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«Ero come in paradiso, poi le torture di Pinochet mi hanno ucciso anche i sogni»

Publie le venerdì 12 settembre 2008 par Open-Publishing
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«Ero come in paradiso, poi le torture di Pinochet mi hanno ucciso anche i sogni»

Militari cileni arrestano un gruppo di giovani dopo il golpe di Pinochet.
Sotto la copertina ...

di Tonino Bucci

Non c’è bisogno di citare Che Guevara per spiegare che la tenerezza è una dote da rivoluzionari. Tante biografie stanno lì a dimostrare che l’impegno politico non è nulla senza un amore spropositato per la vita. Se nel lessico della destra ad attirare è il fascino morboso della "bella morte" - che risuonava nei canti dei repubblichini di Salò - nella storia della sinistra è il sogno d’una vita, magari migliore, a trasparire dalle testimonianze dei suoi protagonisti.

Di tenerezza sono piene le pagine del libro di memorie di Luís Muñoz, rivoluzionario cileno, militante del Mir (il Movimiento de izquierda revolucionaria), passato per le mani dei torturatori all’indomani del golpe di Pinochet di trentacinque anni fa. Il libro è uscito in questi giorni con il titolo Luís. Una voce sopravvissuta a Pinochet (Baldini Castoldi Dalai editore, pp. 368, euro 18). E’ un racconto struggente e appassionato. Viene da una famiglia di modeste condizioni, Luís. Il padre è un ex commerciante caduto in disgrazie che finisce a fare le consegne a domicilio. Luís va a lavorare presto. Si avvicina al sindacato e poi entra nel Mir, la formazione più a sinistra nella politica cilena. Sono gli anni del governo democristiano di Eduardo Frei, anni di una modernizzazione industriale ma anche di brutali repressioni poliziesche. Ma intorno è un fiorire di lotte politiche, di movimenti, di iniziative culturali.

Un’intera generazione scopre l’impegno, lo studio dei classici marxisti. E come d’incanto i desideri s’avverano con la vittoria del fronte di Unidad Popular di Salvador Allende. Ma l’11 settembre 1973 il sogno si spezza. I militari di Pinochet bombardano il palazzo della Moneda. Allende muore difendendosi con un fucile in mano. Luís e la moglie Diana entrano in clandestinità, si separano. Non si vedranno più. Lei verrà ferita nella cattura da parte dei militari e uccisa nelle carceri. Per Luís inizia un calvario nelle stanze della tortura. Subisce violenze inenarrabili: percosse, scariche elettriche attraverso elettrodi legati ai genitali, colpi feroci su tutto il corpo. Viene appesso alla sbarra, è costretto a dormire in verticale chiuso in una cassa di legno. E per costringerlo a fare i nomi arriveranno anche a minacciare di portare lì sua figlia, una bambina. Perché il regime di Pinochet torturava anche i bambini.

Conserverà i segni della tortura a lungo. Ma non è solo il corpo a essere ferito, è la sua anima. Luís Muñoz racconta con grande senso d’umanità le ferite psichiche della tortura. «Niente sarebbe stato più lo stesso. Non i fiori, non il sole, non la luna, non le stele. Niente, non un bimbo che piange, i volti delle persone amate, riso, felicità, amore, parole, baci, carezze, odori, neanche il cibo avrebbe più avuto lo stesso sapore. Ogni cosa era cambiata per sempre, persino i miei sentimenti mi avrebbero tradito, e più d’una volta».
Oggi Luís vive a Londra in un esilio senza fine.

La politica è stata la passione della sua vita. Per la sua generazione significava una promessa di vita diversa e di un mondo migliore. Come ha iniziato a fare politica e perché scelse il Mir?
Come racconto nel libro ho iniziato a far politica nel sindacato sotto l’influenza di un’organizzazione marxista. Poi finii nel Mir perché era al di fuori del mainstream tradizionale della sinistra. In quegli anni era molto forte il modello della rivoluzione cubana, non dimentichiamolo. Ma naturalmente la spinta verso l’impegno politico mi è venuta anche dalla storia della mia infanzia e dalla mia esperienza diretta delle disuguaglianze e dell’ingiustizia sociale in Cile.

A un certo punto, verso la fine del governo cristiano democratico di Eduardo Frei, lei e i suoi compagni capite che è ora di difendervi dalle repressioni della polizia, se necessario anche con le armi. Per trovare soldi e dare aiuti ai poveri delle periferie fate espropri e rapine. Oggi va di moda dire che ogni violenza è uguale e che se un oppresso compie un atto violento si mette sullo stesso piano del suo oppressore. Lei che la violenza degli oppressori l’ha subita sulla sua pelle, se la sente di spiegare la differenza?
Allo stesso modo potrei chiederle se lei giudica Nelson Mandela vile come i suoi oppressori. C’è un punto in cui un essere umano deve rispettare la propria integrità, e la sua vita, la sua famiglia e la sua comunità sono in pericolo. E per mantenere la propria umanità egli deve proteggere se stesso e la sua comunità e questo, in finale, può voler dire anche una resistenza violenta. Cosa sarebbe stato il mondo oggi senza Mandela e Che Guevara?

Allende diede grandi speranze al popolo cileno: la cultura, l’alfabetizzazione, la nazionalizzazione delle industrie, le leggi a favore di operai e contadini. E’ rimasto qualcosa di quelle speranze?
Non molto, purtroppo. A parte il suo esempio per gli altri.

Ci può dare un’idea di cosa era Santiago prima del colpo di Stato? Che atmosfera c’era in città sotto il governo di Unidad Popular di Allende, come erano le relazioni fra le persone?
Ci sentivamo in paradiso! Nella maggioranze delle persone avvertivi un senso di felicità. Eravamo padroni del nostro destino e del nostro futuro. La quotidianità era piena di cultura, di vitalità, di speranza. C’erano incontri, iniziative, musica.

Ve l’aspettavate un colpo di Stato? Avevate idea di quanto forti fossero i vostri nemici?
C’erano due opinioni al riguardo. Una molto ottimistica di chi riteneva che le forze armate, in caso di golpe, si sarebbero spaccate e divise. L’altra, più realistica, prevedeva che sarebbero state un corpo monolitico e potente.

Come mai l’esercito si è schierato quasi per intero con Pinochet e contro il capo che all’epoca era il generale Carlos Pratz Gonzalez?
Gonzalez sosteneva Allende. Per questo lo isolarono, lo umiliarono e lo costrinsero a dimettersi. Nessuno solidarizzò con lui nell’Alto comando.

Allende poteva fare qualcosa di diverso per prevenire il colpo di Stato?
Sì, certo, avrebbe potuto dimettersi e accettare l’offerta di fuga che gli fecero i golpisti. Ma Allende non accettò questa semplice opzione. Ma anche se lo avesse fatto non sarebbe servito comunque a evitare alla popolazione le ripercussioni successive.

Il dolore sotto tortura non si può neppure immaginare. Così lei scrive nel libro. Non so se ne ha voglia di parlare. Cosa le ha dato la forza di non fare i nomi dei suoi compagni e di resistere fino all’ultimo? Altri non ce l’hanno fatta ...
Non posso giudicare gli altri perché nessuno dovrebbe essere torturato per nessuna ragione al mondo. Non ci si può aspettare da un uomo che sopporti un tale trattamento. La mia forza di resistenza veniva dalla rabbia, dal mio carattere, dalle mie esperienze personali e, soprattutto, dal fatto che non avevo timore di fronte all’eventualità di essere ucciso come, invece, è accaduto a tanti altri. Questo mi ha aiutato tantissimo ma è una faccenda molto personale.

E’ riuscito a farsi un’idea di quel che passava nella mente dei torturatori? Cosa può spingere un uomo ad accanirsi in quel modo verso un altro essere umano indifeso e immobilizzato? Perché il regime di Pinochet ha trovato così tanti manovali disposti a torturare?
L’hanno fatto soprattutto per paura. Un regime fondato sul terrore utilizza la paura per spingere le persone a comportarsi in un certo modo. Per alcuni torturatori le violenze permettevano di dare sfogo ai lati più oscuri delle loro personalità. Noi eravamo tutti nelle loro mani.

Lei parla con molta tenerezza dell’infanzia e dei bambini. Eppure un tempo, quando lei ha cominciato a fare politica, si diceva che un militante rivoluzionario non dovesse avere legami forti né tantomeno figli. Cosa le ha fatto cambiare idea?
Non mi riconosco in questo. Ma forse nel mio libro ho citato la rivoluzionaria Maringhela, autrice all’epoca di una manuale sulla guerriglia urbana che ebbe molta diffusione. A volte il prezzo che devi pagare per le tue scelte politiche è difficile da giustificare per chi ti sta vicino. Sono valori molto personali. Ma io penso che puoi tenerti i tuoi ideali e allo stesso tempo stare vicino alla tua famiglia. E’ il regime al quale ti opponi che deve cambiare, non tu.

C’è in Cile una memoria pubblica di quel che accadde durante la dittatura?
Solo i più anziani che hanno ricordi diretti e, stranamente, i giovani. I giovani e gli studenti sono interessati alla storia del nostro paese. Sono ancora arrabbiati.

Se la sentirebbe oggi, dopo tanti anni, di tornare a vivere in Cile?
No. Ho una vita e una famiglia in Gran Bretagna ora.

Messaggi

  • Sono un’insegnante delle scuole medie della provincia di Siena.
    Ho letto l’articolo che parla della repressione in Cile dopo il golpe di Pinochet.
    C’è veramente bisogno di richiamare alla memoria le speranze che si diffondono nelle società al verificarsi delle rare e preziose occasioni rivoluzionarie, purtroppo quasi sempre stroncate brutalmente.
    Io ho assistito alle lotte del movimento studentesco nel 1977, quando si concludeva l’onda lunga delle agitazioni post sessantottine.
    Non ho figli, ma so che gli studenti hanno successivamente tentato di ridare vita al movimento, in forme non soltanto rituali.
    Il corporativismo delle parti sociali e l’individualismo rischiano di affossare quella che è destinata ad apparire solo una "generosa illusione".
    Tuttavia voglio ringraziare chi crea e chi diffonde la testimonianza della costruzione e della pratica della più affascinante delle utopie sociali, cioè quella marxista.