalismo, il campo dei fenomeni detti microeconomici è lasciato quasi interamente all’iniziativa del capitale privato (con deboli contrappesi nel ruolo svolto dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni dei consumatori), e non si ritiene pertanto né utile né desiderabile che questi temi entrino nella sfera della discussione pubblica e democratica.
In questo modo, però, è inevitabile che i meccanismi elementari dell’economia, quelli che determinano il funzionamento dell’intero sistema, siano sottratti alla decisione democratica che — intendendo assai con manica larga ciò che qui si intende per democrazia — si eserciterà solo su un numero assai ristretto di variabili, con scarsi effetti sul destino sociale ed economico, già ampiamente determinato, della comunità.
Una delle più gravi conseguenze politiche e culturali di ciò è l’atteggiamento fatalistico che la gente nutre verso il modello economico prevalente.
Di fronte a proposte estremamente pratiche, acute ed intelligenti su come la giornata di lavoro potrebbe essere ridotta a cinque o sei ore al giorno, la gente non presterà ascolto, perché non riesce neanche ad immaginare che la quantità di cambiamenti che ciò richiederebbe siano davvero realizzabili. Allo stesso modo, recandosi al mercato, di fronte all’aumento delle zucchine o delle arance, il consumatore inveirà contro l’avidità dei commercianti o contro il governo (se ha votato a favore di una partito attualmente all’opposizione), e in questo modo, avendo trovato qualcuno a cui dare la colpa, potrà risparmiarsi di comprendere i meccanismi alla base dell’erosione del suo potere d’acquisto. Se qualcuno poi gli ricorderà che ogni anno la comunità economica europea distrugge immani quantità di derrate agricole precisamente allo scopo di evitare il normale prezzo di mercato, che sarebbe molto più basso, il cittadino si limiterà a registrare il dato di fatto, sviluppando quella specie di stupidità sociale, fatta di nozioni frammentarie e contradditorie, a cui non si cerca mai di dare ordine, cercando qualcuno che prenda le decisioni al posto suo, e a cui darà il suo voto attratto da questo o quell’aspetto dell’insulsa e vuota retorica di cui è fatto il dibattito politico nazionale.
E’ triste notare che nei giorni del referendum sindacale sul Protocollo del Welfare la sinistra sana e onesta che si schiera per il NO, non riesce tuttavia a superare la logica puramente rivendicazionista che, se è naturale per il militante sindacale, mostra tutta la sua debolezza come visione politica dei problemi della classe lavoratrice. Non è possibile limitare gli orizzonti al conseguimento di un buon contratto o di un buon accordo nella politica di concertazione. Occorre trasformare il terreno delle relazioni sindacali in un campo di indagine e critica politica per un progetto alternativo. E’ necessario per questo un cambio di paradigma nella cultura economica del cittadino che faccia entrare i meccanismi della produzione e distribuzione della ricchezza nello spettro della discussione democratica.