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Giordano: "Si muovano Onu ed Europa, fermiamo Israele prima che sia troppo tardi"

Publie le sabato 15 luglio 2006 par Open-Publishing

di Stefano Bocconetti

Le domande, le solite domande. Quelle che un po’ tutti si aspettano, e - purtroppo - quelle che un cronista si sente in obbligo di fare. Sulla missione in Afghanistan, sul decreto, sulla mozione, sui “dissidenti”, sull’Udc e via dicendo. Franco Giordano, nella sua stanza al terzo piano di viale del Policlinico, risponde a tutto. Con la solita disponibilità. C’è qualcosa però che lo infastidice. No, non è la ripetizione di domande che si sarà sentito fare mille volte in questi giorni. "Non ho alcun problema a parlare dell’Afghanistan. Il nostro obiettivo resta il ritiro, ma credo che sia importante l’aver impedito che crescesse l’impegno italiano in uomini e mezzi, come chiedeva il segretario generale della Nato e addirittura lo stesso Kofi Annan. Siamo per il ritiro ma credo sia importante il documento di politica estera, che accompagnerà il decreto, quello che si sta definendo in queste ore. Se tutto va bene - e le notizie che ho mi fanno dire che si va nella direzione giusta - credo che si possa davvero dire che c’è un’inversione netta gradi rispetto al passato governo". Non sono allora le domande, né l’argomento afghano, che lo infastidiscono.

Che cos’è? Che c’è che non va in queste giornate?

La metto giù esplicita. La cosa brutta di queste ore è la miseria della politica italiana. E’ la miseria di un dibattito che fa finta di guardare al contesto internazionale ma che, invece, serve solo ad obiettivi di piccolo cabotaggio. Tutti legati alla provincialissima politica italiana. Serve solo a fini strumentali.

Stai dicendo che quello di queste ore è un brutto dibattito?

Io ti dico, d’accordo con quel che ha scritto Liberazione, che vedo molti che si appassionano alle virgole di un documento sull’Afghanistan. E’ importante. Ma ci rendiamo conto che sta accadendo qui a due passi dall’Europa, abbiamo gli occhi per vedere come sta degenerando il conflitto israelo-palestinese? Siamo alla guerra guerreggiata, ce ne siamo accorti o no?

E cosa bisognerebbe fare?

Per noi è decisivo rilanciare la mobilitazione democratica per strappare impegni veri all’esecutivo. Impegni per fermare il governo israeliano, che occupa Gaza, la Cisgiordania, che minaccia il Libano. Per fermare l’esercito israeliano che rischia di produrre un’inaccettabile tragedia. Sì, li dobbiamo fermare. Dobbiamo provare tutte le forme di pressione per ricostruire le condizioni favorevoli al negoziato, per riprendere la strada che porti alla costruzione di due popoli e due Stati.

Che significa esattamente che occorre provare tutte le forme?

Che oggi, proprio come hanno sempre fatto i palestinesi, dobbiamo chiedere con forza che in Palestina e in quelle zone martoriate siano inviate truppe di interposizione dell’Onu.

Anche truppe italiane?

Certo, se servono, anche soldati italiani. Bisogna fermare quella guerra.

Credi che il resto della coalizione sia disponibile a battersi per una soluzione di pace in Palestina?

D’Alema ha detto cose importanti, diciamo così: ha cominciato, ma non basta. Occorrono interventi molto più effiaci. Più rapidi. Occorrono prese di posizione politiche più nette.

Chiedi segnali di discontinuità in Medio Oriente. E in Estremo Oriente, invece? Lì ci sono quei segnali?

Francamnente questa non l’ho mai sentita. Il decreto - perché credo tu mi stia domandando di quello - prevede il ritiro dall’Iraq. Ritiro totale e non, come ha fatto Zapatero, spostando uomini e mezzi verso l’Afghanistan. Più segnale di discontinuità di questo! Un segnale, un obiettivo costruito grazie alla capacità di incidere del movimento pacifista di questi anni.

Citavi l’Afghanistan. Ed eccoci arrivati: a che punto è la trattativa fra le forze dell’Unione su questo paragrafo?

Ti ripeto, ancora non conosco la versione finale della mozione che accompagnerà il decreto. Da quel che so, lì ci sono molte delle nostre rischieste. Si prevede una verifica di tutte le missioni, e in particolare quella dell’Afghanistan, nelle sedi internazionali, Onu e Nato. Ci sarà una commissione interparlamentare, aperta al contributo dell’arcipelago pacifista e delle organizzazioni non governative, che valuterà cosa davvero accade in Afghanistan. Si parla di superamento di Enduring Freedom. C’è un richiamo forte, esplicito all’articolo 11 della nostra Costituzione. C’è l’obiettivo di uscire dai diktat atlantici, per cui contano solo le zone del mondo dove ci sono interessi geopolitici, per dirne un’altra, un impegno italiano nel Darfur. In un’altra guerra devastante ma dimenticata.

Ma nel decreto si conferma la presenza dei nostri militari. Una cosa, per cominciare: non ci si poteva pensare prima? Non si poteva discuterne al momento del varo del programma?

Tutti sanno che su questo argomento non c’è una semplice diversità di vedute ma ci sono davvero posizioni opposte. C’è chi come noi considera quella in Afghanistan una guerra, come quella in Iraq e sostiene la necessità di una exit strategy e c’è chi vorrebbe aumentare la nostra presenza. Ancora poche ore fa, lo ha chiesto il Presidente della Commissione Difesa del Senato, quello che ha preso il posto che spettava a Lidia Menapace. E le alternative, davanti a questa situazione, sono solo due: o lasciar fare alle forze prevalenti nel centro-sinistra o provare a costruire un terreno più avanzato per far vivere la nostra iniziativa.

Scusa la franchezza: ma perché nel decreto non c’è il segno prevalente delle forze moderate del centrosinistra?

Io so che se avessimo lasciato fare alle forze prevalenti nella coalizione, queste avrebbero accettato senza dubbi la pretesa del segretario generale della Nato di aumentare gli uomini, i mezzi militari in Afghanistan. Di più: avrebbero accettato la pretesa di impegnare le nostre truppe nel sud del paese, dove il conflitto sta diventando sempre più caldo. Tutte cose che abbiamo impedito.

Tutte cose che non hanno modificato, però, il giudizio di un gruppo di senatori e di deputati sul decreto.

E qui ci vedo una sorta di eterogenesi dei fini. Le prese di posizione di una forza politica, e anche - purtroppo - di un gruppo di compagni di Rifondazione fanno correre al paese il rischio di uno spostamento dell’asse politica verso il neocentrismo. Verso una politica molto, ma molto più filo atlantica.

Tu, insomma, non fai nessun calcolo sui voti dell’Udc e della casa dela Libertà.

Facciano quel che vogliono. Decidano loro se votare un atto istituzionale che prevede il ritiro senza condizioni da un teatro di guerra come l’Iraq. Teatro dove loro, quella maggioranza di destra, ci ha portato. Se lo fanno, ovviamente, a nessuno sfuggirà il carattere strumentale di quella posizione. L’importante è che l’Unione sia autosufficiente e allora non ci sarano manovre possibili.

Ai dissidenti, cosa dici?

Ai partiti che si oppongono ricordo che l’alterità rispetto alla guerra - un’alterità alla quale magari si è approdati da poco ma che considero ugualmente importante - non ha nulla a che vedere con la conquista, con lo spostamento millimetrico di visibilità nella cittadella della politica.

E ai senatori di Rifondazione?

Io credo che il partito abbia ricevuto un preciso mandato politico. Abbia ricevuto un mandato su una linea decisa dopo un lungo percorso democratico. Sia chiaro e a scanso di equivoci: credo che sia più che legittimo il dissenso. E credo che sia più che legittimo il diritto a rendere esplicito questo dissenso. L’unica cosa che non può avvenire è che tutto questo metta a rischio il concretizzarsi di scelte decise democraticamente.

Ma insomma cos’è questo rischio?

E’ sotto gli occhi di tutti. Chi teorizza, dopo appena due mesi di vita del governo Prodi, una maggioranza a geometria variabie, rischia di snaturare l’Unione. E quindi, rischia di snaturare il ruolo e il compito di Rifondazione in quella coalizione.

Cosa vuoi dire?

Nulla, nulla di più di quel che sto dicendo. Faccio un appello, un fortissimo appello perché qualunque sia il dissenso, tutti si sentano parte di questa comunità. Della comunità di Rifondazione. Faccio un appello, vorrei dire di più ma non esiste un accrescitivo di appello, perché tutti scelgano di tutelare gli interessi e le scelte di questa comunità. Che tutti quanti abbiamo contribuito a creare.

Al di là dei senatori o dei parlamentari, vedi disagio in giro nel partito?

Vedo una discussione vera. Ma vedo soprattutto una richiesta: non lasciarsi invischiare nel gioco della “politique politicienne”. Il nostro blocco sociale, quelle centinaia di migliaia di precari, di disoccupati, di lavoratori, di pensionati, tutti coloro che giustamente pretendono un risarcimento sociale dopo cinque anni di governo delle destre, ci chiedono di non mettere a rischio l’esecutivo. Ci chiedono di non ridurre la nostra capacità di contrattazione. Al contrario, vogliono che andiamo avanti, che non ci limitiamo a grandi enunciazioni di principio ma che cambiamo in concreto le loro condizioni di vita. Come abbiamo fatto, come stiamo provando a fare col documento finanziario. La nostra base sociale, composta per tanta parte dallo straordinario movimento pacifista di questi anni, ci chiede di non limitarci ad affermazioni identitarie. Ci chiede di non salvarci l’anima, come avverrebbe con un voto di fiducia. Ci chiede di sporcarci le mani, di insistere. Per costruire condizioni sempre più avanzate. Per costruire quelle condizioni che ci porteranno ad uscire anche dal pantano afghano.

http://www.liberazione.it/notizia.asp?id=3960