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IL CAMMINO NONVIOLENTO DELLE COMUNITÀ DI PACE COLOMBIANE

Publie le mercoledì 25 gennaio 2006 par Open-Publishing

Movimenti America Latina Vittorio Agnoletto

di Vittorio Agnoletto

Sono le 11 circa di lunedì 21 novembre, aeroporto di Malpensa, aspetto d’imbarcarmi sul volo per Bruxelles.

Squilla il cellulare, la voce triste è di Carla: «l’esercito ha attaccato il villaggio di Arenas giovedì 17, appena qualche giorno dopo la nostra partenza dalla Colombia. Hanno ucciso Arlen Rodrigo Salas David, il coordinatore della comunità. Credo che tu l’abbia conosciuto con padre Javier Giraldo, quando siete riusciti a raggiungere Arenas».

Carla Mariani è l’instancabile responsabile delle relazioni esterne del Comune di Narni, capofila della Rete italiana di solidarietà con le Comunità di Pace colombiane dal 2001: in collegamento continuo con la popolazione della comunità, diffonde le notizie che li riguardano in tempo reale.

Certo che avevo conosciuto Arlen...Me lo ricordo bene, eravamo arrivati ad Arenas dopo un giorno intero di viaggio nella selva, tra il fango, nel quale sprofondavano i cavalli, e gli alberi, ai cui piedi sono sepolti i resti dei contadini massacrati in questa carneficina colombiana che prosegue da anni.

Avevo incontrato Arlen mentre lavorava la terra nel suo campo, l’avevamo raggiunto fuori dal villaggio per sentire come stava e per scambiare qualche impressione sulla situazione della Comunità in quelle ore. Una contadina di Arenas ci aveva raccontato che qualche giorno prima l’esercito era arrivato al villaggio e aveva pesantemente minacciato Arlen Rodrigo. Era il coordinatore umanitario della Zona di Arenas, uno dei tre villaggi, con San Josè e Union, nei quali vive la Comunità di Pace.

Le minacce sono diventate realtà. Noi, a migliaia di chilometri di distanza, possiamo solo constatare la nostra rabbia e la nostra impotenza. Il coordinatore umanitario della zona di Arenas è stato ammazzato. Un attacco che ho interpretato anche come una rappresaglia per l’invito rivolto alla nostra missione europea a visitare la comunità. Sono state lanciate granate contro i contadini che stavano lavorando la terra, contro la scuola elementare mentre i bambini seguivano le lezioni.

Il motivo di quest’azione, così come delle altre numerose violenze subite dalla comunità, è l’essenza stessa, la ragione di vita di questa gente. La Comunità di Pace di San Josè de Apartadò è infatti composta da 1.300 persone che si impegnano ogni giorno, in ogni loro gesto quotidiano, a non partecipare direttamente o indirettamente alla guerra. Non hanno armi, in un contesto caratterizzato da un complesso conflitto che vede protagonisti i potenti narcotrafficanti, i militari e i gruppi paramilitari sostenuti dal governo e le formazioni della guerriglia, le Farc e l’Eln. Denunciano pubblicamente le violazioni commesse da parte di tutti gli attori armati. Hanno impostato la loro vita sul lavoro comunitario, basato sull’agricoltura e finalizzato all’auto sostentamento.

Tutto ciò non può che risultare scomodo agli attori armati della guerra civile colombiana. Per questo le violenze, per questo gli assassini dei loro rappresentanti.
Ora, senza Arlen, Brigida, una dei leader della Comunità, una donna tra i cinquanta e i sessant’anni piena di energia, capace di distribuire speranza e coraggio a chi la circonda, avrà ancora più da fare. Un altro lavoro l’attende. Brigida racconta, attraverso i suoi disegni su cartoni, la memoria storica della Comunità e le sue vicende più tragiche: un’altra pagina aspetta di essere dipinta. La voce di san Josè, Arenas e Union, continuerà a farsi sentire.

I massacri impuniti

Una delegazione della Comunità aveva partecipato proprio per questo, nel luglio 2004, al Forum Sociale delle Americhe di Quito, in Ecuador. Tragicamente profetiche le parole, riportate all’epoca da molti media, pronunciate al summit da Luis Eduardo Guerra, un leader della Comunità: «che senso hanno gli hotel di lusso, gli esperti delle ONG e tanti intellettuali, che senso ha tutto ciò, per noi che abbiamo così bisogno che ci aiutate a non morire».

Una testimonianza che esprimeva una forte coerenza ma anche una tremenda consapevolezza dei rischi e delle difficoltà insiti nella strada intrapresa. Pochi mesi dopo, il 21 febbraio dello scorso anno, reparti dell’esercito regolare colombiano massacrarono, nella località di Resbalosa de San Josè de Apartadò, Luis Eduardo Guerra insieme ad altri sette contadini. Inclusi sua moglie e quattro bambini di età compresa tra i 2 e i 17 anni.

Sono stati uccisi nelle loro case, nei loro campi, senza alcun motivo apparente.
Massacrati. Non uso questo termine a caso, lo faccio perché si abbia chiaro il quadro dell’efferatezza imperante, dell’inenarrabile violenza compiuta ai danni di questa povera, coraggiosa gente. I loro corpi sono stati fatti a pezzi con il machete e quindi abbandonati in una fossa nella selva. Gli abitanti di San Josè de Apartadò accorsi sul luogo della carneficina ricordano ancora tutto: i soldati lavarono via il sangue dai machete nell’acqua di un torrente, poi, alzando in aria le armi tornate luccicanti, minacciarono i sopravvissuti, promettendogli una fine analoga, nel loro prossimo futuro.

«Luis Eduardo Guerra era un importante leader della comunità, difensore dei diritti umani» annunciava in un comunicato del 28 febbraio l’Alto Commissario per i Diritti umani dell’ONU in Colombia, che, consapevole della propria impotenza ricordava «che la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha raccomandato al governo di garantire il rispetto dei diritti umani verso la Comunità di San Josè de Apartadò e che la Corte Costituzionale colombiana chiese protezione effettiva per questa popolazione, nel marzo del 2004. Queste disposizioni obbligano la Stato colombiano ad attivare misure speciali di sicurezza in favore della Comunità e dei suoi membri. Nel ripudiare questi gravi fatti, si sollecitano le autorità ad avviare un’ inchiesta veloce ed efficace, che permetta di chiarire quello che è successo, di giudicare e punire gli autori di questo crimine crudele».

Luis Eduardo, sostenitore attivo delle pratiche nonviolente, era il messaggero di pace della comunità nel mondo, era venuto recentemente anche in Italia ad incontrare la Rete di solidarietà.

Ad oltre otto mesi di distanza dal massacro, la nostra missione aveva l’obiettivo di attivare una pressione internazionale sugli organi di giustizia per ottenere risposte credibili su quanto accaduto.

Abbiamo incontrato le massime autorità della Defensoria Nacional del Pueblo (un’istituzione nazionale a grandi linee paragonabile ai nostri difensori d’ufficio, che dovrebbe tutelare le popolazioni povere), della Procuraduria General de la Nacion (i nostri pubblici ministeri) e della Fiscalia General (che dovrebbe individuare e perseguire i reati commessi dai dipendenti pubblici, compresi quelli compiuti dall’esercito e dalla polizia), oltre al responsabile del Programma presidenziale per i Diritti umani presso la Vicepresidenza della Repubblica.

Abbiamo chiesto notizie delle indagini e dei provvedimenti presi nei confronti dei responsabili degli omicidi: nulla. La risposta non è stata insoddisfacente, più semplicemente, non è stata una risposta. Abbiamo assistito solo a qualche vago tentativo, neanche tanto convinto, di negare le responsabilità dell’esercito. Discorsi generici sulla presunta impossibilità di condurre le indagini senza la collaborazione della Comunità di Pace stessa. Null’altro.

Se non la certezza, ormai esplicitata e palese, che i colpevoli non saranno individuati. Mai più.

La Corte Interamericana dei Diritti umani, dal canto suo, ad un mese dal massacro di Resbalosa ha nuovamente posto sul banco degli imputati lo stato colombiano e ha nuovamente chiesto protezione per la Comunità di San Josè. Le diplomazie internazionali hanno fatto sentire la propria voce in modo inversamente proporzionale all’ampiezza dei loro interessi economici: gli USA sono rimasti zitti, l’UE ha rilasciato qualche altisonante (ma piuttosto evanescente) dichiarazione di principio. Tutto è andato avanti tragicamente, esattamente come prima.

Ci sono i testimoni oculari. Sulle testimonianze di chi era sul luogo del delitto si basa ogni processo penale, in tutti i Paesi del mondo. I testimoni del massacro del 21 febbraio sono più di uno, ma nessuno si fida a rilasciare dichiarazioni contro l’esercito, almeno finché a raccogliere le testimonianze saranno i magistrati colombiani; ed è difficile dare loro torto. Infatti molti di coloro che hanno testimoniato in occasione di precedenti massacri oggi non possono più raccontarlo, non possono più testimoniare contro alcunché. Sono stati uccisi. Questa è stata la sorte di Hilda Ruiz e Gilha Graciano, testimoni del massacro avvenuto nel villaggio di Union l’8 luglio 2000 e di Miguel Osorio, testimone della strage di San Josè, nel febbraio dello stesso anno.

Ora le donne e gli uomini della Comunità di Pace ripongono le loro speranze in una commissione internazionale di avvocati che dia concretamente il via ad un’indagine su quanto è accaduto. Allora certo non si tireranno indietro, troveranno ancora una volta il coraggio di parlare, di testimoniare. C’è già la disponibilità di alcune associazioni di giuristi spagnoli a recarsi direttamente sul luogo per raccogliere le testimonianze. Speriamo di poter avere un’eguale disponibilità da parte di avvocati ed esperti di diritto italiani e francesi.

Terrore di stato

Solo per rendere meglio il clima di impunità nel quale si svolgono tutti questi episodi, cito l’incontro che abbiamo avuto nel corso della nostra visita con il generale Zapata che, a dispetto del nome che porta, è il responsabile del XVII battaglione operante nella zona Carepa Apartadò, dove è situata la Comunità di Pace. Il militare ricopre questo ruolo da una data successiva al massacro del 21 febbraio 2005, ma, come purtroppo documentano i tragici eventi accaduti in seguito, ha continuato il suo «lavoro» senza alcun problema, nel solco tracciato dal suo predecessore, in una continuità di violenze assolutamente coerente col passato più recente.

Il generale, come i responsabili regionali della polizia e i colonnelli con i quali abbiamo avuto un lungo colloquio in un altro incontro, negano ogni responsabilità degli uomini alle loro dipendenze in tutti gli assassini verificatisi in questi ultimi anni, così come ogni connivenza coi gruppi paramilitari.

Ma la stretta collaborazione tra l’esercito, la polizia e i gruppi paramilitari è più che evidente. Io stesso ho incrociato, sulla strada che conduce a San Josè, rappresentanti dell’esercito in compagnia di capi paramilitari che i contadini della Comunità di Pace mi hanno indicato come diretti responsabili di alcuni degli omicidi avvenuti in questi anni. Siamo quindi ben oltre uno stato che garantisce l’impunità a chi uccide degli innocenti.

Per le autorità militari, ma anche per il governo, in Colombia ufficialmente non siamo di fronte ad una guerra civile, come invece sostiene l’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU, ma ad una lotta dello stato contro gruppi di terroristi armati. Di conseguenza chi si rifiuta di prendere parte al conflitto e non accetta alcuna persona armata sul proprio territorio viene considerato un alleato del terrorismo e per tanto un nemico: è il caso, paradossale, delle Comunità di Pace.

Ma i numeri delle violenze subite dalla popolazione, che ha scelto la difficile strada della nonviolenza, non lasciano dubbi: parlano non di alleati dei terroristi, bensì di vittime dei gruppi armati.

Dal 1997 al 17 novembre 2005 nella Comunità sono state assassinate 165 persone, 20 uccise dalla guerriglia e 145 morti per mano dell’esercito e dei gruppi paramilitari. Gli episodi di violazione dei diritti umani sono stati circa 500, molti dei quali in forte contrasto con i trattati internazionali che, formalmente, sono stati sottoscritti anche dal governo colombiano. Invece dal 2002, la strategia paramilitare e militare ha ripreso slancio, dopo una breve tregua, con bombardamenti indiscriminati, episodi del così detto «fuoco incrociato» e i già citati massacri contro la popolazione civile e la sua organizzazione comunitaria.

La violenza nei confronti di questa gente è diventata poi una vera persecuzione. Parlo di depistaggi nei processi realizzati attraverso l’uso indiscriminato di false testimonianze, furto del denaro ricavato dalla vendita dei prodotti agricoli, incendi di abitazioni, stupri, picchetti paramilitari permanenti nella via che collega San Josè con il Municipio di Apartadò, sfollamenti forzati, blocchi economici, minacce e invasioni della proprietà privata.

L’esito finale della sommatoria di tanti soprusi è stato un nuovo sfollamento forzato di massa.

La Comunità di Pace di San José, nonostante tutto, non si è arresa. Sono stati costruiti spazi per proteggere la popolazione civile e tutelare il territorio: le «Zone Umanitarie». Luoghi che purtroppo, come conferma la mia esperienza diretta in Colombia, continuano ad essere violati da parte delle truppe armate e dei paramilitari.

Ma mentre le autorità locali e nazionali continuano a negare di fatto i diritti delle Comunità di Pace, l’ufficio dell’ONU considera al contrario legittima la scelta di una comunità di rifiutarsi di partecipare alla guerra civile e di rivendicare la propria estraneità al conflitto e la propria scelta nonviolenta.

Il ruolo del «resto del mondo»

Il giudizio espresso dall’Alto Commissariato ONU deriva da un’ analisi realistica della situazione che oggi vede, dopo un conflitto che dura da oltre quarant’anni, una parte del Paese direttamente controllata dalle Farc e dall’Eln, i due maggiori gruppi della guerriglia. Si stima che il primo disponga di circa 20mila persone armate, il secondo di 5mila. La forza di queste due organizzazioni ha ripreso ad aumentare dopo il fallimento del tentativo di trasformare l?opposizione armata in opposizione legale e parlamentare. Tale tentativo fallì a metà degli anni Ottanta, quando la stragrande maggioranza dei rappresentanti dell’Unione Patriottica, eletti nelle amministrazioni locali e parlamentari, furono assassinati dai gruppi paramilitari e dall’esercito. Il fallimento di quel tentativo di percorrere una strada istituzionale spinse molti militanti dell’Unione Patriottica ad aderire alle formazioni guerrigliere, nonostante le molteplici e dure critiche delle quali erano oggetto per le discutibili pratiche usate, non raramente in contrasto con gli obiettivi sociali e politici pubblicamente dichiarati dagli stessi gruppi.

La situazione d’insicurezza e le ripetute minacce di cui sono vittime i leader dell’opposizione politica, oltre che il tragico primato che la Colombia detiene con il maggior numero di sindacalisti assassinati, rende anche oggi molto difficile la possibilità di organizzare un’opposizione politica che possa misurarsi sul piano elettorale senza rischiare la vita.

Proprio recentemente il governo Uribe ha emanato la Legge di Giustizia e Pace, con l’obiettivo ufficiale di facilitare il ritorno alla vita civile dei comandanti e dei miliziani dei gruppi paramilitari.

Si tratta di un’amnistia totale per i paramilitari e i narcotrafficanti. Basterà consegnare un’arma e dichiarare di aver fatto parte di queste formazioni per poter riacquistare ogni diritto, inclusa la possibilità di candidarsi alle elezioni politiche. Non sarà necessario né ammettere i delitti commessi, né restituire i terreni e le ricchezze acquisite con la violenza, né consegnare l’insieme degli armamenti di cui dispone ogni formazione paramilitare. Alla magistratura l’onere di documentare tutto ciò in sessanta giorni, trascorsi i quali, in assenza di prove inconfutabili, è garantita l’assoluta impunità.

La legge ha servito su un piatto d’argento anche ai narcotrafficanti la possibilità di dichiararsi dirigenti di gruppi paramilitari, per rifarsi una «verginità», con poco sforzo e mantenendo intatti i propri affari.

L’opposizione politica, la Chiesa, i sindacati e l’Alto Commissariato dell’ONU per i Diritti Umani si sono opposti decisamente a quest’ennesima truffa chiedendo un intervento politico di condanna a livello internazionale. Ma nessuna voce autorevole si è alzata contro la modifica della Costituzione, voluta da Uribe per potersi nuovamente candidare alla presidenza della repubblica, né contro un governo che si mostra totalmente incapace e non desideroso di reprimere i gruppi paramilitari e di punire i responsabili delle stragi di civili commesse dall’esercito. Anche in questo caso, gli Stati Uniti, i maggiori sostenitori di Uribe, hanno fatto orecchie da mercante.
In questo contesto, pur se apprezzabile, la disponibilità offerta da alcune nazioni europee, tra cui la Svizzera e la Francia, di porsi come garanti per una ripresa dei colloqui tra le Farc e il governo, appare come un’iniziativa debole e dettata più dall’obiettivo di ottenere la liberazione di alcuni prigionieri, tra cui Ingrid Betancourt, (ex candidata verde alle elezioni presidenziali colombiane, in possesso della cittadinanza francese, sequestrata dal 23 febbraio 2002), detenuti dalle Farc, che come un vero e proprio tentativo sostenuto dalla volontà di ricercare realmente una via d’uscita dalla situazione attuale.

L’Unione Europea mantiene una posizione fortemente ambigua: il Consiglio europeo, ossia il coordinamento dei governi, in un documento del 3 ottobre 2005 da un lato ha dichiarato di ritenere la Legge di Giustizia e Pace un passo avanti, dall’altro ne ha indicato i limiti chiedendo una sua modifica, che ovviamente non è stata realizzata.
La posizione dell’UE è particolarmente importante per il forte sostegno economico che viene accordato alla Colombia. Molte sono state le proteste internazionali per il contenuto del documento del Consiglio, anche perché vi è più di un generico sospetto che parte dei soldi che l?UE fornisce al Paese latinoamericano per realizzare un fantomatico piano di riconciliazione nazionale finiscano nelle mani dei gruppi paramilitari. Inoltre, il 15 per cento, ovvero 24 milioni di euro, del contributo che l’UE ha destinato alla Colombia per il 2005, dovrebbe andare a favore dei progetti per le comunità indigene e per gli sfollati. Ma sull’effettivo uso di queste risorse non vi è alcuna certezza.

A questo proposito ho presentato un’interrogazione al Consiglio europeo, come eurodeputato della Sinistra Unitaria Europea, su sollecitazione dei movimenti colombiani. Nella risposta fornitami in aula a Strasburgo l’UE si è impegnata a analizzare nuovamente entro pochi mesi la situazione colombiana prima di rinnovare il sostegno economico attualmente fornito.

A febbraio del 2006, poi, si voterà nella sessione plenaria del Parlamento europeo la risoluzione concernente la «Clausola dei diritti dell’uomo e della democrazia negli accordi dell’Unione europea» sulla quale ho lavorato come relatore, insieme ad associazioni, ONG, organizzazioni della società civile impegnate sul fronte dei diritti umani, civili e sociali. Si tratta di una clausola inserita in ogni accordo stipulato dall’UE con i Paesi terzi, che vincola al rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali. Il controllo passa non solo attraverso il monitoraggio della situazione dei diritti, ma anche per meccanismi sanzionatori nel caso di violazioni della suddetta clausola. Mi auguro che anche questo possa rappresentare un mezzo efficace di tutela dei diritti umani, attraverso il quale l’Unione Europea possa cercare di impedire altri soprusi ai danni delle Comunità di Pace colombiane