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Energia elettrica. Il caso della fusione fra AEM Milano e ASM Brescia

Publie le lunedì 9 luglio 2007 par Open-Publishing

de Matteo Gaddi

Destano stupore i commenti dei Ministri Bersani e Lanzillotta all’operazione di aggregazione ASM
Brescia e AEM Milano. Secondo il primo l’aggregazione consente di "fare massa critica e di offrire
quindi servizi migliori ai cittadini", per la seconda "è un esempio di consolidamento che andrebbe
seguito in altre parti d’Italia". Massa critica e consolidamento sono i termini che vengono utilizzati
per giustificare il plauso all’operazione, lasciando intendere che le dimensioni degli operatori nel
settore energetico risultano determinanti per la qualità del servizio.

Lo stupore è dettato dal fatto che proprio il decreto legislativo n. 79 del 1999, noto come "Decreto
Bersani", con l’obiettivo di liberalizzare il mercato interno dell’energia elettrica, ha determinato la
frammentazione dei produttori di energia elettrica, lo "spacchettamento" tra segmenti e soprattutto
l’instaurarsi di un mercato dell’energia che non ha assolutamente incentivato l’innovazione tecnologica,
la ricerca, il miglioramento dei servizi e, in modo particolare, il contenimento dei costi a carico
degli utenti.

Il Decreto Bersani è stato definito e approvato per dare attuazione a una Direttiva Europea, la n.
96/92/CE, accentuandone in maniera molto significativa gli aspetti di liberalizzazione. È bene ricordare,
infatti, che la Direttiva 96/92/CE innanzitutto riconosceva la possibilità di instaurare "progressivamente"
il mercato dell’energia e che, in considerazione delle specifiche situazioni dei singoli
Stati, a essi erano demandate le concrete modalità di attuazione della Direttiva consentendo,
quindi, di scegliere il regime meglio rispondente alle situazioni nazionali nonché di imporre obblighi
di servizio pubblico per garantire risultati (quali la sicurezza dell’approvvigionamento, la protezione
del consumatore e dell’ambiente) che "la libera concorrenza, di per sé, non può necessariamente
garantire". Questo c’è scritto a chiare lettere nella Direttiva invocata per giustificare il Decreto Bersani,
Direttiva che addirittura richiama anche principi programmatori: "una programmazione a lungo
termine può essere uno dei mezzi per realizzare tali obblighi di servizio pubblico".

Ma gli scolari, soprattutto se ex comunisti, devono dimostrare di avere imparato bene e ancor di
più dei loro maestri liberisti. E così il Decreto Bersani non prevede alcun tipo di programmazione e
impone, da subito, un modello spinto di liberalizzazione (vedi ad esempio la scelta, a livello di procedure
amministrative, della semplice autorizzazione per i nuovi impianti di produzione) e di privatizzazione.
Appare opportuno ricordare, per l’ennesima volta, che liberalizzazione e privatizzazione sono due
processi ben distinti. E le liberalizzazioni non sempre riescono in settori caratterizzati da elevati
costi fissi (rispetto ai costi variabili) tipici dei servizi che necessitano di grandi strutture a rete (come
il caso dell’energia). Non necessariamente le liberalizzazioni devono condurre alla dismissione
delle proprietà pubbliche. In Italia, invece, i due processi hanno proceduto in maniera pressochè
contemporanea.

Il Decreto Bersani, all’articolo 8, ha stabilito che a decorrere dal 1° gennaio 2003 a nessun soggetto
fosse consentito produrre o importare, direttamente o indirettamente, più del 50% dell’energia
elettrica prodotta e importata in Italia. Conseguenza diretta di questa disposizione normativa è stato
l’obbligo per l’ENEL di cedere una parte consistente del proprio parco impiantistico. Una modifica
rilevante era già intervenuta nel 1992, con la legge 359 del 1992, che aveva disposto la trasformazione
in S.p.a. dell’ENEL; il colpo di grazia viene dato dal Decreto Bersani che impone la
vendita di centrali e il superamento del modello di impresa integrata verticalmente con la costituzione
di altre società, nate dallo "spezzatino" dell’ENEL: il GRTN per la gestione della rete elettrica
di trasmissione nazionale, l’Acquirente Unico e il Gestore del Mercato Elettrico. L’ENEL, a sua volta,
per rispettare il tetto del 50% imposto dal Decreto Bersani ha dovuto provvedere alla cessione
di centrali elettriche della potenza complessiva di 15.000 MW passando così da 53.000 a 38.000
MW di potenza installata.

Per questo motivo, con DPCM del 29 luglio 1999 (noto come "Decreto D’Alema") sono state costituite
tre società di generazione - Elettrogen, Interpower ed Eurogen - scorporate dall’ENEL, oggetto
di successiva vendita rispettivamente a Endesa Italia, Electrabel/ACEA/Energia, Edipower. Già
dalla vendita delle tre Gen.Co sopra indicate emergono i primi particolari intessanti della storia della
liberalizzazione dell’energia in Italia. Endesa Italia, costituita dalla società spagnola Endesa, era
partecipata al 14,67% da ASM Brescia, mentre AEM Milano partecipa alla società Edipower. Sempre
a proposito di Edipower, tra le partecipazioni azionarie del principale azionista - Italenergia BIS
Spa - figuravano EDF (18%) e il gruppo Tassara (20%).

Nel frattempo, in particolare tra il 2001 e il 2004, si sono moltiplicate le richieste di installazione di
nuove centrali da parte di decine di operatori. La situazione attuale del mercato è caratterizzata da
12 operatori la cui produzione risulta superiore all’1% della produzione nazionale lorda (vedi Rapporto
Annuale 2006 Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas): il gruppo ENEL tra il 2004 e il 2005 è
sceso dal 43,5% al 39%; il gruppo EDISON è rimasto sostanzialmente stabile (dall’11,7 al 12%)
così come EDIPOWER (dall’8,9 all’8%), mentre sono cresciuti il gruppo ENI (dal 5,9 al 9%), ENDESA
Italia (dal 7,3 all’8,2%), Tirreno Power (dal 2,2, al 3,8%). AEM Milano e ASM Brescia viaggiano
attorno all’1%; va tuttavia tenuto conto delle rilevanti partecipazioni in EDIPOWER e ENDESA
Italia.

Dal punto di vista della produzione, secondo i dati forniti da TERNA per l’anno 2005, a fronte di
una potenza complessiva installata in Italia pari a 85.470 MW - in grado di garantire una potenza
media disponibile alla punta pari a 56.300 MW - ben 62.165 MW sono generati da centrali termoelettriche:
si tratta del 72% circa della potenza complessiva installata in Italia. Gas, carbone e petrolio
nel 2004 garantivano il 75% della produzione di energia elettrica, secondo uno scenario elaborato
dal Ministero delle Attività Produttive; nel 2010, queste tre fonti complessivamente garantirebbero
ancora il 74% della produzione. Il ricorso alle fonti rinnovabili resterebbe schiacciato su un
misero 21% (comprendendo comunque l’utilizzo dei rifiuti che solo in Italia sono classificati come
fonte rinnovabile).

Quindi, dalla liberalizzazione del mercato elettrico ad oggi ci sono state ben poche
innovazioni in termini di generazione di energia.
Su un piano più generale un documento redatto dalla FLAEI CISL è ancora più severo nel giudicare
i risultati della liberalizzazione: sul piano della generazione manca qualsiasi programmazione
rispetto alla collocazione territoriale della nuova potenza, nella distribuzione si registra un calo drastico
degli investimenti, i prezzi all’utenza risultano in aumento, l’occupazione è stata ridotta del
50% con peggioramento delle condizioni di lavoro. Infine, la qualità del servizio viene considerata
in caduta verticale (terziarizzazioni, abbandono del territorio, ecc.) e la manutenzione degli impianti
seriamente peggiorata (meno manutenzione, meno sorveglianza, ecc.).

***

Se questi sono i risultati della liberalizzazione del mercato elettrico viene da chiedersi cosa porterà
l’aggregazione AEM - ASM. Innanzitutto non si può fare a meno di rilevare che viene conclusa in
assenza di un Piano Industriale che dovrebbe essere presentato in autunno. Nel frattempo abbondano
le notizie di carattere finanziario e societario. Il nuovo gruppo - che si chiamerà ASEM - può
contare su un fatturato di 9,4 miliardi di euro e un EBITDA da 1,8. In termini di capitalizzazione
(8.822 milioni di euro) si colloca al terzo posto, alle spalle di ENEL e EDISON. Oltre alle partecipazioni
in EDIPOWER e ENDESA Italia, da rilevare anche il controllo attraverso Delmi di EDISON.
Proprio la nomina del futuro Presidente di EDISON sta già scatenando le prime scintille tra Milano
e Brescia e solo un’ampia struttura di governance (consiglio di sorveglianza da 15, consiglio di gestione
da 8, 2 direttori generali) ha consentito di chiudere positivamente l’operazione.

Nessuna notizia, invece, sul piano delle strategie industriali. I precedenti non sono certo incoraggianti.
L’ultimo piano industriale di ASM Brescia (2006 - 2010) verte sostanzialmente sul rafforzamento
delle posizioni acquisite senza introdurre elementi di innovazione. Gli investimenti, superiori
a 1.300 milioni di euro, sono comunque tutti circoscritti alla crescita diretta e in partnership per
sfruttare le economie di scala e ridurre i rischi di mercato, allo sviluppo della base clienti attraverso
i marchi Ergon e ASMEA, al rafforzamento dell’approvvigionamento di gas, al controllo dei costi
per le reti dell’elettricità e del gas per incrementare il rendimento sul capitale investito, a nuove discariche
e nuovi inceneritori. Grosso modo la stessa impostazione, in campo prettamente energetico,
seguita da AEM Milano in particolare nell’ultimo bilancio 2006.

Se il quadro è questo non ci si deve attendere molto dall’aggregazione AEM - ASM se non un rafforzamento
della posizione di mercato e il perseguimento di obiettivi meramente finanziari. Tutt al
più verrà sviluppato il modello aggregativo sin qui perseguito, fondato sulla costituzione di un centro
aggregante (Milano - Brescia) con obiettivi di espansione verso la periferia (un pezzo di Emilia,
il nord Lombardia) e l’individuazione di aree (Como) che facciano da ponte verso altri paesi europei
(Svizzera). In termini di controllo democratico la situazione non può che peggiorare visto che i
rispettivi consigli comunali perderanno ulteriormente di già flebili poteri di indirizzo, programmazione
e controllo e magari acquisiranno ulteriori poteri i rappresentanti del mondo della finanza come
Zaleski già presente in ASM.
Per questo motivo ci sentiamo di proporre un’ipotesi in grado di ribaltare l’impostazione sin qui seguita.

Se per politica economica intendiamo l’insieme degli interventi con i quali le autorità pubbliche
indirizzano il sistema economico verso la realizzazione di determinati obiettivi, ci sembra che
in campo energetico si debba passare attraverso la definizione di questi obiettivi e la conseguente
individuazione degli interventi.
Uno degli obiettivi non può che essere la profonda riforma delle modalità di generazione dell’energia
elettrica. A conferma di quanto espresso nella Direttiva Europea del 1992, la liberalizzazione di
per sé non è stata in grado di intervenire sul piano dell’innovazione tecnologica, lasciando sostanzialmente
immutata la condizione prevalente della produzione di energia elettrica nel nostro paese.

Al tempo stesso, non è possibile immaginare di invertire la tendenza dominante con i semplici finanziamenti,
previsti nella Finanziaria 2007, per l’acquisto di pannelli solari. Questo intervento non
costituisce una misura di politica industriale; interviene a valle, per finanziare il semplice acquisto
di tecnologie decise da altri. Crediamo necessario, invece, intervenire a monte, ovvero sul piano
della generazione delle tecnologie. Perché, quindi, non orientare i finanziamenti pubblici sul settore
della generazione di tecnologie, sostenendo l’attività di centri di ricerca pubblici e sostenendo le
società pubbliche (o almeno con una quota di partecipazione pubblica) che intendono innovare sul
piano della tecnologia?

Questo non cancella, anzi semmai rilancia il problema degli assetti proprietari. Immaginando in
termini di democrazia l’approccio alle questioni economiche, le richieste da porsi riguardano: il chi
produce, che cosa si produce, come si produce. Attraverso il rilancio di una seria politica economica,
con una diretta partecipazione del settore pubblico, si potrà cominciare a rispondere ai quesiti
posti.