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IL TERRORE FINANZIARIO E LA "FINE DEL MERCATO"

Publie le giovedì 18 settembre 2008 par Open-Publishing

IL TERRORE FINANZIARIO E LA "FINE DEL MERCATO"

di MARCO SFERINI

Che cos’è di preciso questo precipitare delle grandi banche internazionali? Questo effetto domino che coglie anche le assicurazioni come la AIG, una delle pù importanti società statunitensi che detengono i soldi di milioni di pensionati e che, oggi, rischiano di trovarsi davanti ad un pericoloso bivio: dichiarare fallimento o, come l’Araba fenice, rinascere dalle proprie ceneri speculative?

Alcuni analisti economici gridano al disastro globale, alla ricaduta progressiva della discesa verticale delle borse un poco in tutti i continenti, in quelli che almeno sono ancora i grandi centri di scambio finanziario. Altri consigliano la cautela e ci dicono che il capitale attraversa una crisi certamente spaventosa, che coinvolge dei veri e propri titani del profitto, ma alla fine riesce a controllare i propri eccessi, le dilatazioni negative dei numeri e a rientrare così di una anarchia finanziaria che, a memora d’uomo, ha come unico paragone la crisi famosa del 1929.

Forse l’analisi più giusta riunisce due latitudini non estreme di queste ipotesi: è vero che il fallimento, ad esempio, di Lehman Brothers ha creato una vibrazione sussultoria in tutti gli Stati Uniti e nel Vecchio continente rovesciando il suo dinamico tracollo prima di tutto sui dipendenti che si trovano senza lavoro nel giro di tempo di una transazione di capitali da Ginevra a New York. Ma è anche vero che anche un debito enorme può diventare una ricchezza se c’è comuque ancora una possibilità di sfruttarne le ultime residualtà, le briciole di un impero. Siccome l’economia è un sistema di rapporti regolati da matematici princìpi, sarebbe curioso conoscere quale sarà il nome di chi sarà così "nobile" cavaliere di ventura da investire dei capitali tanto ingenti, così ricchi di zeri, senza avere alcuna garanzia in contropartita.

Detto in poche e povere parole: chi sarebbe mai così matto da estinguere un debito sapendo che dietro a quel debito c’è il deserto assoluto, c’è anzi il rischio niente affatto celato di trovarsi tra le mani per l’appunto un misero pugno di sabbia? Forse lo Stato, dicono alcuni. L’economia pubblica è già venuta altre volte in aiuto di questo capitalismo, moderno o antico che sia, e ha gestito quello che il mercato non era più in grado di gestire: la concorrenza, il valore della produzione legato al valore dei produttori, ossia dei lavoratori.

Eh sì, perchè ci si dimentica quasi sempre di coloro che creano la ricchezza del capitalista e ne fanno un uomo potente, salvo gettarli in un angolo, nella disperazione più completa, e farne le vittime sacrificali del "rischio di impresa" se le cose vanno male, se gli indici borsistici piombano al suolo, se la produzione rallenta, se la domanda stagna e, di conseguenza, si fa avanti lo spettro della ristrutturazione aziendale.
Come si può vedere il capitalismo ha molte facce: la crisi di oggi ci parla di rischio per migliaia e migliaia di posti di lavoro, per dei produttori che però non sono quelli dell’immaginario collettivo del secolo scorso.

Non sono le tute blù degli operai, ma degli impiegati, dei dipendenti tutti casa e ufficio che però, a dispetto delle divisioni draconiane e semplicistiche dei liberisti e dei finti liberali anche di casa nostra, sono declassati - anche come immagine - al ruolo di lavoratori, di "forza-lavoro" marxianamente intesa. Insomma, il moderno proletariato vive anche negli ambienti della finanza. Magari ieri guadagnava migliaia di euro al mese e il suo destino era completamente diverso da quello di un metalmeccanico della Fiat, ma oggi la brutalità delle speculazioni e la montagna di debiti accumulati dalle agenzie di risparmio per cui lavoravano li hanno precipitati in una condizione che è probabilmente peggiore di quella dello stereotipo del salariato. In questo senso, ancora una volta, le vittime prime del mercato sono e continuano ad essere i lavoratori. Parallelamente, però, sono vittime anche tutti quei risparmiatori che non hanno e non avranno più alcuna garanzia di vedersi restituire i loro averi se non interverrà qualche ricco magnate a garantire i capitali di scorta o se non metterà mano alla disfatta economica il tesoro dello Stato.

Se oggi la finanza internazionale vive, come titolato da molti quotidiani, proprio in un cieco "terrore" è perchè teme di non riuscire a mettere un freno a quell’ "effetto domino" che citavamo in inizio di articolo: le banche tagliano corto. Loro non hanno alcuna intenzione di rifondere i debiti dei loro potenti clienti. La Lehman & Brothers ha "bruciato" ben 613 miliardi di dollari in debiti e 729 miliardi di dollari in derivati. Queste cifre, che pure sulla carta rappresentano delle consistenze pecuniarie che prima esistevano, oggi sono il demone che agita le menti dei risparmiatori, dei lavoratori e che mette finalmente paura agli speculatori facendo dire agli esperti di borsa che sarebbe addirittura incalcolabile il buco nero degli investimenti in titoli illiquidi.

Per rendere ancora più precisa geografia finanziaria di questo colossale sisma economico, basti pensare che la Lehman & Brothers era la quarta banca americana per potenza finanziaria.

Però occorre fare attenzione: è francamente poco credibile che il capitalismo non corra ai ripari e non riesca a controllare questa crisi. Qualora non riuscisse a sostenerla sarebbe davvero difficile pensare ad una soluzione di superamento dell’economia di mercato, a meno di non fare affidamento all’improvvisazione o al lasciarsi trasportare dagli eventi. Come comunisti dovremmo essere lieti di veder soffrire gli indici dei mercati finanziari, di vedere il corto respiro dei profitti. Dovremmo però altrettanto essere pronti a prendere in mano le sorti progressive di un tale disastro e a gestirne una transizione verso quella società dove, in un primo momento, all’economia privata e del profitto si sostituisca la proprietà pubblica e sociale dei mezzi di produzione.

La disperazione può svegliare enormi platee di coscienze, ma all’Italia, come agli altri popoli e paesi del mondo, serve una direzione politica e sociale per approfittare di questi tracolli del capitale e favorire una presa d’atto sempre più vasta sulla debolezza del gigante d’argilla capitalistico, sui suoi vorticosi sbandamenti ma anche sui suoi lunghi periodi di stabilità garantiti dalle guerre, dai patti economici continentali, dal confronto-scontro tra vaste aree del pianeta, tra diversi poli di attrazione dei mercati.

Chi ha visto nella attuale periodo di "terrore finanziario" la quasi fine del capitalismo ha visto solo in prospettiva quello che un giorno potrebbe accadere. Chi invece ha pensato e pensa che il capitale riesca a sollevarsi da qualunque crisi finanziaria o economica in generale, fa un altro grave errore di valutazione. Il sistema delle merci non è incontrovertibile, non è insuperabile. Semplicemente è così radicato e globalizzato da reggere anche a pensatissimi urti di connotazione sociale-socialista.

La fine non è vicina. Ma non è neppure così tanto lontanta come potremmo essere portati a ritenere. Per intanto, costruiamo quel "partito comunista" che ci è necessario per essere, chissà, un giorno forse pronti - noi o chi verrà dopo di noi - al superamento dell’economia.