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Il Golan si sente siriano, ma vuole la pace

Publie le giovedì 10 agosto 2006 par Open-Publishing

Reportage dalle terre annesse da Israele nel 1981, dove gli arabi sono cittadini di seconda classe e i pendolari israeliani chiedono la cessazione immediata delle ostilità.

di Francesca Marretta Majdal e-Shams, Golan nostro servizio.

«Questa è Siria. Il Golan non è la terra promessa di Israele». Seduto sul divanetto del negozio di stufe che ha aperto al raggiungimento dell’età della pensione, nella piazza principale di Majdal e-Shams, Ali Maraj, classe 1940, occhiali da sole poggiati sulla fronte e folti baffi cascanti, chiede alla moglie, che come molte donne avanti con gli anni di questo villaggio druso è avvolta in un leggero telo bianco che le ricopre testa e spalle, di preparare il caffé. Alle pareti nell’insolito negozio in cui oltre alle stufe di ghisa sono in vendita bracieri, barattoli di formaggio fatti in casa, miele e caffé, campeggia la foto di Hafez Assad, padre dell’attuale presidente siriano. «Sono tutti pazzi» è il commento di Ali Maraj sulla guerra tra Israele ed Hezbollah. «Anche se Nasrallah in un certo senso è stato eroico a fronteggiare un esercito tanto più forte, che senso ha fare gli eroi quando a morire è la gente normale?». Ali Majdi racconta che alcune delle sue terre si trovano al di là dell’attuale confine, una parte del quale passa per questo villaggio. Ci mostra le foto affisse alla parete e tira fuori l’album con le foto di famiglia. «La guerra è stupida. Io nel 1973 ho perso mia madre e mia nipote. Mio figlio, questo della foto, è rimasto quattro ore sotto le macerie. Per fortuna lo ritrovammo vivo. Ora vive in America», continua Ali Maraj, ed aggiunge «solo Dio sa se un giorno il Golan tornerà alla Siria. La mia famiglia è per metà dall’altra parte. Io comunque sono per la pace. L’esercito israeliano in Libano “no good” e anche i katiusha “no good”, khalas! (basta ndr)».

Durante la guerra dello Yom Kippur (6-24 ottobre 1973), Siria ed Egitto lanciarono un attacco congiunto nel Sinai e sulle alture del Golan, nel tentativo di riappropriarsi dei territori conquistati da Israele durante la Guerra dei sei giorni (1967). Ma mentre Sadat riebbe indietro la penisola, la Siria di Assad dovette accontentarsi della “liberazione” di una stretta fascia di territorio nei pressi della cittadina di Qunaytra. A differenza di Cisgiordania e Gaza, anch’esse occupate durante la guerra dei sei giorni, le alture del Golan furono annesse ad Israele nel 1981.
Questo portò, come documentato dall’assemblea generale dell’Onu il 4 ottobre 1985, all’espulsione dei cittadini originari della zona ed alla restrizione delle libertà dei residenti di villaggi rimasti nelle proprie case, come a Majdal e-Shams che, insieme a Mas’ada, Ein Qinya e Bu’qata, sono rimasti completamente arabi. Qui vivono 27mila dei 40mila arabi del Golan (di cui 18mila drusi e duemila alawiti).

A Majdal e-Shams gli ebrei israeliani fanno i pendolari, come Artur Keselman, 32 anni, trasferitosi in Israele dal Kazakhstan nel 1992 con la famiglia, che, finito il lavoro alla posta, torna a casa a Batyam. Anche Keselman è per un cessate il fuoco immediato. «Questa non è una guerra tra eserciti. Io ho dei figli e qui sono già morti troppi bambini», continua l’ebreo russo immigrato. Il piccolo villaggio arabo si affaccia sulla “Tallet Al Sahyate”, l’altura delle grida. Su questa vallata che nessuno, ancora oggi, tenta di attraversare a causa delle mine, nonostante la tecnologia avanzata ed internet, i parenti divisi dalle guerre e dalla storia comunicano con gli altoparlanti. Così ha fatto gli auguri per la festa della mamma Wessam, 24 anni, studente di odontoiatria a Damasco. I giovani arabi di Majdal e-Shams (che non hanno passaporto israeliano, ma un lasciapassare) studenti in Siria, hanno il permesso per tornare nelle loro località di origine una volta l’anno. «In Siria sono rispettato, qui non ho diritti», dice il giovane studente convinto della necessità di un immediato cessato il fuoco. «So che la stragrande maggioranza degli israeliani pensa che la guerra debba continuare e capisco anche la loro posizione, ma chi ci guadagna? Così continueranno ad essere colpiti i civili libanesi e quelli israeliani».

Non tutti sono disponibili ad esprimere la propria opinione sulla crisi israelo-libanese. Due giovani sorelle con i capelli lunghi tinti di biondo, spiegano di aver paura di parlare. Potrebbero avere problemi con le autorità israeliane. Hasan Fahardin, 58 anni, affila i coltelli nella sua scarna macelleria. Come molti altri a Majdal e-Shams ha il televisore acceso nella bottega, sintonizzato su Al Jazeera. Fahardin racconta di essere stato arrestato otto volte per “attivismo politico contro l’occupazione”. Per lui la guerra in corso è «un’aggressione israeliana, americana e francese sulla resistenza libanese». E’ rimasto disilluso dall’atteggiamento delle Nazioni unite il macellaio di Majdal e-Shams, che contesta l’ingiustizia riservata al mondo arabo. «Per due soldati israeliani rapiti tutto il mondo si mette a urlare, mentre rimane in silenzio davanti alla sofferenza del popolo libanese». Alto e corpulento, camicia sbottonata sulla canottiera, Hasan Fahardin, si chiede: «I prigionieri incarcerati in Israele non sono anch’essi stati rapiti nel loro territorio?». Sui razzi di Hezbollah che colpiscono i civili israeliani risponde: «Perché devo parlare dei katiusha? Parliamo delle bombe che gli americani danno a Israele per sganciarle sui bambini libanesi». Ieri 4 razzi lanciati dalla guerriglia sciita libanese hanno raggiunto, senza provocare danni, né vittime, le alture del Golan, e circa 160 la Galilea. Ma la prospettiva da queste montagne chiare dove d’inverno arriva la neve e d’estate non c’è bisogno del condizionatore, non è la stessa che nel nord di Israele. Gli abitanti di Majdal e-Shams non hanno mai lasciato la Siria.

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