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Identità, valori della militanza comunista

Publie le lunedì 9 giugno 2008 par Open-Publishing

Identità, valori della militanza comunista

di Davide Pappalardo *

su redazione del 09/06/2008

L’identità è la qualificazione di una persona, di un luogo, di una cosa, per cui si è tali e non altro. Elemento di coerenza. Per questo noi siamo per una identità del Prc e siamo contro chi vuole annullarla in una forza indistinta, basata sulla personalizzazione, sul politichese, sulle presenza mediatica, uguale alle altre. Una forza indistinta che può anche essere una forma di identità ma astratta, vaga, confusa.

Ed è stato proprio il voler far diventare il Partito una forza indistinta che ha prodotto il degrado ampiamente denunciato in occasione della Conferenza di Organizzazione di Carrara. Perché una forza indistinta, senza vera identità, è priva di principi e senza regole. E una forza indistinta è anche senza simboli, o con simboli senza legami nella realtà (l’arcobaleno).
Il simbolo identifica, rende palese l’identità.

E Falce e martello - due arnesi che qualcuno vorrebbe mettere in soffitta, tra i ricordi di famiglia, due oggetti che solo a ricordarli evocano con grande potenza narrativa la fatica delle lavoratrici e dei lavoratori – rappresentano il lavoro. Pure adesso che ci sono nuovi strumenti, si pensi al computer, rappresentano il popolo e il lavoro, anche quello di oggi, dei precari, delle fabbriche in cui si muore e di quelle dismesse, delle speranze mai sopite, delle lotte e delle conquiste. Hanno identificato e identificano gli oppressi, le loro battaglie e le loro attese.

Guardandoli, parlandone, si percepisce quasi il frastuono delle fabbriche, delle officine, il lavoro nei campi.

Quanti – al di là di ogni retorica – si sono immolati per le idee che questo simbolo ha rappresentato e rappresenta. E queste scelte, questa mancata connessione col nostro popolo, hanno prodotto il bel risultato di allontanare forze dalla militanza. Riducendo il Prc ad un Partito di plastica, un Partito americano. E benvenuti in America l’abbiamo di fatto gridato con un certo tipo di campagna elettorale (quanta distanza da chi volevamo rappresentare…). Con la scelta dell’Hard rock cafè di via Veneto come sede elettorale, o prima ancora col Caffè Fandango per presentare la candidatura del compagno Bertinotti.

Ricordate inoltre nei mesi scorsi Liberazione quanto e con quali energie ha cercato di farci diventare un Partito americano? Lo ha fatto anche rilevando una grande novità nei due candidati di maggior spicco del Partito democratico statunitense, Hillary Clinton e Barak Obama. Candidature importanti forse sul piano simbolico (una donna e un nero che concorrono per la carica di presidente degli Stati Uniti) ma prive di una qualità ed un agire di rottura. Anzi, compatibili con quel sistema di potere e di dominio che tanti danni ha causato nel mondo e fautrici del modello sociale Usa che noi combattiamo. Figure che rappresentano le major, le multinazionali. Non possono certo diventare i nostri riferimenti politici, come qualcuno vorrebbe.

Alla domanda quindi se dobbiamo essere una forza “indistinta” o un Partito altro, con una identità (i valori, le idee, la moralità) e che non è certo il fortilizio identitario, la caricatura che viene fatta strumentalmente da alcuni, dobbiamo rispondere che per noi identità comunista oggi deve voler dire innestarsi nella storia politica, in quella storia che ha contribuito all’avanzamento, al progresso del Paese e che ha radici profonde nella Costituzione, innovandola e continuando a contrastare lo sfruttamento che si perpetua nella società.

Significa costruire un nuovo senso comune in una società – e le elezioni del 13 e 14 aprile ne sono uno specchio – fondata sulla paura e sull’egoismo sociale, sulla rapina delle risorse a vantaggio dei soliti noti. Significa costruire gli anticorpi per arginare questa marea nera montante che non risparmia nessuno.

Significa lottare per il progresso civile e culturale, la difesa della Costituzione, contro l’imbarbarimento della società. Ritorna, sempre più attuale, l’espressione Socialismo o barbarie. Vuol dire lottare ancora oggi contro le contraddizioni del dominio del capitale, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Rimettendo al centro del nostro agire la contraddizione capitale/lavoro, senza dimenticare altre fratture nelle quali inserirsi.

Significa opporsi al dominio di pochi su masse sterminate, rimuovendo le cause della miseria, materiali e culturali, le disuguaglianze, la povertà.
Lottare contro egoismo sociale, società dei consumi - specchietto per le allodole e fucina di infelicità -, contro l’individualismo (l’uomo è lupo fra gli uomini), la solitudine dei non luoghi, i rapporti sempre più virtuali.
Salvarsi dalla fabbrica della paura, dagli approcci mass-mediatici (che hanno creato una falsa coscienza, rendendoci tutti più ottusi), fondati sull’apparenza. Opporsi alla disgregazione delle comunità e alla desolazione del luccichio dei centri commerciali (altro specchietto per le allodole). Battersi contro il fascismo strisciante, il neocesarismo ed il populismo, a cui abbiamo purtroppo contrapposto analisi di natura esclusivamente istituzionalista o politicista.

Essere comunisti oggi vuol dire spendersi per eliminare queste contraddizioni e costruire un nuovo modello di società.

Il comunismo è abolire lo stato di cose presenti.

E’ una rivoluzione che va compiuta anche nei nostri comportamenti, nel nostro agire, fuori e dentro della nostra comunità politica. Il richiamo alla sobrietà dei costumi, purtroppo è oggi d’obbligo. Un comunista deve essere un esempio per tutti. Esempio di onestà, di moralità, di coerenza, di impegno, di trasparenza, nei riferimenti culturali. Non può sganciarsi dal modo di vivere dalle classi che intende rappresentare.

Durante la formidabile esperienza della Comune, a Parigi nel 1871, tanto per fare un esempio, gli stipendi di funzionari e membri potevano al massimo raggiungere quelli medi di un operaio salariato.

Pure su questo punto, oggi, si è andati ben oltre. Anche con campagne elettorali fondate sull’immagine, sulla pubblicità, sullo spreco di risorse che avrebbero potuto servire invece a radicare il partito sul territorio e nei luoghi di lavoro. In cosa siamo stati diversi dagli altri?

Lo abbiamo visto a Torino – all’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici – lo sapevamo già, che c’è un divario tra il Partito e il mondo del lavoro. La solitudine degli operai, il deficit di rappresentanza, la scarsa aderenza tra classe e Partito, sono temi che si sono ripetuti negli interventi. E abbiamo illuso questo popolo anche attraverso il linguaggio e gli slogan – ce lo ha ricordato un operaio della Fiat di Melfi – come in occasione della prima finanziaria del governo Prodi con la diffusione dei manifesti contenenti lo slogan “Anche i ricchi piangano”, quando invece nella realtà sono stati ancora una volta i lavoratori a continuare a versare lacrime.

Colmare il divario che si è creato non è compito facile né realizzabile in poco tempo. E’ però un imperativo categorico al quale non possiamo sottrarci, pena il venir meno della nostra ragione di esistere. E oltre che con l’azione concreta, con l’organizzazione della nostra presenza nei luoghi di lavoro, per rimetterci in connessione col nostro popolo bisogna pensare anche a prevedere un’adeguata presenza delle lavoratrici e dei lavoratori in produzione negli organismi dirigenti del Partito al Congresso.

Un comunista si pone al servizio della classe, e non la guarda dall’alto verso il basso, con ricette precofenzionate, col linguaggio dell’immaginifico, ma cerca, scavando come una vecchia talpa, di far avanzare la società, le lavoratrici, i lavoratori.

Libertà, eguaglianza, solidarietà, sono valori che andrebbero declinati ogni giorno, che fanno parte del Dna del comunista e che andrebbero riaffermati in ogni situazione. Così come democrazia e partecipazione devono assumere il valore e il significato reale dei termini. Le parole sono pietre. Democrazia e partecipazione non possono essere oggetto di culto – a parole - e poi essere disattese con pratiche imposte. Vanno applicate nel concreto (le riunioni degli iscritti e dei gruppi dirigenti, all’interno dell’agire nella società, le scelte politiche), a partire dai territori, e non devono diventare una bandierina da sventolare, per mascherare operazioni di vertice.

Dobbiamo ricordare quante volte è stato calpestato il valore e il lavoro dei militanti con scelte imposte dall’alto senza la benché minima discussione? Quei militanti, lo ricordo per chi è a corto di memoria, sono il cuore pulsante del Partito – e non il ventre molle –sono quelli che devono confrontarsi con gli elettori, distribuire volantini, discutere nei luoghi di lavoro, in famiglia, nelle scuole, sui mezzi pubblici, per difendere l’operato di Rifondazione comunista, per difendere l’esistenza stessa e le ragioni del nostro agire. Quei militanti spesso aggrediti dai fascisti, che devono vedersela anche con le varie mafie e mafiette che sponsorizzano rilevanti pezzi di notabilato politico nel Paese.

Abbiamo bisogno di partecipazione, di una partecipazione che tragga la sua forza dai territori, e non di personalismi, non di candidature.

Anche su questo purtroppo i richiami del documento approvato durante la Conferenza di organizzazione di Carrara – il Partito che si fa società – sono stati disattesi.

Ora salviamo Rifondazione comunista e facciamone un Partito che rifiuti i personalismi, il leaderismo, che tanti danni e fallimenti hanno prodotto. Facciamone un Partito che fondi invece la sua azione quotidiana sull’analisi di classe in una prospettiva di superamento del modello attuale, sul valore della militanza, sull’elaborazione collettiva. Al lavoro e alla lotta, compagni!

Non di santoni abbiamo bisogno, non di personalità carismatiche e personalismi (i danni prodotti sono evidenti), non di messia pronti a salvarci, ma di passione e partecipazione reale, di lavoro e dedizione, del potere degli iscritti di discutere, decidere e scegliere. Fare politica per costruire l’intellettuale collettivo.

* Circolo PRC Acireale (CT)