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IL TEMPO E’ SCADUTO

Publie le mercoledì 27 aprile 2005 par Open-Publishing

Il tempo
è scaduto

di MASSIMO GIANNINI

Dalla Casa delle Libertà alla "casa comune del centrodestra". Se non fosse solo un logorato e disperato "bis", tenuto insieme dai ricatti incrociati e non dai patti condivisi, il nuovo governo Berlusconi nascerebbe con questa grande ambizione. Non più il partito personale del Cavaliere. Ma il partito unico dei moderati. Non più l’asse Forza Italia-Lega e il semiasse An-Udc. Ma una specie di nuova, moderna Democrazia cristiana. Che assorbe tutte le contraddizioni, metabolizza tutti i conflitti. E li trasforma in cultura di governo. In senso dello Stato. Purtroppo per il premier (e bisogna dirlo, anche per il Paese) il suo rilancio avviene fuori tempo massimo.

Un progetto politico impegnativo come quello che lui stesso ha ipotizzato ieri, nel chiedere la fiducia a Montecitorio, avrebbe avuto senso quattro anni fa, dopo la vittoria del 2001. Quando gli elettori gli affidarono le "chiavi" del Parlamento, attraverso una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana: 153 seggi complessivi tra Camera e Senato. Quando un’Italia sempre più abituata alla competizione bipolare e al ricambio elettorale avrebbe avuto un enorme bisogno di un centrodestra "normale". Di un centrodestra europeo. Innovatore, ma responsabile. Riformatore, ma anche rassicurante. Liberale, persino liberista, ma pur sempre inclusivo e solidale.

Allora Berlusconi scelse un’altra strada. Una gestione privatistica della cosa pubblica. Una visione proprietaria dell’alleanza politica. E sottomessi a questa anomalo "dna" del leader, carismatico, autocratico e populista, i suoi alleati si acconciarono a restare cartello elettorale. Incapaci di trasformare in azione politica quella domanda di innovazione e di rappresentanza che gli era stata rivolta da quasi 19 milioni di cittadini.

Oggi questi stessi cittadini hanno cominciato a voltare le spalle alla Cdl. Due milioni almeno, passati all’opposizione alle ultime regionali. Come dice l’ultima indagine del Censis, molti "elettori delle regioni meridionali, le donne e i più giovani", "quote consistenti di segmenti forti di ceti medi impauriti e disillusi", cristallizzati nel "giudizio sull’inefficacia del taglio delle tasse come veicolo di nuovo benessere", animati da "voglia di sicurezza e di copertura pubblica piuttosto che dal richiamo a nuove rincorse all’arricchimento senza rete". Oggi che la dissipazione di questo capitale politico-elettorale si è ormai compiuta, a causa della sèmina velleitaria e propagandistica del leader e della rinuncia identitaria e utilitaristica dei suoi partner, recuperare il tempo perduto e il progetto smarrito diventa solo un altro modo per illudere se stessi e ingannare il Paese.

Se proprio si volesse adottare una formula altisonante per quello che è destinato a restare un "piano minimo di sopravvivenza", il "programma di fine legislatura" presentato ieri da Berlusconi non sarebbe nemmeno tutto da buttare.

Sull’economia, campo di battaglia dei prossimi dodici mesi, il Cavaliere è stato ambiguo, ma non ha forzato più di tanto con la ben nota grancassa delle premesse inverificabili e delle promesse irrealizzabili. Ha indicato i fronti già noti sui quali il nuovo governo intende operare (famiglie, imprese, Mezzogiorno). Anche se non ha spiegato dove e come troverà le risorse, sempre che la copertura non venga fuori solo da un ulteriore, imprecisato giro di vite nei trasferimenti a danno degli enti locali (tanto, ormai, in 12 regioni su 14 comandano i "governatori" del centrosinistra).

Fuori dall’aula non ha rinunciato a ripetere che la sua folle idea di ridurre l’Irpef di un’altra manciata di spiccioli (come è già disastrosamente accaduto a gennaio) "non è ancora tramontata". Anche se non ha chiarito come farà, sempre che il giuramento sull’Italia che "intende rispettare i vincoli del Patto di stabilità riformato" non voglia dire che saremo liberi di sfondare il tetto del deficit come, di quanto e per quanto ci pare (tanto, ormai, nell’Europa dei 15 comandano solo i governi nazionali).

Ha profilato un’amministrazione della spesa da tipico ciclo elettorale, impegnandosi con le imprese all’abolizione dell’Irap e allo sblocco dei fondi per il Sud e con i lavoratori dipendenti ai rinnovi contrattuali del pubblico impiego e dei medici. Ma ha cercato almeno una copertura con il ministro dell’Economia Siniscalco, tracciando un quadro comunque sufficientemente critico della finanza pubblica.

Ancora una volta, però, questo elenco delle "priorità" viene aggiornato a tempo ormai scaduto. Un’agenda economica del genere avrebbe avuto senso all’inizio della legislatura, quando invece il Cavaliere gli preferì un suo personale bollettino di guerra alle procure.

Mentre il Paese declinava, un dissennato stillicidio di leggi su misura (imposta sulle donazioni, falso in bilancio, rogatorie, Cirami, Cirielli, salva-Previti, riforme dell’ordinamento giudiziario) ha sfibrato il Parlamento, umiliato la maggioranza e infiammato l’opposizione. Adesso non c’è più una sola ragione per considerare credibile un ravvedimento.

Ognuno, dentro il Polo, lavora a uno scenario che non coincide più con quello del premier, e forse non contempla neanche più la sua indiscussa "potestà". C’è Marco Follini, che è fuori dal governo con le mani finalmente libere: oggi nella sua replica alla Camera piazzerà i tre rigidissimi "paletti" dell’Udc, che trasformeranno il cammino del nuovo governo verso il voto del 2006 nel sentiero stretto di una quotidiana giungla parlamentare. C’è Gianfranco Fini, che è prigioniero del governo con le mani incatenate al suo "sdoganatore": al di là del contentino per Storace alla Sanità, non è riuscito neanche stavolta a bilanciare il "fronte del Nord" presidiato da Bossi, che ormai ha fatto esplodere An come un’instabile polveriera di correnti in lotta tra di loro. C’è Giulio Tremonti, che è rientrato nel governo con le mani esperte dell’illusionista: sa come tenere in ostaggio il Cavaliere, magari per ereditarne la successione, e sa come destabilizzare gli altri leader, anche a costo di rubargli la scena a colpi di gaffe, come è avvenuto con la surreale trovata sulla vendita delle spiagge pubblicamente irrisa persino da un ministro pacato come Pisanu.

E poi c’è lui, il Cavaliere. Ha già fallito la sfida titanica che lanciò nel 2001. Ha già tradito platealmente il "contratto con gli italiani" che firmò in tv da Bruno Vespa. Non lo grida l’Unione. Non lo dice un "pericoloso bolscevico". Lo scrive Luca Ricolfi, un ricercatore serio e indipendente dell’Università di Torino, nonché direttore dell’Osservatorio del Nord Ovest, nel suo ultimo libro "Dossier Italia", appena uscito dal Mulino. Con uno studio quantitativo percentuale, Ricolfi calcola che delle cinque "clausole" indicate in quel "contratto", "il governo ha mantenuto solo la promessa numero 3 (le pensioni)", mentre "non ha alcuna possibilità di mantenere la promessa 1 (la riforma delle aliquote)", e "ha poche possibilità di mantenere la promessa 2 (riduzione dei reati)". La promessa 5 (apertura dei cantieri) sarebbe ancora realizzabile solo con un ulteriore trucco sull’inizio effettivo dei lavori. La promessa 4 (nuova occupazione) è infine "impensabile", perché "impensabile è che in un anno e mezzo il tasso di disoccupazione possa dimezzarsi".

Perché un presidente del Consiglio che ha disonorato così clamorosamente i suoi impegni in quattro anni, dovrebbe ora riuscire ad adempierli in tredici mesi?
Berlusconi è un combattente. Non si arrende. Con la compagnia del solo Senatur spera di arrivare lo stesso, ancora una volta vincitore, al traguardo delle elezioni politiche del prossimo anno. Ma in queste condizioni, con una coalizione così divisa e livorosa, gli sarà difficile andare lontano. Per questo anche un’idea in teoria strategicamente valida, costruire insieme la "casa comune dei moderati" di domani, diventa in pratica un banale espediente tattico. Serve solo a nascondere le macerie della Casa delle Libertà di oggi.

(27 aprile 2005) da "Repubblica on line"