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Gli schiavi dell’Emilia rossa
di Giusi Marcante
Immigrati dalla Moldavia pagati appena 1,70 l’ora e tenuti al nero. Un’inchiesta giudiziaria svela come funziona il lavoro immigrato in edilizia a Reggio Emilia e dintorni. Senza far distinzioni tra appalti pubblici e privati. La scoperta grazie alle denunce dei lavoratori raccolte dall’associazione Città migrante
In principio fu una valigia piena di timbri e documenti falsificati finita in mano ai carabinieri grazie alla gelosia di un uomo per un presunto tradimento della sua donna. Poi sono arrivate le denunce di tanti, troppi, lavoratori stranieri che raccontavano di non essere stati pagati. Manodopera in nero e senza documenti in grado di sfuggire tranquillamente ad eventuali controlli nel cantiere: agli operai venivano fatti firmare contratti compilati a nome di altri lavoratori stranieri regolari e anche il badge che ogni manovale dovrebbe avere mentre lavora in cantiere riportava l’altro nome. Le indagini dei carabinieri di San Polo d’Enza e di Castelnuovo Monti sono durate un anno, sotto la direzione del pm Valentina Salvi, e hanno portato negli ultimi giorni agli arresti di alcuni imprenditori molto noti a Reggio Emilia e di un loro fidato capo cantiere. Associazione a delinquere finalizzata all’introduzione e alla permanenza di clandestini, falsificazione di permessi di soggiorno estorsione e utilizzo di manodopera clandestina: sono queste le accuse che hanno fatto finire in carcere Giovanni Freno, Marco Pozza e il figlio Federico e Victor Boldisor, cittadino moldavo considerato il tramite per l’arrivo di lavoratori dalla Moldavia che pur sgobbando nei cantieri italiani venivano pagati come se si trovassero in patria.
A suo modo una piccola multinazionale dello sfruttamento della manodopera che ha prosperato negli appalti, anche in quelli pubblici, tra Emilia Romagna, Toscana, Lombardia, Lazio e Liguria. In quest’ultima regione sono stati aperti cantieri anche al porto di Genova. Ital Edil srl e Technological Building 7 srl: tutte mutazioni della stessa impresa che dietro la facciata mostravano una realtà di lavoro duro e di condizioni di vita che non è esagerato definire con il termine di schiavitù. Tutto questo nel cuore dell’Emilia produttiva e un tempo "rossa" dove il boom edilizio è stato l’occasione per ottimi oneri urbanistici che sono finiti nelle casse degli enti locali. Ma che ha riservato anche le forme dell’illegalità spregiudicata come dimostra questa inchiesta della magistratura o delle infiltrazioni mafiose come insegna la vicina provincia di Modena.
Secondo le indagini i lavoratori venivano pagati cifre che potevano arrivare fino ad un euro e settanta centesimi all’ora. Questo ha raccontato ai carabinieri un uomo moldavo: di essere stato prelevato in aeroporto nel 2003 e portato a lavorare nei cantieri di un’altra ditta collegata agli arrestati, Valsem Costruzioni Italia, con la promessa che dopo tre mesi sarebbe stato pagato tre euro all’ora. La sua vita è diventata un’odissea: ogni volta che il suo permesso di soggiorno scadeva veniva rimandato in patria per poi essere richiamato in Italia. Quando ha perso i documenti ha iniziato a lavorare per Ital Edil perché, gli avevano spiegato, «lì poteva lavorare anche da clandestino». La paga da 1,70 all’ora per alcuni era un semplice miraggio visto che, come risulta dalle diverse denunce presentate dall’avvocato Vainer Burani per conto di alcuni cittadini egiziani, spesso gli operai non venivano neanche pagati. Dopo gli accordi iniziali e i primi giorni di lavoro veniva dato loro un acconto di poche centinaia di euro.
Il lavoro però proseguiva come si susseguivano gli spostamenti nei vari cantieri. Se però i lavoratori iniziavano a reclamare i loro soldi venivano minacciati di essere rimandati nei loro paesi grazie alle «amicizie» che Freno e Pozza vantavano di avere in Questura, Prefettura e tra i carabinieri. L’unico modo per avere lo stipendio era continuare a lavorare per loro, a scatola chiusa e senza troppe domande. Le denunce che l’avvocato Burani ha depositato alla procura di Reggio Emilia lo scorso aprile sono tutte fra loro simili: il primo contatto negli uffici della Ital Edil e il colloquio con Pozzi che si qualificava come tecnico della società. «Avevo fatto presente che ero privo di documenti - racconta nella sua denuncia uno dei lavoratori egiziani - ma mi è stato risposto di non preoccuparmi perché avrebbero risolto loro il problema, basta che fossi capace di fare l’intonacatore».
Adesso Mohamed Harhash ha ottenuto un permesso di soggiorno per protezione sociale. Nella querela spiega bene quale fosse il meccanismo su cui poggiava Ital Edil e le sue successive trasformazioni: assumere lavoratori irregolari, fornire loro documenti con il nominativo di altri stranieri che avevano lavorato per loro e di cui avevano fotocopiato il permesso di soggiorno, dare una piccola cifra come prova che i pagamenti sarebbero prima o poi arrivati, portare i lavoratori nei vari cantieri aperti e farli lavorare con la minaccia di denunciare la loro clandestinità. E poi c’erano le condizioni in cui queste persone erano costrette a vivere: monolocali in cui venivano ammassate fino ad otto persone o seminterrati in cui in nove bisognava dividersi trenta metri quadri, ha raccontato Harhash al magistrato. Il lavoro era senza sosta sia nei giorni feriali che in quelli festivi ed era estremamente faticoso. Come accadeva in un cantiere a San Bartolomeo a Mare, in provincia di Imperia, dove si doveva portare in continuazione per una distanza di trecento metri «tutto il materiale a spalla dalla strada al cantiere di costruzione di villette a schiera».
Oltre a quella di Harhash, che ha 31 anni e una laurea in agronomia conseguita in Egitto e mai sfruttata in Italia dove ha sempre lavorato in edilizia, le denunce hanno iniziato ad accumularsi sul tavolo del pm Salvi dimostrando che non si trattava di casi singoli ma di un vero e proprio metodo che accomunava sempre gli stessi personaggi. A questo punto il puzzle delle indagini si è ricomposto anche grazie alla famosa valigia piena di timbri e foto. Sì, perché a volte la gelosia percorre strade insperate e così un ragazzo di origine marocchina ha portato i carabinieri dritti a casa della compagna che aveva avuto in custodia un borsone da un altro marocchino. Era l’uomo con il quale pensava che la sua donna lo tradisse, per i carabinieri è lui che falsificava i documenti. In questo momento è latitante, probabilmente in Marocco. Nella valigia c’era di tutto: timbri del consolato del Marocco di Bologna, dell’ufficio comunale di Gualtieri, della prefettura di Verona, dell’agenzia delle entrate di Bolzano, addirittura del vice prefetto di Reggio Emilia; tutto il necessario per realizzare permessi di soggiorno clonati con i quali coprire i lavoratori che cadevano nelle maglie della rete. Non è un caso che i Carabinieri abbiano battezzato questa operazione "Permesso Facile".
L’inchiesta conta anche casi di lavoratori che hanno consegnato fino a otto mila euro ai vari Freno e Pozza per avere in cambio un documento, ma il metodo più utilizzato era semplicemente quello di non pagare gli operai. Un’impresa che secondo stime prudenziali potrebbe aver sfruttato fino a trecento persone a Reggio Emilia e dintorni. Lavoratori come Mohamed Harhash che ad un certo punto si sono resi conto di non essere gli unici ad aver sopportato tanto.
I primi a denunciare il brutto affare dell’Ital Edil sono stati gli attivisti dell’associazione Città Migrante di Reggio Emilia, nata dall’esperienza del Comitato lavoratori irregolari che il 1 maggio 2007 organizzò una grande manifestazione di lavoratori immigrati bissata con successo quest’anno. Il 25 febbraio si sono presentati di fronte alla sede della Technological Building7 (quella di Ital Edil nel frattempo era stata chiusa) assieme a cinquanta lavoratori stranieri che chiedevano di essere pagati e uno striscione dove c’era scritto «chi è l’irregolare, lo sfruttato o lo sfruttatore?». Una mattinata movimentata visto che fu l’occasione per uno scambio di vedute tra gli attivisti, gli immigrati e Marco Pozza che passò al contrattacco denunciando Città Migrante per diffamazione e chiedendo un risarcimento di ventimila euro. Il processo che si è aperto di fronte al giudice di pace lo scorso 18 novembre è stato subito rinviato.
Grazie all’associazione questi lavoratori hanno trovato assistenza legale e l’avvio del percorso che li ha portati ad ottenere il permesso di soggiorno in base all’articolo 18 della legge Bossi-Fini (una circolare dell’ex ministro dell’interno Giuliano Amato incoraggiava le questure italiane nell’agosto 2007 a rilasciare questo documento nei casi di sfruttamento dei lavoratori immigrati). Del denaro che spetta loro per ora neanche l’ombra, mentre Ital Edil a novembre è stata dichiarata fallita in tribunale. «Uno dei miti che noi vogliamo sfatare e che questa vicenda mette nero su bianco è che la clandestinità sia una scelta - spiega Federica Zimbelli di Città Migrante - questa città è al quarto posto in Italia per presenza di stranieri irregolari e non lo diciamo noi ma Il Sole 24Ore». L’associazione vuole sottolineare come la combinazione tra gli effetti della crisi economica e la legge Bossi-Fini porterà «ad un aumento esponenziale della disoccupazione per cui i lavoratori migranti regolari diventeranno presto irregolari».