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Gaza, la «soluzione» di Italia e Nato
di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci
Dopo un cordiale colloquio a Tel Aviv ieri con la collega Tzipi Livni e la cerimonia di consegna degli «aiuti umanitari italiani alla popolazione di Gaza» - raccolti perlopiù dalle Regioni e quasi sequestrati dal governo italiano - il ministro degli esteri Franco Frattini è oggi al Cairo per «rilanciare l’impegno italiano a favore di una soluzione politica della crisi». Quale sia la «soluzione» lo ha chiarito il presidente del consiglio Berlusconi, in visita domenica a Gerusalemme: ha confermato la vicinanza dell’Italia a Israele e ricordato che è stata l’Italia a proporre all’Unione europea che Hamas venisse inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, giustificando così l’attacco israeliano a Gaza. «Hamas - ha ribadito Frattini - non può essere un interlocutore politico». Ha quindi confermato che l’Italia mette a disposizione un contingente di carabinieri, da dislocare nella Striscia di Gaza perché gli egiziani non li vogliono sul proprio territorio, e navi militari da schierare di fronte a Gaza «per la lotta al traffico di armi verso Hamas».
Dimenticando la questione che preme in primo luogo sul «mediatore» principale, vale a dire Hosni Mubarak: quella della fondamentale unità da ricostruire tra i palestinesi, nodo che vede impegnato in queste ore il presidente Abu Mazen che, con il premier dell’Anp Salam Fayadd, ha proposto a sorpresa - la cosa era tutt’altro che scontata - un governo di unità nazionale con Hamas. Una proposta che può apparire perfino strumentale, ma che certo esprime le difficoltà complesse della stessa leadership di Fatah e dell’Anp accusate da un vasto schieramento d’opposizione dentro Fatah di essere stati immobili e incapaci di fronte all’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza.
Inoltre la maschera di Silvio Berlusconi ha ripetuto la giaculatoria del «piano Marshall» così come l’annuncio dell’arrivo dei salvifici e provvidenziali «carabinieri schierati a a Gaza». Mubarak in questo momento delicato non vuole truppe straniere all’interno dell’Egitto e mostra per questo difficoltà anche per il «confine» di Rafah. Ma soprattutto va ricordato che una missione di carabinieri a Rafah nel 2005 c’era già, ma poi con l’embargo arrivato dall’Occidente per isolare Hamas vittoriosa nelle elezioni del gennaio 2006 in tutta la Palestina - non solo «a Gaza» come continua a scrivere l’«ignorante» Piero Ostellino sul Corriere della Sera - quella missione fallì nell’incapacità di gestire la disperazione di un milione di palestinesi chiusi nell’assedio della Striscia. La situazione precipitò anche con il sequestro da parte di Hamas del soldato israeliano Shalit.
Naturalmente Berlusconi e Frattini nella loro missione in Medio Oriente non hanno invece parlato di un ben più consistente traffico di armi, diretto verso Israele, in cui l’Italia svolge un ruolo di primo piano.
Lo scorso settembre, documenta il giornale israeliano Jerusalem Post del 29 dicembre, il Congresso Usa approvò la fornitura a Israele di 1.000 bombe antibunker Gbu-39 a guida Gps che, sganciate a oltre 100 km di distanza, penetrano per quasi un metro nel cemento armato prima di esplodere. Le bombe, giunte in Israele agli inizi di dicembre, sono state usate «con successo» nell’attacco a Gaza. Sono seguite altre forniture, così che le forze israeliane, impegnate in massicci bombardamenti, non rimanessero a corto di munizioni. Da dove provengono e transitano queste munizioni, comprese quelle al fosforo, dirette in Israele? Lo ha rivelato indirettamente lo stesso Pentagono, quando ha parlato di un deposito Usa in Israele che, come già avvenuto nella guerra contro il Libano nel 2006, rifornisce le forze israeliane «in caso di emergenza». Questo e un altro deposito sono riforniti dal 31° squadrone munizioni che opera a Camp Darby, la base logistica Usa (tra Pisa e Livorno), in cui sono depositate enormi quantità di munizioni per le forze aeree e terrestri Usa. Da qui, attraverso porti e aeroporti italiani, esse vengono trasferite in Israele.
Emerge così la natura dell’operazione sotto egida Nato, a cui l’Italia parteciperà: sottoporre Gaza a un nuovo tipo di embargo, camuffato da peacekeeping, continuando allo stesso tempo a sostenere e armare Israele. È questo il senso dell’accordo Usa-Israele, stipulato il 16 gennaio dalla segretaria di stato uscente Condoleezza Rice e dalla ministra degli esteri israeliana Tzipi Livni. Esso prevede una stretta cooperazione tra i servizi di intelligence per «identificare la provenienza delle armi che entrano a Gaza» e un blocco terrestre e marittimo per impedire questo «contrabbando». La Livni ha invitato anche la Nato a partecipare all’operazione. La risposta è scontata.
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ha ratificato il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: contro-terrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
E l’11 gennaio 2009, circa due settimane dopo l’inizio dell’attacco israeliano a Gaza, il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer si è recato in visita ufficiale in Israele nel quadro del «Dialogo mediterraneo». Una visita quasi nascosta dai media occidentali. Nel suo discorso, ha ribadito che «Hamas, con i suoi continui attacchi di razzi contro Israele, si è addossato la responsabilità delle tremende sofferenze del popolo che dice di rappresentare». Ha quindi ricordato che Israele contribuisce efficacemente all’operazione marittima Nato Active Endeavour, iniziata nel 2001 per «combattere il traffico illecito e il terrorismo nel Mediterraneo». La squadra navale Nato, in cui sono inserite le unità israeliane, è comandata da un ufficiale italiano, ma la squadra navale dipende dal Joint Force Command Nato di Napoli, agli ordini dell’ammiraglio statunitense. In questo comando è stato inserito un ufficiale israeliano, che assicura il collegamento tra le forze Nato e quelle israeliane.
Il segretario generale della Nato ha quindi lodato Israele per aver aderito con il «massimo entusiasmo» al «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In quello stesso momento le forze israeliane massacravano coraggiosamente da mare, cielo, e terra i civili - e tanti bambini - di Gaza.
Insomma, le nazioni europee e la Nato rischiano di compromettere con il loro appoggio incondizionato a Israele, sia la fragilissima tregua unilaterale, di Israele e Hamas, sia gli sforzi interpalestinesi per ricostruire un’unità interna finora compromessa. Aspettando, davvero, l’inviato speciale di Barack Obama per il Medio Oriente George Mitchell.