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Il mercato della fame

Publie le sabato 7 giugno 2008 par Open-Publishing

Il mercato della fame

di Emanuele Giordana

su Il Manifesto del 06/06/2008

Solo in serata la Conferenza internazionale sulla crisi alimentare riesce ad approvare un documento che parla poco di politiche agricole, molto di liberalizzazioni. Un fronte guidato da Argentina, Venezuela e Cuba firma una dichiarazione critica

La Conferenza della Fao di Roma sulla crisi alimentare ha infine partorito un documento finale, ieri sera: ma si è arenata sull’opposizione di un fronte principalmente sudamericano guidato da Argentina, Venezuela e Cuba con aggiunta di Bolivia, Ecuador e Nicaragua. Tutto per una parola in un comma della dichiarazione finale, che irrita non solo Buenos Aires: si tratta di «misure restrittive» sul commercio di derrate. In serata è arrivato un compromesso: alla dichiarazione di Roma, che quel termine contiene, sarà allegata una dichiarazione integrativa, molto critica e argomentata, firmata dai contrari.

Al di là della battaglia su quel termine, che ha spaccato il summit, la dichiarazione finale scontenta un po’ tutti e dice poco su come governare l’emergenza e il futuro dell’economia agricola del pianeta. Ci si è arrivati con un lungo negoziato di tre settimane, una battaglia nelle ultime ore e un documento ridotto nei capitoli quanto nel succo politico. Nessuno ne esce vincitore e alla fine il summit, che rischiava di chiudersi con un nulla di fatto, riesce solo a raccogliere fondi per l’emergenza e affidare a una task force dell’Onu la gestione di un da farsi molto vago, che comunque non tocca i grandi nodi del business agroalimentare, della speculazione finanziaria, del dilemma degli agrocarburanti o di nuove forme di protezione delle reti contadine. L’unico risultato è che, pur tra mille difficoltà, del problema si è discusso in un forum multilaterale. Ma resta un futuro incerto per quel miliardo di persone che ha fame senza sapere a chi dare la colpa.

Come è cominciata la lunga maratona negoziale? Cosa l’ha bloccata tra richieste, veti, interrogativi? Inizia a maggio. I grandi nodi da slegare allora, e che solo in parte si erano sciolti alla vigilia del summit lunedì scorso, riguardavano diversi punti sul governo dell’economia della crisi e alcuni contenuti di natura eminentemente politica. Come quello sulla condanna dell’embargo e sul divieto di ricorrere a soluzioni unilaterali, con un riferimento evidente alla necessità di appellarsi sempre multilateralismo, volute soprattutto da Cuba e dal Venezuela. Proprio la questione di Cuba ha finito per compattare una sorta di fronte sudamericano, già irritato da alcune frasi del documento che in parte sono state emendate ma che ancora restavano, a poche ore dall’inizio vertice, patate bollenti. Nei giorni scorsi anche Tokio aveva battuto i pugni sul tavolo e gli statunitensi premevano per imporre una visione ben lontana da una mandato in bianco all’Onu.

Alla fine, racconta un funzionario che ha partecipato al negoziato, la Ue si è spazientita per i continui aggiustamenti imposti soprattutto da americani del Sud e del Nord (e questi ultimi sono riusciti a levare ogni riferimento possibile a un forte ruolo dell’Onu, che ne ridimensiona il protagonismo - a favore di consessi come il G8). I negoziatori europei avrebbero così imposto, alla vigilia dell’apertura del summit, di arrivare in fretta a un compromesso. Il testo di otto cartelle, faticosamente negoziato sino ad allora, è stato ridimensionato soprattutto con le forbici. E’ diventato di quattro, vergato in gran parte da tre estensori: un americano, un arabo e un africano. La versione ridotta, già dall’altro ieri sera, girava nelle mani dei giornalisti, filtrata ufficiosamente dal pool dei negoziatori.

La Ue a quel punto ha messo un out out a ormai poche ore dalla chiusura: o si accetta l’ultima versione o addio, ma il documento non si tocca. I negoziatori si son fatti forti di essere una voce che parla per 27 paesi (alcuni dei quali, come la Francia, disposti ad accantonare le polemiche sulla Pacs e la questione dei sussidi agricoli) e che l’Unione aveva già «ingoiato» una serie di misure imposte da altri attori: l’ostruzionismo dei latinoamericani, l’impuntatura dell’Avana, Baires e Caracas, i distinguo asiatici, le reprimende africane, i tagli statunitensi. Quel che è lecito supporre è che, mentre gli Stati Uniti si stavano costruendo un castelletto di alleanze con Canada, Australia e Nuova Zelanda, anche i sudamericani abbiano fatto quadrato e utilizzato la questione cubana come bandiera dietro la quale, nemmeno tanto nascoste, stanno altre questioni. Due in particolare. La riluttanza brasiliana ad accettare riferimenti al biofuel (nel paragrafo dedicato alla questione la Ue avrebbe sudato sette camice per introdurre il termine «sostenibile», un riferimento che non piace ai grandi produttori di agrocarburante). E soprattutto l’opposizione argentina a un sottocapitoletto che testualmente recita: «...riaffermare la necessità di minimizzare l’uso di misure restrittive che potrebbero aumentare la volatitlità dei prezzi internazionali». Frase che aveva suscitato l’ira di Buenos Aires, grande produttore (7 volte il fabbisogno nazionale) di derrate agricole, che si sentiva costretto ad accettare diktat esterni sulle politiche di esportazione di cereali.

Ma c’era altro. Sempre nello stesso capitolato, al punto precedente, la polemica si era accesa su un’apertura di credito all’agenda del Wto e che a molti era sembrata una forma di ricatto: chi non accetterà i suoi dettati - cioè una sottomissione alle regole del più forte - non riceverà aiuti. Punto voluto dalla Ue e poco amato dai latinoamericani, oltre che dal Forum parallelo.

E il fronte africano? Secondo i negoziatori, il continente non poteva aspettarsi molto dal documento se non il riconoscimento, ormai entrato nel sentire comune, che sono gli africani i primi recettori dell’aiuto. Ma nei corridoi della Fao qualcuno ci spiega che «non solo nel documento, ma nemmeno nei draft precedenti, si fa cenno a una commissione d’indagine scientifica sulla crisi alimentare, a partire dalle responsabilità, un po’ come è stato fatto sul clima», inutilmente chiesta dagli africani. Del resto, dicono i maligni, in questo scontro alla Fao, seppur sullo sfondo, c’è anche, pur se tra qualche anno, proprio un’uscita di scena dell’Africa. L’attuale direttore senegalese, Diouf, andrebbe via forse anche prima del tempo, spinto dalla Ue. E al suo posto forse andrà un uomo di Bruxelles, o del continente latinomaericano.

* Lettera 22