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I server di Indymedia tornano a casa, ma è giallo sulle responsabilità del blocco

Publie le venerdì 15 ottobre 2004 par Open-Publishing

di Valentina Petrini

I server tornano a funzionare ma il giallo resta. La vicenda Indymedia si fa oscura e piena di domande (ora molto di più di quanto ipotizzato all’inizio, una settimana fa). «Abbiamo ricevuto i dischi questa mattina -dice una mail arrivata giovedì mattina - e sono stati rimessi nei server», cioè il computer su cui era ospitato il sito. Il messaggio arriva ad Indymedia da Rackspace mercoledì 13 ottobre. Dunque, tutto risolto. Ma resta la domanda: da chi è dipeso questo sequestro? Collegandosi al sito di Indypendent media center è possibile visionare tutta una serie di documenti che fanno la sintesi di questi otto giorni.

Partiamo dalla fine. Indymedia scrive che il titolare del contratto con la Rackspace (un certo Jeff...) ha ricevuto mercoledì una mail da un indirizzo @yahoo.com non identificato. «Jeff, so che hai sofferto più di quello che io posso comprendere. Mi è appena stato detto che stiamo eseguendo un ordine della corte - si legge nella e-mail (disponibile su Indymedia)- e che i tuoi server a Londra saranno online oggi. Vi girerò ogni informazione che sarà disponibile e che mi sarà permesso di girarti». Firmato Jason Carter, consulente aziendale della Rackspace.

Nulla di più nulla di meno, i server tornano a casa, forse defraudati di alcune informazioni e dati, ma i volontari di indymedia avvertono i loro "mediattivisti": non è possibile risalire dai nostri server all’identificazione di coloro che ci scrivono o partecipano ai forum visto che, in rispetto delle leggi sulla privacy, non conserviamo i LOG (cioè l’origine da cui partono i messaggi) delle connessioni al sito.

Le ipotesi. Subito dopo il sequestro e il blocco di Indymedia, lo scorso 7 ottobre, tante furono le ipotesi messe in campo. La prima (ed anche unica) certezza è stata che il sequestro, materialmente, fosse stato eseguito dall’Fbi negli Usa e in Inghilterra, dove ha le sue sedi la Rackspace. Praticamente, sin da subito, però, l’Fbi, nella persona di un certo signor J.Parris, rifiutò di addossarsi la responsabilità totale del sequestro e nell’intervista ad un’agenzia di stampa sostenne che «l’Fbi aveva solo materialmente eseguito un’operazione su richiesta di paesi terzi e che questi paesi terzi erano l’Italia e la Svizzera».

A quel punto sia in Italia che in Svizzera è iniziata la caccia al responsabile. Tante le ipotesi nel mentre della ricostruzione dei fatti, molte delle quali scartate man mano che andava avanti la verifica. Come per esempio, il fatto che si potesse trattare di un provvedimento voluto dal ministero dell’Interno o da qualche ufficio del Dipartimento nazionale di sicurezza pubblica, entrambi «estranei -hanno dichiarato- alla vicenda».

Nella ricerca delle ipotesi la cosa più semplice sarebbe stata chiedere, sin dall’inizio, alla Rackspace quale motivazione era stata notificata al momento del sequestro. Semplice a dirsi ma non a farsi, visto che l’azienda da subito ha dichiarato di non poter dare alcuna informazione perché impossibilitata da un certo Mlat (Mutual legal assistment treaty), un accordo internazionale che anche l’Italia ha firmato nel 1992, che stabilisce delle procedure di collaborazione tra i vari paesi in caso di reati relativi al terrorismo, rapimenti e riciclaggio di denaro.

Altra strada possibile è apparsa, quindi, quella di un sequestro effettuato su richiesta di qualche procura che magari che indagava su vicende in cui era coinvolta anche Indymedia. Il nodo comincia a stringersi e dalla matassa escono le procure di Bologna e di Ginevra.

Il pm di Bologna Morena Plazzi è la prima ad essere raggiunta telefonicamente dall’Unità. «Io ho solo chiesto delle informazioni -ci dice- niente di più». Né conferma, né smentisce ma che ci sia un coinvolgimento di Bologna sembra chiaro.

Arriviamo a giovedì 14 ottobre. Dopo silenzi, depistagli, ipotesi vere e meno vere, l’ipotesi ginevrina (il procuratore svizzero Daniel Zappelli aveva fatto sapere di aver aperto un’inchiesta su alcuni fatti del G8 di Evian 2003) sembra sempre più secondaria. Quella bolognese, invece, prende corpo. Sembra che la pm Plazzi, nell’ambito di indagini sui pacchi bomba a Romano Prodi - rivendicati dalla "Federazione anarchica informale" - abbia fatto richiesta di informazioni che erano contenute nel server statunitense di Indymedia.

Perché il sequestro, dunque?. A questa domanda non c’è ancora una risposta. Potremmo provare a fare delle ipotesi e allora la più concreta sembra quella che attribuisce all’Fbi la responsabilità di aver “interpretato” la richiesta di informazioni della Procura bolognese. Anche perché, dopo 7 giorni, i server sono ritornati al proprietario. E questo perché l’ordine di convalida del sequestro non c’è stato.

Da Londra l’avvocato di Indymedia Italia, Gilberto Pagani, fa sapere di non essere a conoscenza di più di quanto detto. «E’ una vicenda molto strana -dice a l’Unità online- Aspettiamo di capire se ci saranno altre novità in questi giorni. Alla fine, il titolare del contratto con la Rackspace potrà liberamente decidere se intraprendere le vie legali per chiedere un risarcimento per questo sequestro. Ma adesso è ancora presto per dirlo, speriamo, invece, di capirci qualcosa di più».

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=38473