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Il boss e la grottesca America

Publie le giovedì 7 ottobre 2004 par Open-Publishing

Dal Manifesto su Sprensteen e le grottesche elezioni americane.

SANDRO PORTELLI
Cleveland, Ohio, sabato due ottobre. Fra un set e l’altro del concerto di Bruce Springsteen, Rem e John Fogerty, sul megaschermo appaiono interviste con gli artisti che partecipano alla campagna «Voto per cambiare» di Move On, per l’iscrizione alle liste elettorali e il voto
anti-Bush.

Mi colpisce John Fogerty: «In quanto americani», dice, «abbiamo il privilegio di poter votare. Esercitatelo». In quanto americani? Privilegio? Un tempo, se volevo fare propaganda sovversiva negli Stati uniti, spiegavo ai minatori del Kentucky che in Italia i diritti e i contratti sindacali si applicano a tutti, per legge. Restavano di stucco: niente disorienta gli americani più che scoprire che la loro democrazia non è l’unica e la più perfetta al mondo. Adesso che i diritti sindacali ce li stanno erodendo insieme con la costituzione che li sancisce, ho trovato una nuova piattaforma sovversiva: raccontare agli americani che da noi non c’è bisogno di registrarsi per votare, anzi la scheda elettorale te la mandano cdirettamente a casa. In questo fine settimana ho rivelato questo fatto sconvolgente a docenti universitari, storici, antropologhe, gente colta e impegnata che non lo sapeva, e li ho visti fare tanto d’occhi: perché non si fa pure da noi? Forse, il diritto di voto non è un esclusivo privilegio americano, anzi...

Anzi: qui ti mettono i bastoni fra le ruote in tutti i modi. Lasciamo stare la Florida, dove inventano di tutto per non far votare i neri. O il Maryland, dove si sono persi le macchinette per il voto elettronico e le hanno ritrovate per strada (ma non potrebbero usare carta e matita come tutti gli altri?). Ma qui in Ohio, il governatore repubblicano ha annunciato che avrebbe accettato le richieste di iscrizione alle liste elettorali solo se pervenute su carta di un particolare spessore (carta da pacchi, da cartoline, da copertina di paperback). La scusa era che le domande su carta normale potevano danneggiarsi. Per fortuna glie l’hanno fatta rimangiare, ma lui ci ha provato. I repubblicani sanno che se la gente vota ci rimettono loro; fra le nuove iscrizioni i democratici sono almeno il triplo. E adesso i democratici hanno capito che, più che contendere voti «moderati» di centro-destra, conviene mobilitare al voto la propria base sociale.

Perciò, anche l’ingenuità eccezionalista di John Fogerty è benvenuta, e il concerto alla Grund Arena di Cleveland (dopo Detroit e Philadelphia) è un bel momento, intenso e divertente, di musica e di partecipazione democratica. Saranno ventimila persone, non molti giovanissimi (il
biglietto costa settanta dollari) e tutti bianchi (il mercato ha diviso il pubblico musicale su basi razziali; i neri non ascoltano più il rock and roll); ma sono tutti carichi ed entusiasti.
Dopo l’intensa apertura dei Bright Eyes (un giovane gruppo di Omaha, Nebraska), sale sul palco Bruce Springsteen, maestro di cerimonie, e annuncia: stasera facciamo democrazia, e la facciamo col rock and roll! Poi Michael Stipe e i Rem attaccano «The One I love», e viene giù il teatro. Michael Stipe gioca a fare una cosa di mezzo fra il guru e lo svanito. Racconta: «Mi hanno detto che l’Ohio è uno swing state» (cioè uno stato indeciso, oscillante), «e a me piace tantissimo lo swing». Dice «questa canzone non ha niente di politico», poi però conclude: «qui dentro avete tutti una vecchia zia Bessie che si ricorda di Eisenhower e capisce di politica più di tutti noi messi insieme. Bene, anche se la dovete portare con le stampelle e la carrozzella, portatela a registrarsi, e portatela a votare!». E poi, «Losing My Religion». I Rem accumulano un classico sopra l’altro (ma anche la nuova, durissima «Final Straw»: è la goccia che fa traboccare il vaso, l’ultima pagliuzza che spezza la schiena all’asino) e tutto culmina con Michael Stipe e Bruce Springsteen che cantano insieme «Man on the Moon».
Salgono su Bruce Springsteen e la E-Street Band. Bruce gioca a fare il Jimi Hendrix, svisando l’inno nazionale in un solo di chitarra. Mi conferma quello che ho sempre pensato: che anche per Jimi Hendrix svisare l’inno non era una dissacrazione ma una riappropriazione, un atto patriottico: l’America è nostra e suona come noi. E poi via, «Born in the Usa», «Badlands» (la più grande canzone di Springsteen, esplosiva stasera: «continueremo a batterci finché queste terre maledette non ci tratteranno come si deve»), «Promised Land», «No Surrender» («niente ritirata, niente resa», un inno all’America che resiste a Bush), «The Rising», risurrezione e insurrezione in una parola sola.

Schierandosi apertamente, Bruce Springsteen ha liberato queste canzoni, sempre implicitamente politiche, da ogni possibile malinteso e ne ha fatto espliciti inni di mobilitazione per un’altra America: «A diciannove anni, tessera del sindacato e vestito per le nozze» («The
River»), l’iscrizione al sindacato come la cosa logica da fare, nell’antisindacalissima America di Ashcroft e Rumsfeld? «Ma adesso non c’è più lavoro, a causa dell’economia»: per quanta gente di oggi parla, questa canzone di un quarto di secolo fa? Siamo qui per cambiare la
direzione in cui va il nostro paese, dice Springsteen, per un governo più umano. E dà la piattaforma: «giustizia economica; diritti civili; cura dell’ambiente; rispetto per il resto del mondo nell’esercizio del nostro potere».

Giustizia economica? In America? Lo scambiassero per un comunista.
Diritti civili? Al tempo del Patriot Act e di Guantanamo? Non è così che parla la politica. Due sere prima, Kerry ha spiegato che certo, anche lui è favorevole alla dottrina della guerra preventiva. Gli amici con cui guardo il dibattito si consolano: forse ha dovuto dirlo per non
spaventare gli elettori. Ma se è così, è un segno allarmante di degrado morale: a questa America si può parlare solo di guerra.

I musicisti stanno su altro pianeta. Stasera Springsteen sceglie i brani più trascinanti e coinvolgenti. Si tratta di infondere energia, mobilitare la gente la gente perché vada a votare, e ci porti le zie e i vicini. Anche le canzoni più dolorose - «Youngstown», «Johnny 99» - vengono fuori in versioni rock tirate al massimo.

«Qui, nel nordest dell’Ohio...» («Youngstown»): è di voi che sto parlando, del vostro stato, ribadisce Springsteen. Due sere prima, a Detroit, Michigan, ha introdotto «Johnny 99» ricordando che «in Michigan sono stati persi 140.000 posti di lavoro industriali, e ci sono settemila cittadini (cittadini? Ma ci vuole un rocchettaro per ricordare che «le nostre
truppe» sono cittadini?) che stanno in Iraq ein Afghanistan. Li saluto e li ringrazio, e voglio che tornino a casa il prima possibile».

Il concerto dura cinque ore. Dietro di me, un gruppo di ragazzi commenta: i musicisti della nostra età suonano un’ora e mezza e sono spompati; questo è più vecchio dei nostri genitori e se non fa quattro ore di musica non è contento. Sale su John Fogerty. Se era il mio
compleanno e qualcuno mi voleva fare un regalo, avrei sognato che mi facesse vedere Bruce Springsteen e John Fogerty che cantano insieme «Fortunate Son» e «Bad Moon Rising». Ebbene, stasera succede. Guardatemi, cantano: non sono un figlio fortunato, uno nato con la camicia e il cucchiaio d’argento in bocca.

Ha detto Michael Moore: «Bush, il figlio fortunato che non ebbe bisogno di andare in Vietnam,
adesso manda in guerra i figli non fortunati dei poveri e dei lavoratori. Mi piacerebbe suonare questo brano a tutto volume davanti alla Casa bianca, una sera».

«Bad Moon Rising» è un avvertimento sui tempi cupi che ci aspettano se avremo altri quattro anni di Cheney e di Bush. «Non uscire stasera, c’è una brutta luna all’orizzonte...»: può sembrare il contrario di una chiamata alla mobilitazione, un invito a starsene a casa; ma la voce tagliente di Fogerty e quella soulful di Springsteen trasformano questo rischio all’orizzonte in un’altra ragione per impegnarsi.
Alla fine, bis corali. «Born to Run», naturalmente. «Gente come noi è nata per correre», un’altra chiamata alle armi.
Reduci da un concerto tenuto in contemporanea dall’altra parte di Cleveland, salgono sul palco (e nella confusione generale io non me ne accorgo nemmeno) anche le mie carissime Dixie Chicks. I loro dischi sono stati pubblicamente bruciati perché hanno detto che si vergognavano di essere del Texas, stato di Bush. Segno che nella democratica America certe libertà di parola non sono senza rischio, e questo vale da oggi anche per Springsteen o i Rem.
Mi intenerisce il giovanissimo Conor Oberst dei Bright Eyes, visibilmente emozionato a stare sul palco insieme agli idoli di tutta la sua vita, come un ragazzino del vivaio in campo accanto a Maradona, ma se la cava con onore. «What’s So Funny about Peace, Love and
Understanding?» di Nick Loew - che c’è da ridere se vi parliamo di pace, amore, comprensione?

E poi, a chiudere, «People Have the Power», di Patty Smith. Sembra di tornare nel meglio degli anni 60 e delle speranze di allora, ma la  realtà è più ricca e stratificata: Patty Smith questa canzone l'ha  scritta ispirandosi a uno dei grandi murales proletari dipinti da Diego Rivera negli anni30 nell’operaia Detroit. Abbiamo una storia, per questo abbiamo un futuro.Va bene, sono un fan, non sono un critico o non lo sono abbastanza. Mi sono entusiasmato e commosso - ma, come dice Umberto Eco, se ti trovi dentro una macchina fatta per entusiasmarti e commuoverti, devi essere proprio scemo se non ti commuovi e non ti entusiasmi.

Ho visto un sacco di gente depressa negli Stati uniti, in questi pochi giorni. Li ho visti tirarsi su un pochino dopo che Kerry ha messo sotto Bush nel primo dibattito televisivo. Stasera ne ho visto qualche migliaio prendere una scossa di ottimismo. Magari, chissà, potrebbe non
bastare per vincere; ma ci avremo provato. Dopo tutto, dipende anche da loro e da noi: «people have the power».
http://www.ilmanifesto.it/oggi/art64.html