Home > Il partito della borghesia e la sinistra
di Rina Gagliardi
Non era mai successo che un accordo programmatico, frutto di un lungo lavoro di confronto e di mediazione, venisse messo in causa a nemmeno tre giorni dalla sua formale approvazione. Eppure, è successo. Sulla Tav - vicenda emblematica delle lotte di autunno - i leaders più importanti dell’Unione ci spiegano che sì, che essa andrà fatta «comunque», che essa è prevista a prescindere, che essa anzi è dirimente per lo sviluppo dell’Italia e dell’Europa, ancorchè nelle 280 pagine di accordo non ve ne sia traccia. Una logica «ferrea», non c’è che dire.
Un comportamento, all’apparenza, nemmeno così facilmente spiegabile: se è vero, come ci pare vero, che contro il «grande buco» nella val di Susa si sono schierati non quattro ragazzini esagitati, ma una comunità intera, un popolo, i suoi amministratori, la sua coscienza civica. Migliaia e migliaia di elettori potenziali dell’Unione, che ora già si sentono sull’orlo della disillusione e del disincanto. Perchè, allora, tutto questo accanimento quasi fanatico, tutta questa passionalità, quasi come se sulla Tav si giocasse davvero il destino del Paese? E perchè su una scelta democratica - ineccepibile - di una Regione, contro la centrale a carbone di Civitavecchia, il presidente della Fiat, Luca di Montezemolo, s’infuria, come se Piero Marrazzo fosse Lenin redivivo, e arriva a minacciare, come se toccasse a lui (e a loro) decidere la politica energetica dell’Italia?
Il fatto è che sulla Tav si va giocando una partita di grande importanza: uno scontro, prima di tutto, dove sono in palio interessi economici rilevantissimi. Non occorre esser marxisti per accorgersene e per ammetterlo - basta il buon senso del quale ogni «comune cittadino» è spesso provvisto. Quasi tutte le “grandi opere” celano, del resto, questo segreto (giust’appunto di Pulcinella): sono, per lo più, progetti inutili ed anzi dannosi per l’ambiente e lo stesso benessere delle popolazioni, concepiti in nome di uno «sviluppo» d’antan (quando “Grande” sembrava far rima con “Buono”) e ritagliati su misura di interessi più o meno forti, sempre e comunque parziali - parzialissimi.
Ecco, sono proprio questi interessi, oggi, a sentire minacciato non solo il “business” della Torino-Lione, ma l’insieme dei loro interessi futuri: quelli materiali come quelli simbolici e ideologici. Il “Corriere della sera”, che pure è un giornale per lo più moderato, nel senso di equilibrato, su questa faccenda perde anch’esso il lume della ragione e porta avanti una campagna quasi isterica contro il così detto «partito dei No» - e perfino Sergio Romano, ieri, ha perso il suo abituale aplomb.
Ciò che dà il senso di uno scontro politico vero, duro, senza sconti. Non tra Prodi e Bertinotti, non tra Fassino e Pecoraro, non tra Rutelli e Rifondazione comunista, ma tra il “partito della borghesia” in formazione e la sinistra, che per fortuna, questa volta, ha confini più larghi di quelli definiti da un solo partito.
In questo scontro, si decide e si deciderà la fisionomia concreta del governo Prodi: se e fino a che punto esso sarà un governo riformatore, in sintonia con le speranze e le attese delle larghe masse (la maggioranza dell’elettorato dell’Unione), che vogliono un mutamento di fondo dell’Italia; o se e fino a che punto esso sarà egemonizzato dal «riformismo» neocentrista, da quel patto in fieri che raccoglie potentati economici, potentati spirituali, forze politiche moderate e punta a battere Berlusconi ma non il berlusconismo. Del resto, quando Francesco Rutelli, in visita a Gerusalemme, esprime il suo incontenibile entusiasmo per Kadima e lo lega esplicitamente al progetto di Partito democratico, che cosa evoca se non un roseo (per lui) futuro centrista, bipartizan, moderato? Quello stesso disegnato dallo scambio di bigliettini Veltroni-Casini.
Vedete bene che (lo diciamo sommessamente a tutti gli amici e compagni delusi o «malpancisti», che forse non hanno ben capito), a questo schieramento così detto “trasversale”, il programma approvato dall’Unione suona come una bestemmia: proprio perchè reca un segno chiaro di sinistra, proprio perchè contiene i presupposti di una svolta riformatrice. Se non fosse un po’ retorico, diremmo proprio, con il grande poeta turco Nazim Hikmet: «hanno paura».
Paura di perdere la battaglia dell’egemonia, paura che questi anni di lotta, alla fin fine, qualcosa contino, non solo sulle questioni concrete, ma sulla direzione di marcia che il prossimo Governo prenderà - non solo nei suoi primi cento giorni. Perché, se no, se la prendono con tanto fervore con Rifondazione comunista? Perchè hanno bisogno di concentrare la loro campagna su un capro espiatorio privilegiato, su una’“eccezione” che viene rappresentata in termini sovradimensionati e caricaturali: per insinuare che, sgombrato il campo da questo “fastidio”, l’Unione potrebbe felicemente drizzare il suo asse verso un equilibrio ragionevole.
Nessun mezzo viene risparmiato, per questo non nobile obiettivo: se la linea del Prc, le sue pratiche politiche e le dichiarazioni del suo segretario sono inattaccabili, il bersaglio diventa mobile e il tiro a segno si sposta. Qualsiasi sbavatura, qualsiasi candidato, per quanto indipendente e autonomo sia, qualsiasi minoranza interna, in cerca di effimera gloria mediatica, vanno bene, e vengono sovraccaricati di senso e di peso. Capita così che un giornale garantista, come il “Corriere”, diretto da un grande giornalista garantista, costruisce ogni giorno un vero e proprio teorema: un “filo rosso” unico, che, tramite Rifondazione, va dal «popolo dei No» alle minoranze violente del movimento, da inaccettabili posizioni contro l’esistenza dello Stato di Israele arriva dritto fino alle scelte programmatiche dell’Unione.
Un’operazione così scoperta che, anch’essa, tradisce soprattutto la preoccupazione che l’ha ispirata. E la disonestà intellettuale che muove analisti e commentatori «indipendenti» a dipingere la popolazione della val di Susa come un branco di selvaggi, più o meno, insensibili al progresso, in preda all’egoismo corporativo o alla «sindrome del Nymby». Cari signori, ma il popolo dei No non esiste. Esiste invece, diffuso in Italia, un grande popolo dei Sì: tutti coloro che vogliono uno sviluppo e, perchè no, un progresso diverso dal vostro. Dovreste esser contenti che ci sia una forza politica che non rinuncerà mai a cercare di dargli voce e rappresentanza politica.