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Il paradosso dell’antipolitica di sinistra
Publie le domenica 11 marzo 2007 par Open-Publishing1 commento
Riflessioni (e dissenso)
su alcune idee di Marco Revelli
Il paradosso
dell’antipolitica
di sinistra
di Rina Gagliardi
Quando il manifesto (allora
partito politico in
formazione) decise di presentarsi
alle elezioni politiche
del 1972, scoppiai in un
pianto dirotto: mi pareva
che tutto, la politica, la rivoluzione,
fossero ormai finiti.
Immaginavo una pattuglia
di dieci, quindici deputati
pronti a svendere tutti i
miei ideali per un pugno di
banali mediazioni. Avevo
l’attenuante di avere meno
di venticinque anni, di essere
reduce fresca del ’68, e
di ritenere in conseguenza
che le istituzioni fossero
una cosa di “lor Signori”,
per loro natura un po’ sporche,
lontane e molto corrompenti.
Alla fine, come è
noto, in quelle elezioni il
manifesto non ottenne il
quorum – e la “purezza” così
preservata, con quei miseri
223.789 voti presi e nessun
seggio, fu un brusco risveglio.
Capii allora, credo,
che la questione del rapporto
tra politica e società
era tanto più complessa
delle mie lacrime infantili e
che ogni assolutismo “di
principio” risultava comunque
fuorviante. “L’apparir
del vero” di leopardiana
memoria non era l’avvio
del cretinismo parlamentare,
ma, crudamente, l’assenza
di consenso.
Questo brandello (un po’)
autobiografico mi è tornato
alla memoria nel fuoco del
dibattito di queste settimane.
Trentacinque anni dopo,
è vero, tutto è diverso,
quasi come in un altro paese
e in un altro pianeta. Eppure,
un filo sotterraneo
c’è, a legare i giovani astensionisti
degli anni ’70 a quei
pezzi di sinistra radicale e
di movimento che invocano
oggi un gesto di rottura.
Che identificano la salvezza
(possibile, nient’affatto
certa) in una sequenza di
“No” da pronunciare in parlamento
– oggi Afghanistan,
domani chissà. E che
concentrano la loro critica,
la loro delusione, la loro polemica,
sempre più veemente
e organica, addosso
ai partiti della sinistra radicale,
segnatamente addosso
a Rifondazione comunista.
Ma non sono soltanto i
contenuti e le singole scelte
che pesano, assunte ciascuna
come un Simbolo o una
bandiera da sventolare – c’è
qualcosa di più profondo,
che investe l’idea stessa di
politica. La politica tout
court. La legittimità e l’utilità
del “far politica”. Ieri,
me lo ricordo bene, era soprattutto
un umore extraistituzionale.
Oggi, esso assume
il volto dell’antipolitica.
Un’antipolitica di sinistra,
naturalmente, se questo
ossimoro davvero si dà
in natura.
****
L’ultimo articolo di Marco
Revelli (il manifesto del 6
marzo) sintetizza questi
umori e queste tentazioni
in termini quasi esemplari.
Conosco (e stimo) da molti
anni questo intellettuale rigoroso,
coerente, capace di
mettersi personalmente in
gioco e, oltre ad altri meriti,
immune dalle pratiche presenzialistico-
mediatiche
così care a molti “dissenzienti”.
Mi pare però che
nella sua ricerca, da tempo,
stiano prevalendo pulsioni
apocalittiche, oltre che un
cupo pessimismo sulla
possibilità, come si diceva
una volta, di “cambiare il
mondo”. L’antipolitica, perciò,
diventa per Revelli l’approdo
naturale del bilancio
catastrofico di “Oltre il Novecento”,
dove si dichiarava
chiusa (e conclusa, dopo le
tragedie del socialismo reale)
la pensabilità stessa dell’anticapitalismo,
di una
lotta di trasformazione capace
di proporsi il superamento
del modo di produzione
capitalistico. Oggi, la
riflessione di Revelli muove
da un bilancio radicalmente
critico sia dell’operato
del governo Prodi sia, conseguentemente,
del “non
operato” (o del cedimento)
del Prc. La conclusione è
che, perfino al di là delle
contingenti vicende di governo,
la vera novità di questa
fase è che si è chiusa
ogni possibilità di comunicazione
tra sfera della politica
e movimenti: esse sono
ormai abissalmente distanti
per natura ed orizzonti.
L’ultima eredità del ‘900, la
rappresentanza, si è insomma
consumata.
E dunque? Dunque, non resta
che la strada della estraneità,
della autonomia del
sociale – dell’esodo.
Revelli non si sofferma, più
di tanto, sulle conseguenze
da trarre da questa
analisi (scrive, anzi premette
di aver tirato anche lui un “sospiro
di sollievo” di fronte alla
ricomposizione della crisi)
ma esse sono implicite: se la
politica, qualsiasi politica in
quanto tale, è fatta di mediazioni
e compromessi, e se i
movimenti sono portatori di
valori “non negoziabili” e di
obiettivi non mediabili - tutti
e sempre “senza se e senza
ma” - è evidente che tra le due
dimensioni è calata una
Grande Muraglia. Sulla Pace -
per esempio - non si danno
percorsi, possibilità di avanzamento,
soluzioni parziali: o
si dà, o non si dà. Ora, questa
impostazione può apparire
“radicale”, o “rivoluzionaria” o
“antiriformista”: a me pare,
piuttosto un’impostazione di
tipo religioso. Un assolutismo
forse laico nei suoi contenuti,
ma non poi così diverso, nell’ispirazione,
da quello che
muove i teodem o i cattolici
ruiniani - anch’essi, del resto,
parlano della Famiglia e della
Vita come valori “indisponibili”,
non consegnabili alla
politica. Un intransigentismo
che non solo rischia l’indifferenza
ai risultati, ai mutamenti,
agli spostamenti di potere
(un “lusso” che le larghe masse
non si possono consentire),
ma che mette in causa l’idea
stessa di aggregazione e di efficacia
dell’azione, anche nei
movimenti. Alla fine, chi è il
soggetto portatore di “valori
non negoziabili” se non il singolo
individuo? E come si può
ragionare della soggettività
dei movimenti o di analoghi
soggetti della società civile
espungendo da essi (come fa
Revelli) la mediazione interna,
le norme di funzionamento,
i rapporti, la rappresentanza?
Non è vero che soltanto la
politica, o i partiti, o i grandi
apparati sindacali, vivono di
mediazioni: ogni azione collettiva,
se tale vuole essere e
come tale vuole operare, non
può che trascendere gli assolutismi,
gli individui, gli assolutismi
individuali. Questo mi
pare sia successo, precisamente,
nella fase alta del movimento
no global e dei forum
mondiali - che non per caso,
fino a Firenze, hanno dedicato
ai temi della democrazia interna,
della rappresentanza e
delle “procedure” lunghissime
ore di discussione e di
confronto. Questo, purtroppo,
non succede in questa fase,
caratterizzata dalla frammentazione
e dalla disunione:
per cui quasi chiunque è
legittimato ad alzarsi e parlare
“nel nome” del movimento.
Legittimato da chi? Dalla propria
fede personale, dall’autorità
di un condottiero o di un
capo, dalla “rappresentazione”
arbitraria di quella che si
ritiene essere la “volontà generale”
di un territorio o di
una generazione o di un’area
culturale? Curioso che un intellettuale
sensibile come
Marco Revelli non si accorga
che oggi, proprio nel rapporto
tra politica e movimenti si
pongano questioni un po’ più
complesse della “storica frattura”
che egli denuncia.
***
Anche la questione dei partiti
si colloca nello stesso ambito
tematico: che è poi, in senso
ampio, la crisi della democrazia.
Per Revelli i partiti sono
luoghi morti, apparati burocratici
(a cominciare dal Prc)
dediti allo sport dell’“epurazione”,
“divinità esigenti” e affamate
di sacrifici umani. Che
strana descrizione per entità
che sono, invece, sostanzialmente
deboli (altro che moloc),
mentre l’individualismo
(quello che trentacinque anni
fa avrei definito come l’“individualismo
borghese”) è in
pieno trionfo, grazie anche alla
spettacolarizzazione mediatica:
una singola persona,
purché collocata nel contesto
giusto (istituzionale) e dotata
delle relazioni giuste, “vale” ,
decide, determina molto di
più del lavoro gratuito, della
fatica e del dono offerti da migliaia
di altre persone, che
hanno il solo torto di essere
“consenzienti”. Strano che
questa assimmetria di potere,
e dell’uso del potere, sfugga
alla sensibilità democratica di
Marco, che so essere molto alta.
Curiosa la sua definizione
di “mandato elettorale”, proprio
come se non sapesse che
di “mandato di coalizione”,
per governare dentro un’alleanza
zeppa di centristi e
moderati, si trattava, dato lo
(sciagurato) sistema bipolare
e maggioritario vigente. Ma,
per tornare al problema dei
“dissenzienti” e della “coscienza”
(altro concetto, se assolutizzato,
più religioso che
laico), eviterei di scomodare
grandi principi e grandi teorie
politiche. Per capire che cosa
è successo, è la pratica musicale
ad offrirci un’indicazione
preziosa: prendiamo un coro,
formato da cantori liberamente
associati, che deve esibirsi
in uno spettacolo importante.
Esso discute a lungo
che cosa cantare e, alla fine,
non senza contestazioni interne,
sceglie il coro del Nabucco
verdiano, il classico “Va
Pensiero”. Ecco, se durante
l’esibizione, uno o due membri
del coro si mettono ad intonare
un’altra cosa - un bellissimo
blues, tipo “The House
of rising Sun” - il coro verdiano
non riesce ad andare
avanti. Non è solo cacofonia, è
proprio che il coro si blocca.
Ne consegue che il cantore di
blues viene invitato ad andare
a cantare altrove, viene, in sintesi,
“allontanato”. Non è piacevole,
per nessuno, anzi, è
doloroso - quel coro aveva
un’armonia d’insieme, un
equilibrio di voci, un’agogia
che adesso non ci sono più.
Ma il diritto di quel coro a cantare
il “Va Pensiero” valeva
qualcosa o no?
***
Naturalmente, la crisi della
politica c’è - e come. Così come
è evidente la crisi della
rappresentanza - che il maggioritario
contribuisce per altro
ad acuire ma che non nasce
dai sistemi elettorali, ma
dalla fine dei partiti di massa,
dalla disgregazione sociale,
dalle tendenze a-democratiche
e autoritarie dell’establishment,
dal dominio della televisione,
e da mille altri fattori
che qui non possiamo analizzare.
In questo senso, la
rifondazione - radicale - della
politica è uno dei compiti ineludibili
di questa fase storica,
e anche una delle ragioni
principali che giustificano la
presenza in una coalizione di
governo della sinistra radicale.
Invece l’antipolitica - la fuga
dalla politica - mi pare assecondare,
sia pure da sinistra,
quel processo di “americanizzazione”
della nostra società
(del rapporto tra politica e società)
già ampiamente in atto,
che alle classi dirigenti viene
in insperato soccorso: una
sfera istituzionale del tutto separata
non dalla società, ma
dalle classi subalterne, nella
quale la sinistra non può avere
rappresentanza alcuna; una
società dove miriadi di movimenti,
o di associazioni, o di
aggregazioni temporanee, sono
capaci di promuovere conflitti,
che la politica non la incontreranno
mai. Una politica
che consta di un solo partito,
sia pure diviso in due formazioni
storiche, e che, come
tutti i poteri che contano, è gestita
in proprio dai poteri forti
– anzi, dai ricchi. Non è sempre
stata questa, del resto, l’aspirazione
recondita del capitalismo?
Tutto ciò che a noi
oggi può apparire scontato -
come il suffragio universale, la
democrazia rappresentativa,
lo Stato sociale, la scuola pubblica
– è il frutto di lotte epocali,
non è mai stato gentilmente
“concesso”, octroyee. La politica,
il “far politica” non serve,
più di tanto, alle classi dirigenti,
che anzi la vivono come un
impiccio, un ingombro, una
concessione forzata alla modernità.
I modelli ideali di
Montezemolo e del cardinal
Ruini (o del suo fresco successore)
non prevedono la politica
o la partecipazione politica,
ma le obbedienze che la
società dovrebbe riservare alla
logica dell’azienda o ai dettami
della Chiesa cattolica. Gli
omosessuali di regime, come
Franco Zeffirelli, non hanno
bisogno dei Pacs o dei Dico.
Alla fin fine, può darsi, sì, che
la politica abbia toccato limiti
così profondi da risultare
“non riformabile” e che l’Apocalisse
revelliana ne esca confermata.
Vorrei sommessamente
sapere chi, in questo
caso, potrà dire di aver vinto.
http://www.liberazione.it/giornale/070310/default.asp
Messaggi
1. Il paradosso dell’antipolitica di sinistra, 12 marzo 2007, 11:44
A me non piace tutto questo bla-bla sull’antipolitica e sulla crisi della rappresentanza !! La sinistra continua a parlarsi addosso affrontando tematiche stantie e datate !! Il problema secondo me non è la crisi della politica "tout court", ma quello della crisi di identità della sinistra e dei suoi strumenti di esercizio della politica !! Un tempo si faceva politica quasi esclusivamente con i comizi, i manifesti, il volantinaggio e l’attività di sezione. Oggi tutte queste forme sono talmente obsolete, che i più giovani nemmeno se ne ricordano e le considerano appartenenti alla preistoria della politica. Oggi le classi dominanti cercano in tutti i modi di impedire ogni forma di partecipazione e di controllo dal basso, operando però in maniera subdola attraverso l’omologazione culturale e la manipolazione del consenso attuata attraverso i mass media e l’industria dell’intrattenimento e convogliando l’agire sociale su falsi miti, pseudo-valori e su nuove e mistificanti ritualità .Oggi lo scenario è molto più complesso e presuppone da parte della sinistra una presa di coscienza politica che sia in grado non solo di percepire gli eventi e di afferrarne il loro significato, ma di riuscire ad utilizzare con efficacia le stesse armi utilizzate con successo per contrastare la sua azione.
MaxVinella