Home > Il prezzo dell’occupazione
de Farid Adly
La questione delle terre e delle risorse idriche è fondamentale per la fine della guerra e la futura
convivenza tra il popolo palestinese e quello israeliano.
Tutti i piani di pace finora proposti per la fine del conflitto israelo-palestinese hanno sempre fatto
proprio lo slogan “La pace in cambio della terra”. La propaganda israeliana ha continuato a riempirsi
la bocca del termine pace, ma Israele non ha mai voluto mollare la terra. Anzi, ha sempre utilizzato
tutti i pretesti per evitare ogni vero ritiro dalle terre agricole conquistate con la forza delle
armi e in questo compito è stata aiutata dal massimalismo degli estremisti palestinesi con le loro
odiose bombe umane che hanno seminato morte tra gli innocenti. Così, il dibattito internazionale si
è spostato dalla questione territoriale alla lotta contro il terrorismo. La causa palestinese, le terre
colonizzate e le risorse idriche rubate dagli insediamenti israeliani ai villaggi palestinesi e le terre
agricole fagocitate dal muro della vergogna sono passate in secondo piano.
La questione delle terre palestinesi rubate in mille modi è così centrale nella politica israeliana al
punto che quando un primo ministro italiano, Massimo D’Alema, dopo una sua visita in Palestina e
Israele ha dichiarato che senza il ritiro dai territori occupati non ci sarebbe alcuna possibilità per la
nascita di uno Stato palestinese e quindi non ci sarebbero le condizioni per una vera pace, è stato
preso di mira dalla propaganda della forte lobby filo israeliana in Italia. Prima delle ultime elezioni
politiche, esponenti di primo piano di questa lobby hanno contestato le aspirazioni di D’Alema a
diventare Ministro degli Esteri, adducendo il fatto che sarebbe stato sgradito al governo di Tel Aviv.
Non devono assolutamente ingannare su questo punto della centralità dell’occupazione del territorio
i piani israeliani di ritiro unilaterale e parziale da Gaza o l’annunciato, e poi ritirato, piano di ritiro
unilaterale dalla Cisgiordania (West Bank) di Olmert. La prima settimana di settembre 2006, il
premier israeliano ha annunciato che di quel piano non si farà nulla e, come in un teatro dell’assurdo,
Olmert ha scoperto le sue carte e dichiarato, senza il minimo imbarazzo, che il piano di ritiro
parziale dalla West Bank ("convergence plan") è in realtà inattuabile e va abbandonato, anzi vanno
potenziati gli insediamenti dei coloni.
Questa politica dell’insediamento della popolazione israeliana nelle città (Gerusalemme e Al Khalil
– Hebron) e nelle terre dei villaggi palestinesi è stata una costante della politica coloniale israeliana
dalla nascita di Israele (1948) fino ad ora, quali che fossero i governi in carica, laburisti o della destra
più intransigente. La colonizzazione dei Territori palestinesi non era una necessità storica. Nel
1967 “colombe” come il ministro laburista Pinchas Sapir si opponevano, ma in definitiva prevalse la
linea del ministro della difesa Moshe Dayan. Furono i laburisti a gettare le basi degli insediamenti,
che poi il Likud di Menachem Begin avrebbe esteso e moltiplicato.
Questa politica ha avuto un costo enorme per il popolo palestinese, per la prospettiva della pace
nella regione ma anche per la stessa politica sociale israeliana. Le colonie in effetti costano molto,
non soltanto per la loro costruzione ma anche per il loro mantenimento e per le sovvenzioni e gli
incentivi ai nuovi coloni. Il ricercatore Shlomo Swirski ha studiato a fondo il fenomeno e ha pubblicato
un libro molto interessante sul costo delle colonie.
I bilanci militari israeliani, nota Swirski, non vengono pubblicati e nemmeno i deputati (con
l’eccezione di pochi membri della Commissione parlamentare per gli affari esteri e la difesa) possono
dire con certezza quale parte sia destinata ai Territori. Addentrandosi nei meandri dei finanziamenti
governativi, Swirski è comunque riuscito a estrapolare un dato che finora non era mai stato
pubblicato. Un dato parziale, ma significativo: fra il 1967 e il 2005 gli incrementi annuali al bilancio
della difesa, giustificati genericamente con "eventi nei Territori", sono ammontati a 29 miliardi di
shekel, ossia 6,5 miliardi di dollari.
Nel libro “Il prezzo dell’occupazione” (www.adva.org), Swirski stima che negli anni dal 1967 al
2003 i finanziamenti governativi agli insediamenti siano stati di 45 miliardi di shekel, 10 miliardi di dollari. I costi del muro della vergogna (gli israeliani lo chiamano la barriera della separazione) sarebbero
stati più contenuti (800 milioni di dollari) se fosse stato realizzato lungo la linea di demarcazione
con la Cisgiordania in vigore negli anni 1949-67. Ma il suo inventore e realizzatore - l’ex
premier Sharon - optò per un tracciato più complesso, per includere vaste zone palestinesi di insediamenti
ebraici. "Così i costi sono raddoppiati" scrive Swirski. Per gli anni fiscali 2003-2005 il governo
ha già stanziato 3,5 miliardi di shekel.
Come scrive giustamente il ricercatore palestinese Marwan Bishara: “Benché siano illegali, le colonie
si sono allargate continuamente, compromettendo qualsiasi tentativo di costruire uno Stato
palestinese. Trent’anni di obiezioni americane e europee non hanno cambiato nulla”. Molti politici
israeliani hanno fatto la loro fortuna politica con i programmi di colonizzazione delle terre palestinesi.
Nel 1977, allorché era anche presidente del Comitato ministeriale per le colonie, l’allora ministro
Sharon era stato supervisore delle nuove colonie formatesi a Gaza e in Cisgiordania. Prevedeva
di installarvi due milioni di ebrei e, fino all’ultimo, non si era spostato di un millimetro: Israele -
secondo lui - aveva il «diritto morale» di modificare la demografia di quei territori.
Dopo le elezioni vittoriose del febbraio 2001, Sharon aveva fatto costruire trentacinque nuovi avamposti
di colonie. Nella seconda metà degli anni ’70, nella fase di transizione dal governo laburista
a quello del Likud, Sharon era emerso come il leader in grado di realizzare il sogno di una
«grande Israele» che andasse al di là delle frontiere internazionalmente riconosciute. Incoraggiando
gli israeliani a insediarsi «ovunque» nei territori occupati, Shimon Peres ha sostenuto Sharon
nell’attuare il programma del potente movimento bipartisan (Likud/laburisti), favorevole ad una
«grande Israele» che si estenda dalle rive del Giordano alle sponde del Mediterraneo.
Trenta anni dopo l’attuazione del piano di Sharon, il numero dei coloni nei territori occupati è passato
da 7.000 nel 1977 ad oltre 200.000 nel 2002, a cui vanno aggiunti altri 200.000 che vivono a
Gerusalemme est. Le loro 200 colonie occupano l’1,7% del territorio della Cisgiordania, ma ne
controllano il 41,9%. Alcuni di loro sono pericolosi fanatici armati, con licenza di uccidere da parte
dell’esercito israeliano. Nel corso degli anni, gli squadroni della morte dei coloni hanno ucciso civili
non armati, hanno lanciato attacchi terroristici contro funzionari eletti, e hanno torturato e ucciso
numerosi palestinesi. Ma tutto ciò per la stampa internazionale non è mai stato terrorismo.
In un documento redatto nel 2002 da parte di un gruppo di ricerca formato da studiosi palestinesi e
israeliani contrari all’occupazione si denuncia il carattere strategico degli insediamenti israeliani:
“Molte colonie sono state costruite a ridosso di città e villaggi palestinesi, pregiudicando così lo sviluppo
urbanistico di questi ultimi. In alcuni casi, le colonie sono state progettate deliberatamente
per impedire l’espansione naturale degli abitati palestinesi. Gli israeliani hanno usato la loro legislazione
militare per restringere lo sviluppo fisico degli abitati palestinesi e per intervenire sui piani
urbanistici a favore dei coloni israeliani e a danno dei palestinesi, provocando tra i palestinesi un’emergenza
di alloggi e il sovraffollamento abitativo.
L’appropriazione di terreni agricoli e per la pastorizia a beneficio dei coloni e per la costruzione di
strade ha contribuito a distruggere la vita economica. Quasi tutte le colonie insediate lungo la regione
collinosa centrale, sono state collocate vicino alla Strada n° 60, l’arteria nord-sud principale
della West Bank, creando seri ostacoli alla libertà di movimento dei palestinesi, anche se l’articolo
12 della Convenzione Internazionale dei Diritti Civili e Politici prevede per ogni persona il “diritto
alla libertà di movimento, senza restrizioni, nella sua patria”.
Un altro Piano, quello redatto dal capo dell’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO) e capo del
Reparto per le Colonie, Matitiyahu Drobless, è servito da documento-guida per i governi del Likud.
Questo piano spiega come "la presenza di civili sotto forma di colonie ebree è di importanza vitale
per la sicurezza dello stato ... Non vi dev’essere il minimo dubbio circa la nostra intenzione di occupare
per sempre aeree della Giudea e della Samaria ... Il modo migliore e più efficace per rimuovere
qualsiasi traccia di dubbio circa le nostre intenzioni di tenerci Giudea e Samaria per sempre,
è una rapida espansione delle colonie in queste aree".
Questi progetti erano completamente in linea con quelli del gruppo estremista Gush Emunim.
Membri e sostenitori di Gush Emunim arrivavano in gran numero a popolare le nuove colonie, insediate
sotto il governo Likud, mentre il governo faceva il tentativo di attrarre israeliani di estrazione
laica verso queste colonie. A tale scopo, offriva consistenti sussidi per permettere ai nuovi coloni
abitazioni di buon livello ed elargiva copiose sovvenzioni alle Autorità Municipali e alle Giunte
Comunali per permettere loro di offrire servizi pubblici, scuole e assistenza sociale migliori rispetto
a quanto offerto in Israele al di qua della Linea Verde. In effetti, la West Bank doveva offrire uno
standard di vita migliore e case migliori, e tutto ubicato a distanze praticabili dalle principali città e
dai centri della costa mediterranea.
Dopo l’accordo di Oslo (1993), Israele ha triplicato il numero dei coloni e raddoppiato quello degli
insediamenti, collegandoli fra loro con una serie di strade di raccordo e di zone industriali e assicurandosi
il controllo dei territori palestinesi. In qualità di ministro delle infrastrutture nel governo di
Benyamin Netanyahu, Sharon concentrò nei territori occupati i programmi di investimento di Israele.
I governi di Rabin e Barak non sono stati da meno. In realtà, la massima proliferazione di insediamenti
si è verificata proprio durante il governo di Barak con la supervisione di Yitzhak Levy, all’epoca
ministro delle colonie. Quando giunse il momento di fare ordine in questo caos, al vertice di
Camp David nel luglio 2000, i negoziati segnarono il passo, e poi fallirono per l’insistenza da parte
israeliana a conservare le colonie e il 9% della Cisgiordania.
In quell’occasione, si chiese ai palestinesi di firmare un accordo finale imperniato sulla promessa di
un quasi-stato diviso in quattro regioni separate, accerchiate da blocchi di colonie. In pratica, il
mantenimento delle colonie ha sabotato il tentativo di porre fine all’occupazione e ha compromesso
il processo di pace. Dopo l’insuccesso del vertice di Camp David e lo scoppio della seconda
Intifada, il rapporto della Commissione internazionale guidata dal senatore americano George Mitchell
sottolineò il fatto che la politica degli insediamenti ebraici non poteva procedere contemporaneamente
al processo di pace. La Commissione raccomandò il congelamento delle colonie israeliane
come condizione per far cessare il violento conflitto in atto e per riprendere le trattative di pace.
Per tutta risposta, il governo Sharon decise di stanziare altri quattrocento milioni di dollari per le
colonie.
In un documentato dossier, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, Betselem, conclude: “... il
governo di Israele ha infranto ripetutamente la legge internazionale riguardante l’occupazione militare
di territori altrui, ha negato ai palestinesi i diritti umani fondamentali e ha messo in atto un sistema
di discriminazione basato sulla religione e sulle origini nazionali delle persone”.
Alla questione delle colonie si aggiunge la costruzione del muro della vergogna e l’annessione di
Gerusalemme. La costruzione del muro attorno a Gerusalemme est è ancora più devastante per le
aspirazioni a uno stato palestinese. Mentre al nord il muro non si spinge mai più di otto chilometri
all’interno delle terre palestinesi, a Gerusalemme penetra molto più in profondità. Questa inclusione
della Grande Gerusalemme nello stato ebraico pone numerosi e gravi problemi, perché porta a
incorporare un gran numero di palestinesi, sottolineando una volta di più le contraddizioni esistenti
tra gli imperativi demografici e quelli della sicurezza, ripetutamente avanzati dai governi israeliani.
Per risolvere tale problema, Israele intende costruire due muri intorno a Gerusalemme: il primo costituisce
una separazione interna, costruita essenzialmente attorno alle frontiere municipali definite
da Israele. Il secondo costituirà una separazione esterna, attorno a blocchi di colonie. A differenza
delle fortezze medioevali, questi muri di Gerusalemme saranno costituiti da una barriera elettrificata,
una strada di aggiramento e, in alcuni luoghi, da trincee, pareti di cemento armato e apparecchi
rilevatori di movimento. Una volta completato il muro, dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme,
lo stato ebraico si sarà annesso il 7% del West Bank, tra cui 39 colonie israeliane e circa 290.000
palestinesi, 70.000 dei quali non hanno ufficialmente diritto di residenza in Israele e pertanto non
hanno diritto di viaggiare o di beneficiare dei servizi sociali israeliani. Questi 70.000 palestinesi vivono
in una situazione di estrema vulnerabilità e probabilmente saranno costretti a emigrare. Se il
muro verso sud si spingerà fino a Hebron, si ritiene che Israele si sarà annessa un altro 3% della
Cisgiordania.
Queste cifre e questi programmi israeliani chiariscono molto bene l’atteggiamento cinico e ipocrita
delle potenze occidentali che, invece di affrontare il tema centrale delle terre, condizione necessaria
per la formazione di uno Stato indipendente e sovrano, continuano a ripetere parole d’ordine e
slogan vuoti che non porteranno alla pace ma al perpetuarsi del conflitto. Dopo l’aggressione israeliana
contro il Libano, è ora di affrontare la questione di quale terra per i palestinesi.
lavori in corso n°44