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Il Libano è Ground Zero, Israele è sconfitta. Ora possiamo sperare nella pace dell’Onu?

Publie le lunedì 14 agosto 2006 par Open-Publishing

di Anubi D’Avossa Lussurgiu

La guerra d’estate di Israele contro Hezbollah, che ha fatto vittima il Libano e nella misura d’un decimo la Galilea, è al suo epilogo. Quel che non si sa ancora è quale sarà l’epilogo, concretamente e per i suoi effetti nel tempo. Intanto il Consiglio di Sicurezza nella notte tra venerdì e ieri, mentre 4 divisioni di Tsahal si lanciavano verso il fiume Litani per ordine di Olmert, ha scritto un capitolo importante. L’approvazione all’unanimità della risoluzione che prescrive una «totale cessazione delle ostilità» e l’«immediata cessazione da parte di Hezbollah di tutti gli attacchi» come l’altrettanto «immediata cessazione da parte di Israele delle operazioni legate all’offensiva militare», non era affatto scontata.
E’ arrivata dopo 31 giorni in cui uno Stato sovrano come il Libano è stato spezzato distrutto e umiliato, con oltre 1000 vittime in stragrande maggioranza civili e un quarto della popolazione sfollata. Dopo violazioni sistematiche delle norme internazionali umanitarie, condannate dal Consiglio dei diritti umani a Ginevra. Dopo, soprattutto, un’eclatante paralisi delle Nazioni Unite, che ha portato anche il flebile segretario generale Kofi Annan a parole di «ammonimento» ai “Grandi”.

Adesso, si può dire che la risoluzione 1701 è anche arrivata mentre le truppe di Tsahal, malgrado l’assenso fatto pervenire a New York da Olmert in nottata, moltiplicavano quest’opera. Attestando ieri le loro avanguardie, elitrasportate, sulle rive del Litani e iniziando così l’occupazione del Sud libanese. Bombardando l’altra notte nella Bekaa con un drone d’attacco un convoglio di migliaia di civili che fuggivano da Marjayoun insieme a militari e poliziotti del governo di Beirut, sotto scorta dell’Unifil. Colpendo in giornata un convoglio umanitario del World Food Program tra Sidone e Tiro. Distruggendo i sobborghi orientali della stessa Sidone, i superstiti villaggi del Sud, le cittadine del Nord.

Non è però un caso che, mentre tutto questo accadeva, il primo ministro libanese Fu’ad Siniora abbia definito la 1701 «un trionfo». E che il giudizio dell’Iran, inizialmente affidato ad una stroncatura del ministro Mottaki, si sia piegato a riconoscere la «sconfitta di Israele». Proprio nello stesso momento in cui l’opposizione di destra israeliana del Likud si scagliava contro la risoluzione come «una resa totale». E quando lo stesso governo Olmert annunciava che l’offensiva finirà alle 7 di domani: certo, riservandosi «giorni» e «anche settimane» per le «operazioni di bonifica» dalle «presenze di terroristi», prima di «lasciare il posto» al contingente multinazionale che rafforzerà l’Unifil accanto al dispiegamento dell’esercito libanese sino al confine.

Ma ciò che è più significativo, è che in tale quadro sia arrivato il messaggio televisivo del leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah: per dire - in mezzo a proclami sulla «guerra» che «non è finita» e «non finirà finché rimarrà uno soldato israeliano sul suolo libanese» - che, sì, la 1701 è «iniqua e scorretta» quando ritiene il Partito di Dio «responsabile per l’inizio dell’aggressione»; ma che «se ci sarà un accordo sul cessate il fuoco attraverso il segretario generale dell’Onu» così come «attraverso un’intesa tra il Libano e Israele», ebbene, «la resistenza lo osserverà». E quanto al «dispiegamento al sud dell’esercito libanese assistito dalle forze Unifil», Nasrallah ha assicurato: «Daremo tutto il nostro aiuto e quanto ci verrà richiesto». Dunque, assenso alle condizioni già plaudite dalle autorità di Beirut.

La risoluzione 1701 è, in verità, lo specchio della mediazione con gli Stati Uniti operata da tutti gli attori e coordinata dalla Francia, nella sua veste di potenza coloniale storicamente legata al Paese dei Cedri e ancor più di contraltare degli Usa nella “comunità” occidentale. E’ un testo, com’era prevedibile in un compromesso, che contiene evidenti concessioni agli argomenti usati da Israele per fare apologia della sua condotta: oltre ad aver dovuto fare i conti con la provocazione costituita dal rapimento dei due soldati di Tsahal da parte di Hezbollah, poi usato come occasione dal governo dello Stato ebraico per scatenare un resa dei conti con una forza che ritiene avamposto dell’Iran e per attirare un intervento a carattere militare del grande alleato Usa e degli stessi europei, ai danni se non della stessa Teheran della Siria sua “satellite”. Ma proprio in ragione di quest’obiettivo originario, ora denegato, la 1701 resta un rospo terribilmente ingombrante da ingoiare per il governo Olmert. E, almeno formalmente, segna ad oggi un tratto di discontinuità non solo con l’unilateralismo della “dottrina Bush”, ma anche con quella distorta accezione di “multilateralismo” che, ad esempio, ha fatto sperare ad Olmert e alla leader della sua diplomazia, Tzipi Livni, di coinvolgere in un invio di truppe inteso come «lotta al terrorismo» i Paesi europei sotto “ombrello” Nato.

Nella lettera della risoluzione e, al momento, per come si stanno giustificando le «disponibilità» di potenze quali Francia, Spagna e la stessa Italia - lanciata in questo caso da Prodi e D’Alema, mentre il Parlamento si appresta a discuterne e Rifondazione ricorda la «precondizione» di un «completo» ritiro israeliano - si prevede invece di «autorizzare un aumento delle forze dell’Unifil fino a un massimo di 15 mila uomini», per controllare l’effettiva cessazione delle ostilità e garantire la distribuzione degli aiuti. Il «disarmo» di Hezbollah è fase successiva, legata ad impegni negoziali che coinvolgono tanto la «sicurezza di Israele» quanto «la sovranità del Libano» e «la garanzia» dei «suoi confini», anche con la «sistemazione» di contenziosi mai riconosciuti da Gerusalemme, come quello delle fattorie di Sheeba o la stessa questione dei libanesi illegalmente detenuti.

Occorre adesso attendere gli effetti reali. A partire dal ritiro israeliano, in presenza d’una avanzata che sembra un atto di disperazione politica del gabinetto Olmert e insieme cerca, sanguinosamente e pericolosamente, di mutare le condizioni sul campo dell’applicazione della 1701. Tsahal ha queste poche ore che la separano dal lunedì per ottenere l’impressione d’un successo militare oppure provocare il prolungamento d’una guerra che è già la prima non vinta. E l’Europa come l’Italia hanno una settimana circa, secondo i tempi indicati ieri dall’inviato dll’Onu Alvaro de Soto sul dispiegamento delle forze internazionali, per non mutare il rafforzamento dell’Unifil in passi indietro rispetto al pur timido smarcamento dall’imperio atlantista. E per ricordarsi della Palestina.
In realtà quanto accaduto in questi giorni pone un enorme quantità di interrogativi per chi si occupa del rapporto fra media e politica. “Tutto il terrorismo a tutte le ore: la paura si trasforma in un reality show”, è il titolo di un pezzo di Alessandra Stanley che, sul New York Times, racconta come si sono comportate le tv americane nelle ultime settantadue ore. Tutti i programmi - anche quelli d’intrattenimento - hanno fatto a gara a distribuire, senza interruzione alcuna, vagonate di paura e “consigli per chi viaggia in aereo”. E se la Cnn ha scelto come slogan delle sue “breaking news”, dei suoi speciali sulle notizie provenienti da Londra, un sobrio “Allarme Sicurezza”, la Fox di Murdoch ha affondato il pugnale mediatico con un “Terrore nei Cieli”. Per non essere da meno, l’altro canale di sole notizie, MSNBC (dove Ms indica, non dimentichiamolo, la Microsoft di Bill Gates), ha chiuso il cerchio con un perentorio e definitivo “Obiettivo America: Terrore nei Cieli”. Facile immaginare l’effetto che simili messaggi andavano a trasmettere: un sostegno indiretto ma esplicito all’amministrazione Bush, un rilancio della politica della cosiddetta “Guerra al terrore”, l’unico argomento oggi a disposizione di un partito repubblicano in tremenda crisi di consensi.

Fermiamoci però un attimo a riflettere sugli eventi. Non dobbiamo perdere il filo. Sappiamo che il terrorismo rappresenta una minaccia concreta. Sappiamo che gruppi estremismi legati a un fondamentalismo islamico radicale hanno già colpito. Questa volta però - fortunatamente - gli attentatori sono stati prima che potessero condurre in porto il loro disegno. L’enorme reality show (usiamo le parole del New York Times) messo in campo dai network tv era giornalisticamanete giustificato? Erano motivate le decine e decine di pagine dedicate dai quotidiani alla mancata strage? Le perplessità non mancano. Basti pensare che poco più di un mese fa, l’11 luglio, a Bombay otto esplosioni su treni pieni di pendolari avevano provocato oltre duecento vittime. Quella è stata una strage portata a termine con determinazione e ferocia. Sotto accusa anche in India l’estremismo paraislamico. Eppure, sui giornali e le tv dell’Occidente, di Bombay e della tragica sorte di tante persone si è parlato distrattamente. Perché erano indiani? Perché quello che accade fuori dal recinto europeo\americano conta comunque meno?

Ma l’enorme spazio mediatico occupato dal mancato massacro in Gran Bretagna fa entrare in campo anche un’altra questione. Improvvisamente questa vicenda ha oscurato il grande argomento che aveva nelle settimane precedenti dominato la scena mondiale: la guerra in Libano, i combattimenti fra Israele e gli Hezbollah, la morte - in questo caso purtroppo tragicamente documentata - di centinaia di civili. Qui siamo davanti a un vero nervo scoperto del sistema della comunicazione globale così come è gestito dai grandi network multinazionali.
Il meccanismo della competizione commerciale porta continuamente a privilegiare alcuni argomenti rispetto ad altri, crea artificiose gerarchie fra gli eventi, “consuma le notizie”. Cosa vuole dire questo discorso? Che non bisogna fidarsi delle priorità proposte dai grandi media. Negli Stati Uniti ci sono addirittura esperti della comunicazione che spiegano che la guerra moderna non deve durare più di tre settimane, altrimenti “il pubblico si stufa” e le tv non riescono più a “vendere il prodotto”. Siamo nel campo del cinismo più assoluto, ma tutto questo ci insegna che per catturare l’attenzione degli spettatori i giganti della tv hanno bisogno di “breaking news”, di novità, di colpi di scena. Non riescono a raccontare la realtà quando questa si sviluppa attraverso dinamiche non previste dai palinsesti.
Un esempio su tutti viene dalla guerra irachena, praticamente scomparsa dall’offerta informativa. Certo i media sono reticenti anche per ragioni politiche. Dire che a Baghdad è in corso una guerra civile equivarrebbe a sconfessare tutte le scelte compiute dall’amministrazione Bush. Ma è anche vero che c’è un gap culturale. Quando le stragi si ripetono quotidianamente una certa informazione preferisce nascondere cose che non è più in grado di spiegare.

E a proposito delle fasulle priorità proposte dal sistema dell’informazione globale un utile suggerimento viene da Wikipedia, la libera enciclopedia in rete che, alla voce “media manipulation”, ci ricorda come una delle tecniche preferite dai manipolatori sia esattamente quella di spostare l’attenzione del pubblico da un fatto reale a uno “artificiosamente pompato”. L’argomento non è nuovo. Hollywood nel 1997 ne ha fatto anche un film con Dustin Hoffman e Robert De Niro. Raccontava di come, per distrarre l’opinione pubblica da uno scandalo sessuale che aveva coinvolto il Presidente, gli uomini della Casa Bianca si fossero letteralmente inventati una guerra fasulla con l’Albania. In Italia il film (in verità non propriamente un capolavoro) è stato furbescamente venduto con il titolo “Sesso e Potere”. Una pessima traduzione dell’americano “Wag the Dog”, un’espressione metaforica che vuol dire più o meno questo: che se nella normalità è il cane a muovere la coda, nella nostra epoca può succedere che talvolta sia la coda a muovere l’animale. In poche parole possono essere i media e la politica a imporre la realtà percepita dall’opinione pubblica, a ribaltare il normale andamento delle cose. E’ un giochetto che ovviamente non può sempre avere successo. Sul lungo periodo la realtà dei fatti si prende la rivincita. Ma il problema esiste. Così se il terrorismo non è certo un’invenzione, la “Guerra al Terrore” ci è stata invece deliberatamente imposta proprio come la guerra all’Albania del film con De Niro. E’ diventata la clava ideologica con cui tappare la bocca a tutte le voci in dissenso con il potere. E’ una “Guerra al Terrore” a uso interno, come vediamo facilmente anche in Italia. Il dramma - su questo è ormai forte la presa di coscienza negli Stati Uniti - è che questo genere di strategia rafforza Al Qaeda piuttosto che combatterla. Peccato che l’opinione pubblica se ne sia dovuta accorgere da sola, senza l’aiuto delle televisioni.

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