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Il no alla guerra va gridato o conquistato?

Publie le martedì 20 giugno 2006 par Open-Publishing

di Piero Sansonetti

Sulla prima parte dell’articolo di Cremaschi, c’è poco da discutere. Le cose stanno come dice lui. Il pacifismo del dopo ’89 è stato uno dei fenomeni politici più nuovi, forti e interessanti che hanno attraversato la scena politica internazionale in questi anni, e che hanno impedito a questa scena di chiudersi su se stessa, nel pensiero unico, nella fine della distinzione tra destra e sinistra, nel trionfo del potere assoluto dell’Occidente e del suo dollaro e del suo Dio.

Cremaschi ha ragione anche sulla questione Afghanistan. Non ha senso raccontare che l’Afghanistan è una situazione speciale, diversa dall’Iraq, e che l’occupazione militare di quel paese è motivata da ragioni etiche. Furio Colombo ha tentato l’altro giorno di sostenere questa tesi sull’Unità, in una lettera a Gino Strada, e lo ha fatto con generosità ma in modo assolutamente non convincente. Entrare nella logica della distinzione tra guerre giuste e ingiuste ci porta su posizioni di contrapposizione frontale al pacifismo, cioè sulle posizioni che spinsero l’Ulivo alla fine degli anni ’90 nell’avventura kossovara, lo portarono alla rottura con il pacifismo, e determinarono una rottura così grave, a sinistra, che probabilmente fu determinante nella sconfitta del 2001 e nella vittoria di Berlusconi.

Non mi convincono però le conclusioni di Cremaschi. A me sembrano un po’ burocratiche. Vedi, Giorgio, io non penso che il voto sul finanziamento alla missione in Afghanistan - che ci sarà tra una decina di giorni in Parlamento - sia una specie di banco di prova per Rifondazione, né che sia la forca caudina sotto la quale il Prc deve passare e farsi battere. Tu dici: davanti a voi c’è una sola scelta.

Io faccio due obiezioni. La prima è semplicissima: in politica non c’è mai una sola scelta. La politica non esisterebbe se non ci fosse sempre la possibilità di soppesare le scelte, graduarle, allargarle, farle contare. La seconda obiezione è sull’obiettivo che ci poniamo. Qual è? Fare l’esame del sangue a Rifondazione, misurare il suo grado di “alternativa”, oppure cercare di imporre finalmente all’Italia (sedici anni dopo la prima sciagurata guerra in Iraq) una politica pacifista, rispettosa della Costituzione violata tante volte, e quindi la rinegoziazione delle sue relazioni internazionali e la ridefinizione di tutta la politica estera? Non è un modo di sfuggire al problema: anzi è la domanda centrale, è il problema.

Io francamente spero che il centrosinistra alla fine voti contro il rifinanziamento della missione in Afghanistan, o comunque decida formalmente, nei tempi ragionevoli, il ritiro da quello scenario di guerra. Però mi rifiuto di considerare questo dibattito - e la lotta che è aperta attorno ad esso - una specie di disfida interna alla sinistra radicale, nella quale ciascuno mostri la purezza maggiore del suo spirito e della sua anima di pace. Capisci: sarebbe una sciocchezza. La posta di questa battaglia è molto più grande, riguarda il futuro del paese e può influire sulla politica estera di tutta l’Europa.

Allora, se andiamo al cuore della vicenda, vedo due questioni. La prima è la necessità di muoverci in tutte le forme possibili - il movimento pacifista su questo terreno deve farsi sentire - per dare battaglia dentro il centrosinistra, in modo che prevalgano le posizioni più avanzate (come sono prevalse per ottenere il ritiro dall’Iraq), e siano ridimensionate le spinte moderate e filoamericane. Questa operazione non avviene attraverso una delega e una sfida. Cioè non è un compito che spetta esclusivamente ai deputati e ai senatori di Rifondazione, con tutti gli altri che stanno a guardare, con l’aria di sfida...

La seconda questione, che tu evochi, difficilissima, è quella di Berlusconi. E qui si va oltre il problema Afghanistan e la politica estera. Si tocca un nodo, e cioè un dubbio che chiaramente aleggia su un pezzo della sinistra radicale italiana. Il dubbio che non si possa stare al governo. Perché? Perché si è convinti che la sinistra radicale debba essere una forza semplice e pura, che non possa accettare compromessi, e quindi che non sia adatta a una coalizione. E’ inutile dire che non è così, e girare attorno al problema. Il problema è esattamente questo. E chi pensa che la sinistra radicale debba essere sinistra radicale e basta - debba essere forza di interdizione e di lotta e non possa rischiare la sfida del governo - è anche disposto ad accettare il ritorno al potere di Berlusconi, perché pensa che comunque sarebbe un Berlusconi indebolito.

Io dubito che le cose stiano così. Io credo che per la sinistra ci sia uno spazio molto grande e che la sfida del governo vada accettata. Così come dubito che sia possibile pensare - sul versante opposto - a una sinistra radicale che entrata al governo si confonda con gli altri partiti della coalizione, e sacrifichi le sue idee e la sua identità sull’altare dell’unità. Penso che andare al governo voglia dire portare su un terreno nuovo - difficile ma straordinariamente avanzato - le proprie capacità di lotta e il patrimonio grandissimo delle proprie idee. Dentro la coalizione si combatte, cioè si fa politica: si vince e si perde, perché la politica è così. Con l’obiettivo non solo di restare se stessi, ma anche di cambiare gli alleati. In Italia non è mai esistito un governo influenzato dai pacifisti. E’ la prima volta che ne abbiamo l’occasione. Non possiamo sprecarla.

LIBERAZIONE 18.06.06