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I giornalisti in prima linea: "Siano rispettati come i civili"

Publie le sabato 17 marzo 2007 par Open-Publishing

I preoccupanti dati diffusi da Reporters sans Frontières "Da testimoni imparziali a oggetto di scambio"

di Alessandro Oppes

Sempre più in prima linea, sempre più a rischio. Le statistiche sui giornalisti rapiti, diffuse per la prima volta da Reporters sans Frontières, danno la dimensione del pericolo crescente per gli inviati impegnati in zone di conflitto, soprattutto nei punti caldi dello scenario mediorientale: 56 sequestri nel corso del 2006 in una decina di paesi.

L’Iraq, ancora una volta, in vetta alla lista nera, con 17 professionisti dell’informazione privati della libertà (7 di loro sono stati uccisi), mentre tutti i 6 rapiti nei Territori palestinesi sono stati rilasciati (spesso si è trattato di brevi azioni dimostrative) senza che i loro sequestratori venissero processati.

Le condizioni di lavoro dei reporter in zona di guerra sono diventate elemento di un’analisi sempre più preoccupata da parte delle organizzazioni internazionali. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, alla vigilia dello scorso Natale, ha approvato all’unanimità una risoluzione che condanna gli attacchi contro i giornalisti e riafferma il principio stabilito dalla Convenzione di Ginevra secondo cui i rappresentanti dei mass media impegnati nelle aree di conflitto armato "devono essere considerati come civili, e rispettati e protetti come tali".

L’Ifj, la Fondazione internazionale dei giornalisti, ha perfino pubblicato una "guida per la sopravvivenza" ad uso degli inviati in zone di conflitto, facendo una sintesi delle motivazioni dei rapitori: profitto politico (il sequestro di un giornalista conosciuto può procurare un’eccellente pubblicità, i rapitori possono chiedere la liberazione di prigionieri legati alla loro causa); vendetta (è il caso in cui la persona viene associata a un paese o a un gruppo considerato dai sequestratori come un nemico. E’ la situazione peggiore, in cui è difficile possa essere avviata una trattativa); assicurazione (i rapitori utilizzano il giornalista come un ostaggio per garantirsi la sicurezza nel caso di una ritirata o nel corso di un periodo di tensione o di negoziato); confusione d’identità (il reporter viene rapito per errore o nella convinzione che rientri in una delle categorie precedenti).

"Nel corso degli ultimi 25 anni - ha scritto Robert Fisk, inviato di guerra del quotidiano britannico "The Independent" - ho assistito alla lenta e dolorosa erosione del rispetto per il nostro lavoro. Generalmente, noi correvamo rischi per la nostra vita durante le guerre (come accade tuttora), ma raramente i giornalisti erano obiettivi deliberati. Eravamo i testimoni imparziali dei conflitti, spesso i soli testimoni, i primi a scrivere la storia. Anche le milizie più violente lo capivano. Ma in Libano, in Algeria, e poi in Bosnia, questa protezione comincia a disintegrarsi".

La natura dei conflitti cambia e mette a nudo lo stato di assoluta insicurezza nel quale si trovano a lavorare i professionisti dell’informazione. E’ per questo che, negli ultimi anni, si sono moltiplicati i corsi di addestramento per gli inviati destinati alle zone di guerra e le grandi organizzazioni per la difesa della libertà di stampa - da Rsf al Ifj - hanno pubblicato manuali di "sopravvivenza" ad uso dei giornalisti, con grande profusione di consigli e raccomandazioni. Ma, forse, la lettura più interessante, è quella della testimonianza diretta di Terry Anderson, ex corrispondente della Associated Press ostaggio per sette anni in Libano, raccolta dal Cpj (Committee to Protect Journalists): "Essere catturato e mantenuto come ostaggio è traumatico, ma dovete ricordare che il vostro principale obiettivo è sopravvivere. Dovete essere pratici e pragmatici. Una strategia deliberata che adottammo con i miei compagni nell’atteggiamento verso i nostri rapitori, giovani guardie che erano fondamentalisti islamici, fu ottenere che riconoscessero che eravamo esseri umani e non criminali. L’idea era fargli sapere che loro ci potevano tenere prigionieri, ma non potevano castigarci perché non avevamo fatto niente di male. I sequestratori non sono razionali, ma spesso sono intelligenti".

http://www.repubblica.it/2007/03/se...