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Il maggior problema economico oggi è il conflitto tra salari e diritti dei nostri paesi e di quelli in via di sviluppo.
E’ inutile ignorarlo o scandalizzarsi in modo ipocrita se qualcuno lo denuncia.
Che ne facciamo della legge 30? Che ne vuol fare il centrosinistra?
In Italia i lavoratori accertati sono 23 milioni. I precari per legge sono 5 milioni e mezzo, più del 20% degli occupati. Poi ci sono i fuori legge, altri 1,8 milioni, e 3 milioni di lavoratori a tempo parziale o in nero.
Precarietà vuol dire godere minori diritti. Qui si tende a portare un lavoratore su due a stare peggio.
I passaggi dal lavoro regolare a quello irregolare sono ormai imponenti.
Tutto il mondo del lavoro si degraderà rapidamente se non si pone rimedio.
Berlusconi mentì sul milione in più di posti di lavoro, 600.000 erano solo immigrati regolarizzati.
Prodi mente sui precari di cui ogni lavoro parziale è conteggiato come un lavoratore intero.
Ma la legge 30 non parte da una reale necessità del mercato.
Sono le multinazionali che cercano di appiattire al minimo il trattamento dei lavoratori per massimare il proprio lucro e potere.
Arrivano al punto da spingere i governi di Cina e del terzo mondo a non migliorare le condizioni dei lavoratori così da continuare a sfruttare schiavi a basso costo, sono loro a volere che il miliardo e mezzo di lavoratori di Cina, India, Indonesia, Brasile, Russia.. restino in fondo alla scala sociale.
In Cina le corporation governano il 55% delle esportazioni e impediscono al governo cinese di alzare il salario minimo di 20 centesimi di dollaro a 85.
Ci dobbiamo opporre a questo! Non dobbiamo liberare solo i nostri lavoratori ma tutti!
Cominciamo da questo: esigiamo a livello europeo che sia chiaro su ogni merce, su ogni giocattolo, indumento, scatoletta di pelati... dove viene prodotto, così da scegliere di non comprarla se è frutto del lavoro di schiavi, per non diventare, domani, schiavi anche noi!
Se la sinistra italiana o europea hanno ancora nel proprio DAN una traccia di difesa degli oppressi chiedano a livello italiano ed europeo chiarezza su questo!
Se il mercato ci uccide, possiamo agire a livello di mercato facendo delle scelte dei nostri consumi un’arma!
Messaggi
1. Il diritto all’etichetta, 29 agosto 2007, 11:15
A scanso di equivoci sono un sostenitore dei boicottaggi dei marchi in difesa dei diritti dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo, così come della loro tutela ambientale e del loro diritto all’istruzione e alla salute. Ma i boicottaggi sono efficaci solo in un’ottica di interventi mirati su singole questioni, come ad esempio la condizione dei dipendenti colombiani della Coca Cola.
Ma non si può pensare di usare i boicottaggi per eliminare il sostanziale differenziale di costi che esiste tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, e dunque l’investimento in capitale variabile (cioè lavoro) laddove esso rende di più perché è meno caro. Ovvero è irrealistico guardare ai boicottaggi come via per l’uguaglianza globale della condizione dei lavoratori.
Per due ragioni.
Intanto perché le modalità di accumulazione del capitale del presente ordinamento economico (cioè il capitalismo) non si fermeranno per un colpo di bacchetta magica, come sono i boicottaggi dei marchi, se si guarda alle proporzioni delle forze in campo. Il capitale si muoverà inevitabilmente là dove il lavoro costa meno, e gli strumenti per impedirglielo sono tutti da costruire.
In secondo luogo perché occorrerebbe vedere in questa forma di mobilità del capitale anche degli aspetti positivi. La Bolivia di Evo Morales, uno dei pochi paesi al mondo impegnato sulla costruzione del socialismo (e a mio modesto avviso in maniera del tutto credibile), ha bisogno di investimenti stranieri per realizzare quelle infrastrutture tecniche che gli permetteranno di sfruttare le sue enormi risorse naturali, senza di che il socialismo rimarrà solo una pia illusione. E’ ovvio che il relativo basso costo del lavoro in Bolivia è un incentivo per investitori stranieri ad andare a produrre lì, e questo è proprio ciò che sta accadendo se si legge l’ultimo rapporto della Banca Mondiale sulla Bolivia, che in quadro macroeconomico piuttosto sano sta effettivemente attraendo capitali dall’estero.
Per questa ragione non posso persuadermi a vedere nella delocalizzazione solo una cosa negativa. Preferirei uno sforzo di solidarietà internazionale per mettere nelle mani dei governi del terzo mondo quelle carte che ha in mano attualmente Evo Morales, e per cui un accesso di capitali stranieri nel paese deve soddisfare una griglia di garanzie per le ricadute positive sulla gente del paese in cui si va a investire.
Gianluca Bifolchi
1. Il diritto all’etichetta, 29 agosto 2007, 18:30
Ci dicono che i grandi organismi internazionali stanno risentendo di una crisi che ha colpito anche l’ideologia neoliberista, del resto anche le grandi banche nazionali sono oggi sotto accusa dopo il crack dei suprime e il cinismo svelato delle grandi agenzie di rating, ma nulla di questo sembra realmente toccare la politica internazionale e in particolare quella europea. Di quella italiana non vale nemmeno parlare, è talmente fuori del mondo che parlare di provincialismo sarebbe un onore.
Il mondo no global ha già sperimentato forme di boicottaggio di alcune marche legate a grosse corporation: la Nestlé, la Shell, la Nike ecc.
Purtroppo ognuno di noi ha solo 3 modi per influire sulla storia: il suo stile di vita che comprende i suoi acquisti, l’informazione che dà o che riceve, e il suo voto all’interno del suo Stato.
Se prima potevo boicottare la Coca Cola e la Nike perché calpestano i diritti dei lavoratori, oggi posso boicottare i giocattoli fatti in Cina perché so che nessuno controlla il loro assemblaggio o la vernice al piombo, o posso boicottare i pelati cinesi con marche nostrane perché so che nella loro coltivazione non sono state rispettate norme sanitarie e non ci sono stati limiti ai pesticidi e dunque possono essere nocivi alla mia salute.
Ma mi occorrono due cose: avere la trasparenza dell’etichetta per sapere cosa si nasconde dietro l’amichevole logo, e avere l’informazione che mi dice quali merci boicottare per la salvezza del mio corpo o della mia etica.
Questa trasaprenza io vorrei fosse richiesta alla Comunità Europea, presentata dalle associazioni dei consumatori e vorrei che le stesse acquisissero un maggior peso politico, visto che i partiti attualmente al Governo, compresi i verdi, sembrano alquanto distratti e non ci è mai dato sapere su cosa si battono gli eurodaputati italiani a Bruxelles.
Sento che Montezemolo vorrebbe ridurre tutto a mercato. Francamente una simile tesi mi sembra oltremodo squallida, soprattutto oggi quando abbiamo ben chiari davanti agli occhi gli enormi disastri che il mercato sta combiando a livello planetario.
Nel mercato, o almeno, in "questo" mercato, non è mai esistita una cosa che si chiama solidarismo o corretteza o oesservanza delle regole comuni e il profitto non si è mai coniugato all’etica.
Se una sinistra deve essere, e se questa parola non è ormai un nome vuoto che copre un organismo morto, è dalle leggi del mercato che bisogna cominciare, così da farne uno strumento di lotta.
Non è possibile elogiare la delocalizzazione del lavoro, se essa copre, come sta facendo, il tentativo delle grandi corporazioni di inibire le spinte liberatrici dei lavoratori schiavizzati per tenerli in condizioni di perpetuo sfruttamento. E soprattutto oggi che solo 200 corporazioni dominano il mondo e decidono paci e guerre, sopravvivenze o distruzioni, di 6 miliardi di persone.
Quando in un centro DS feci presente che la delocalizzazione avrebbe spogliato di diritti i nostri lavoratori per aumentare la schiavitù altrove, mi si rispose: "Impareranno a liberarsi come abbiamo fatto noi!" Nessuno capì che questo avrebbe solo rafforzato il potere dei più ricchi e che, mantenendo la schiavitù di altri, avremmo preparato la nostra.
Oggi la delocalizzazione è talmente ampia che basta cominciare a leggere i marchi che ci attorniano per vedere già il made in China un po’ dappertutto, dalla sedia a sdraio al pc dell’IBM.
Ma se la delocalizzazione del lavoro non si accompagna alla esportazione di diritti avremo tutti un futuro molto duro.
Vorrei ricordare che solo i ricavi persi nel 2004 in Inghilterra a causa del boicottaggio di alcuni prodotti furono di 3,2 miliardi di sterline, 600 milioni di sterline più dell’anno precedente.
Nulla come una perdita di utili, anche piccola, è capace di far trovare improvvisamente più etica a certe società.
Cito da internazionale.it:
"Il boicottaggio di un prodotto è un’arma un po’ rozza ma al suo attivo vanta molti successi. Le campagne di boicottaggio, da quella delle merci prodotte dagli schiavi proposta dalla National negro convention nel 1830 a quella dei prodotti sudafricani lanciata negli anni dell’apartheid, hanno contribuito a cambiare la mentalità delle persone e la storia dell’umanità. Lettere di protesta, la raccolta di firme o l’invio di email su scala internazionale non sembrano avere lo stesso effetto di un boicottaggio ben organizzato. Negli ultimi anni molte aziende e multinazionali sono state costrette a clamorose inversioni di rotta. Basta ricordare il dietrofront della Shell, che nel 1995 ha rinunciato all’affondamento in mare aperto della Brent Spar, una gigantesca piattaforma petrolifera non più operativa nel Mare del Nord. "
Nel boicottaggio della Shell bastarono 4 mesi per costringere l’azienda a fare marcia indietro e ad ammettere che si era verificato un calo delle vendite dal 20 al 50%.
Per gli ananassi Del Monte bastarono 4 settimane e cambiò il trattamento dei lavoratori nelle piantagioni.
Il boicottaggio è uno strumento con il quale segnaliamo alle imprese i comportamenti che approviamo e quelli che condanniamo.
Nel 2003 ben il 31% degli italiani disse che non comp’rava un qualche prodotto per protesta.
Sono state fatte molte battaglie per la trasparenza delle etichette, e alcune hanno avuto un certo successo per es. in campo alimentare. L’acquirente vuol sapere la filiera del prodotto, la carne per es..
Occorre ora che il diritto del consumatore a saper come e dove la merce è fabbricata si estenda a tutte le merci. Così le grande società occidentali che usano in modo schiavistico lavoratori del terzo mondo possono essere ricattate e spinte a migliorare le loro condizioni.
Ma ci occorre che la trasparenza sia generalizzata così che sia l’Europa stessa e rifiutare merci che non abbiano questa trasparenza.
Se tutto è mercato, io sono una componente di questo mercato e voglio usare tutto il potere del mio portafoglio per diversificare i miei acquisti così da farne un’arma politica. Io da sola non sono nessuno. Ma io insieme a 250 milioni di persone sono una forza.
La campagna contro le banche armate ha portato all’abbandono del business dell’esportazioni di armi le banche Unicredito, Monte dei Paschi, Cassa di Risparmio di Firenze, Banca Popolare di Bergamo/Credito Varesino e Banca Intesa (su Unicredit ci sono dei dubbi).
La Nike ha avuto un calo azionario e più volte si è premurata di far sapere che le accuse di aggredire il sindacato non sono vere, il che dice che la sua immagine è stata intaccata.
Il consumo è potere.
Per altri dati leggi l’articolo non nuovissimo http://www.altreconomia.it/Numeri/numero50/boicotta.html
Un’altra economia è possibile. E anche un altro mercato. Ma occorre che sfruttiamo tutto quello che la nostra posizione consente, anche come consumatori.
viviana
2. Il diritto all’etichetta, 30 agosto 2007, 11:16
Scusa, ma io insisto.
Se volessimo vivere in una vera democrazia, e non nella parodia dei principi liberali che abbiamo ora, sarebbe sufficiente che il 60% dei cittadini italiani iniziasse il boicottaggio del voto pretendendo istituti di democrazia diretta, garanzie di un reale pluralismo dell’informazione, accesso ai diritti di cittadinanza basato su una effettiva risposta ai veri bisogni sociali (casa, lavoro, istruzione, salute,....), e così via dicendo.
Ma intanto come si fa a convincere il 60% dei cittadini a boicottare il voto (come io ho comunque deciso di fare, insieme al boicottaggio della Coca Cola)?
Ragioniamo sui successi — a me noti — già ottenuti dalle campagne di boicottaggio che tu citi. Sei sicura che la risposta positiva delle multinazionali sia stata dovuta ad una sostanziale perdita di quote di mercato e non alla debacle di pubbliche relazioni che le campagne in sé, indipendentemente dal loro impatto quantitativo, stavano producendo sul loro valore di capitale più prezioso e più protetto, e cioè la percezione pubblica del loro logo? Tu potresti obiettare che non c’è differenza, dato che attaccare con successo il logo, se non porta a perdite di mercato nell’immediato, lo farà certamente in futuro. Ma intanto quel minimo di aggiustamenti positivi che la multinazionale attua nelle sue politiche aziendali viene strombazzato con una potenza mediatica assai superiore a quella che i boicottatori, costretti ad usare canali alternativi, possono dispiegare. Col risultato che, ottenuto un risultato minimo, la questione cade nell’oblio, perché se i boicottatori insistono, la gente che prima li aveva seguiti comincerà ad avere il dubbio che si tratta di rompiscatole professionali, e diserterà le fila del boicottaggio.
Io non sono contro i boicottaggi ed anzi sono contento che vi siano persone che si dedicano specificamente ad essi per raggiungere il massimo dell’efficacia nella promozione del messaggio. Ma inviterei a non pensare che privilegiare un unico fattore di cambiamento (in questo caso il consumo critico) possa ottenere da solo, al di fuori di una strategia politica complessiva, dei risultati di trasformazione globale, perché su quell’unica linea di fronte la risposta del sistema — una volta concentrata ed organizzata — sarà sempre più forte di quella degli attivisti. Chi si ricorda le Olimpiadi invernali di Torino dello scorso anno e il trattamento riservato da tutta la stampa ai boicotattori della Coca Cola, trattati come mestatori ed agitatori di torbidi, capisce bene cosa voglio dire.
Per quanto riguarda la tua affermazione che la delocalizzazione deve esportare non solo capitali finanziari ma anche diritti, sfondi le porte aperte, dato che io stesso ho citato Evo Morales come il caso di una nuova capacità, espressa da un paese del Terzo Mondo, di negoziare con il capitale transnazionale su basi che integrino i bisogni dei cittadini e dei lavoratori locali, oltreché i progetti che la nazione ha di svilupparsi in maniera sovrana ed indipendente, su un modello che non è più dettato dalle istituzioni finanziarie internazionali. Ma mi preme enfatizzare che la delocalizzazione in sé non può essere vista come una cosa negativa, o soltanto negativa.
Non pensi ad esempio che gran parte dei capitali occidentali che vengono delocalizzati hanno la loro origine in materie prime predate nei decenni passati ai paesi del terzo mondo, e che ora stanno semplicemente tornando a casa? Non ti pare sospetto che persino Tremonti, la Lega Nord o Sarkozy non siano più tanto entusiasti dei proclami neoliberisti, e che cercano di controllare protezionisticamente il flusso della ricchezza creato nel paese? E non è possibile che dietro tutti gli attacchi alla delocalizzazione, anche quando declinati in linguaggio progressista, non si annidi, al fondo, una pulsione egoista da "si salvi chi può"? Secondo me bisognerebbe affrontare la complessità dell’economia con strumenti più articolati (in aggiunta, e non in sostituzione dei boicottaggi).
Infine, vorrei ricordare che tutte le campagne di boicottaggo che hanno avuto successo erano in genere dirette da comitati internazionali di cui erano parte integrante sindacalisti, giornalisti, attivisti dei diritti civili, e rappresentanti delle comunità legati all’industria da boicottare. Un esempio per tutti è il Sinaltrainal, cioè il sindacato degli imbottigliatori della Coca Cola in Colombia. Questi soggetti incoraggiavano e prendevano parte attiva al boicottaggio proprio perché esso metteva nelle loro mani un potere negoziale che altrimenti non avrebbero avuto. Ma quando si tratta di boicottare nientemeno che le esportazioni cinesi, immaginando che questo rientri nei desideri dei lavoratori cinesi è un altro paio di maniche. Prima di mettermi a boicottare le merci cinesi io ho bisogno di molto più che una semplice etichetta che mi informi sulla provenienza della merce. Io ho bisogno di sapere che quella mia singola azione di boicottaggio si coordina esplicitamente ed organizzativamente alle lotte dei lavoratori cinesi per i loro diritti. Magari è già così, ma vorrei esserne certo. Mi è difficile credere che i lavoratori cinesi desiderino che l’intero export del loro paese finisca sulla lista nera.
Gianluca Bifolchi
3. Il diritto all’etichetta, 31 agosto 2007, 09:35
Caro Giancluca
grazie per il bel commento ragionato.
A parte il fatto che forse per la prima volta in vita mia non andrò a votare (staremo a vedere come si evolve la SD ma per ora i segnali sono fiacchi) e sicuramente non voterò per le comunali di Bologna se viene riproposto Cofferati, a parte le mie scelte irritate di oggi di fronte alla scarsa credibilità della sinistra, non credo affatto che evadere il voto sia una gran pensata.
In USA non vota il 40% degli elettori ma questo ai due schieramenti non gli fa proprio un baffo, perché basta comunque che uno dei due abbia la maggioranza relativa, in quanto non esiste una regola per cui se la percentuale di voto è bassa le elezioni si invalidano.
Per cui se io o te non andiamo a votare, facciamo un torto solo a noi stessi inficiando il nostro diritto di voto. Si suicidiamo da soli.
Questa regola del numero che grande o piccolo non importa, esiste però, guarda caso, per i referendum popolari, che ormai vanno tutti in buca per mancanza di votanti, per cui anche Pannella o Segni sarebbe bene che si dessero da fare per cambiare il quorum di validità dei referendum o sparirà la loro fonte di approvigionamento finanziario, visto che a votare ci vanno sempre meno persone, per cui negli ultimi anni i referendum si invalidano per carenza di numeri (e non perché si dà retta alla Chiesa come il Vaticano ha voluto fraudolentemente far credere).
Poi, circa i successi delle campagne di boicottaggio, non è che me li invento, stanno nei fatti. Io ho seguito per caso quello dell’ananasso della Del Monte che fu promosso da Francesco Gesualdi (al tempo mia figlia lavorava presso di lui) e fu una cosa molto veloce. Gulliver cedette ai lillipuziani. Ciò provò che non esistono giganti imbattibili, e che ognuno di noi piccoo consumatore poteva fare qualcosa se voleva.
Per quanto il potere delle multinazionali sia grande, ha una base di argilla: i consumatori, che siamo noi. Se questi volessero, la base può sparire e il gigante si incrina.
Del caso Del Monte parlò in tv anche Report della Gabanelli.
1999. La Del Monte ha in Kenya un’enorme piantagione di 30.000 ettari presso Nairobi, dove produce 300.000 tonnellate di ananas l’anno, con 6.000 operai di cui solo un terzo sotto contratto.
Steve Ouma, su invito del missionario comboniano Zanotelli, col sindacalista della Del Monte Daniel Kiule, mandano un rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dell’azienda suddetta a Francuccio Gesualdi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo in Italia (nota: Gesualdi di lavoro fa l’infermiere! da un punto di vista partitico è nessuno). Gesualdi contattò Willy Mutunga, responsabile della Human Rights Commission e lancia la campagna di boicottaggio degli ananas Del Monte, fa spedire migliaia di cartoline alla Cirio:"Diciamo no all’uomo Del Monte"...in netto contrasto con lo slogan dell’azienda che diceva: "L’uomo Del Monte ha detto sì". E arrivano anche migliaia di proteste alla Coop perché usa questi prodotti raccolti sul sangue degli operai.
Ci furono minacce. Il sindacalista rischiava la vita. Il direttore generale della Del Monte Carlo Zingaro si imbufalì e attaccò il comitato di boicottaggio. Ma gli ispettori ufficiali della Del Monte confermano la verità del rapporto. Anche il governo del Kenya spara a zero sul comitato, ma poi convoca un tavolo di discussione tra le parti. Dunque anche il governo si muove!
Alla fine la società decide di migliorare il trattamento dei lavoratori. Le costa meno di tutta la cattiva pubblicità che le rovina l’immagine.
Queste società lo sanno benissimo che vendono fumo e che solo la loro immagine pubblicitaria giustifica i loro enormi guadagni.
La campagna contro la Del Monte durò tre settimane.
Con la Coca Cola è più difficile. La Nike ha avuto il suo danno di immagine con le scarpe assemblate dai ragazzini asiatici e poi con la strage dei canguri australiani.
Io non compro scarpe Nike, né bevo Coca Cola.
Questi giganti riposano sul loro potere economico. ma siamo noi che lo alimentamo.
Niente acquisti, niente potere.
Ora ci sono i prodotti cinesi.
Nessuno vuole che la Cina non produca più.
Si vuole che lo faccia con le regola dell’OMS, con i sindacati, con i diritti dei lavoro.
Pagando di più i suoi operai.
E non sottostando ai ricatti delle multinazionali che impongono salari minimi per maggiorare i loro profitti.
Se così è, e se io ho il rischio per di più di comprare giocattoli al piombo o vestiti con coloranti tossici, starò attenta a non comprare giocattoli della Chicco o della Prenatal o simili.
Ma chiedo di avre etichette trasparenti. E’ un mio diritto.
Lo chiedo all’Europa.
Un master di economia che mia figlia ha fatto è stato su impresa etica e ha lavorato con una società inglese che è la prima presso la Comunità Europea per stilare una serie di protocolli d’impresa.
Per ora tutto è rimasto a livello di monito, su un piano facoltativo, ma intanto di questo si ’ cominciato a parlare, è solo l’inizio.
Nel mondo tutto si muove tra incentivi e punizioni. Arriveremo a incentivi fiscali e di immagine per le imprese più etiche e a una contrazione di vendite e a una perdita di immagine per le imprese più ciniche, meno rispettose dell’ambiente, della salute e dei diritti.
Intanto quando si va a comprare un frigorifero si guarda anche quano risparmia o inquinante per l’ambiente e il venditore stesso ci tiene a fartelo sapere. Sara’ la concorrenza stessa a variare i criteri di produzione se i compratori faranno capire bene cosa comprano e cosa no.
Ora ci si sta concentrando contro le grandi società che imbottigliano l’acqua e contro i governi e gli amministratori (anche di sinistra) che la privatizzano, ultimo Formigoni.
Io faccio tutto quello che posso.
Dietro di me ci sono grandi organizzazioni di volontariato che fanno tutto quello che possono: Attac, Amnesty, Greanpeace, Peacelink...
Bisogna partecipare, non si può dire: non serve a niente!
Queste sono le grandi battaglie. Dire che i passi sono piccoli non significa nulla. Ci dobbiamo provare.
Perché si può.
Nessuna battaglia si inizia nemmeno se non si è convinti che si può. Né il socialismo, né la democrazia, né un nuovo mondo migliore.
Il passo più difficile è cominciare a crederci.
Ogni progresso sociale a questo mondo è avvenuto perché, quando tutti dicevano:"Non si può", un pugno di persone ha cominciato semplicemente a fare quello che non si poteva.
Questo vale per il suffragio popolare come per la liberazione dall’apartheid, o per l’India fuori dal Commonwealth o per i vaccini o l’uomo sulla Luna.
Quando si comincia a crederci, si comincia a potere.
Viviana