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Il pride afro di Brooklyn
di Tiziana Rinaldi Castro, Scrittrice, vive a Brooklyn
La straordinaria mobilitazione nel pezzo d’Africa più grande degli States, le file dei neri per votare, la voglia di rivincita di chi non ha mai avuto voce, gli spiritual e la colonna sonora di Sam Cooke. E le cronache enfatiche dei mezzi di comunicazione. Il racconto di una due giorni che entrerà nella storia degli States. E non solo
A Brooklyn, su Decatur street, da una finestra aperta su questo mite giorno di novembre, suona A change is gonna come di Sam Cooke. Ha cominciato alle cinque, subito dopo che dalla moschea il muezzin ha cantato l’invito alla preghiera del mattino. L’emozione è immediata: «Ci sarà un cambiamento». Non tornerò a dormire. Sveglio mio marito: «Bisogna battere la folla, andiamo ora» e siamo subito pronti. Ieri sera, commosso, mi ha confidato: «Non avrei mai creduto di vedere questo giorno. I miei figli forse, ma non io». Ed ha alzato il bicchiere alla foto di sua madre, che dalle campagne dell’Ohio arrivò ad Harlem negli anni ’50 per cercarsi una vita migliore, e alla foto di sua nonna cresciuta in quelle campagne da sua madre che, bambina, ci arrivò a piedi dalla piantagione dov’era stata schiava, quando la libertà - sconosciuta e difficile - finalmente arrivò. Ma di lei non c’è una foto.
«JT, vengo con te». Annuisce. Non posso votare, la mia cittadinanza non è arrivata in tempo, ma posso aspettare in fila con gli altri, posso sperare. Quest’America è anche mia, lo è stata sempre, dal momento in cui posai gli occhi sull’Hudson 25 anni fa e giurai di tornarci a vivere. E oggi, io posso e devo credere che quest’America amata darà una corale testimonianza che «sì, possiamo». Bed Stuy, il nostro quartiere, brulica di gente. È un quartiere nero: ospita afro americani, caraibici, e la più grande comunità di Africani fuori dell’Africa.
C’è un’aria nervosa, di chi si prepara alla festa: siamo arrivati fin qui, possibile? Arriviamo alle urne: la fila, alle sei e mezzo del mattino, è impressionante: per lo più lavoratori che vogliono togliersi subito il pensiero e vecchi in pensione, mattinieri comunque e, per la prima volta nella loro vita, con questo compito da svolgere - impensabile fino all’anno scorso - per la prima volta protagonisti della loro città, del loro paese, della loro storia: nel bene e nel male straordinaria. «Hey, ce l’abbiamo fatta, baby» «il mattino ha l’oro in bocca, baby» «non si sa mai, dovessero esserci dei problemi con le urne, baby». Fa parte dello slang qui a Brooklyn, chiamarsi baby fra uomini. Non abbiamo neppure paura di commuoverci da queste parti, o di alzare la voce per strada, o di farci la corte cantando. Tengo stretta la mano di mio marito, sussurro: «Non vorrei essere in nessun altro posto al mondo, JT». Qualcuno ricorda di quando non si poteva votare, «eh, che fortuna essere ancora in vita, solo per vedere questo, baby», ribatte una donna molta anziana, «ora me ne posso andare tranquilla».
JT se lo ricorda: «La legge passò nel 1965, avevo 11 anni». L’anno che son nata io.
Di ritorno a casa, Sam Cooke ancora canta e canterà per ore.
In trepidazione cerco di far passare la giornata: incapace di concentrarmi sul mio lavoro, finalmente cedo e me ne vado in giro per il quartiere, faccio la ronda: l’emporio dei marocchini, quello degli yemeniti, il pizzaiolo dell’Egitto, il corniciaio, di qui, il ristorante vegano dei giamaicani, quello di soul food accanto, del sud, l’erboristeria africana, la «botanica», la ferramenta di Trinidad. Entro e scambio una parola con tutti, compero un caffè, una frittella di pesce, un olio per capelli, un pacchetto di chiodi. «Nervosa, baby?» «eh sì, un bel po’», «non ti preoccupare, vinceremo, Dio è con noi».
Sono le 7 di sera: le mie figlie - le due di sangue e l’una d’affetto - vengono in cucina a farmi il bollettino: «Mamma, abbiamo il Vermont», «l’Alabama è nostra, l’Ohio è di Obama». L’Ohio? Proprio l’Ohio che tanto ci tenne sulle spine nelle ultime elezioni? L’Ohio degli antenati della mia amata figliastra, l’Ohio di una classe operaia annichilita, l’Ohio della miseria, fantasma di se stesso dopo Reagan, Bush, il liberismo che non ha solo messo in ginocchio il terzo mondo ma ha spezzato anche la spina dorsale dell’America. Questa è la mia America, che cambia, si rivolta, e come scriveva il poeta greco Kriton «mugghia l’imprigionato no dell’uomo libero». E si rimette in piedi, perché «sì, possiamo».
I pronostici danno favorito Obama da settimane ma c’è sempre la paura che demoni ben vestiti appaiano e ci tolgano quel che è nostro, come hanno fatto sempre, che non importa quale sia la voce del popolo, troveranno un modo di farci tacere. Come successe con Al Gore e la Florida, e come ogni giorno succede nel mio quartiere e nei quartieri come questo disseminati in tutta l’America, dove uno si sforza di vivere la propria vita ma non gli è permesso.
Ma stasera cadono le barriere come birilli, uno stato dopo l’altro. «JT, ti ricordi, il muro di Berlino, Nelson Mandela?». Annuisce. Usciamo di nuovo. La grande chiesa battista all’angolo è gremita di persone. Sono tutti vestiti a festa, con l’abito della domenica, incollati di fronte allo schermo di un enorme televisore che non funziona bene. Ci fanno cenno di entrare, venite, venite pure. C’è cibo, ci sono i bambini, ci sono i vecchi. E c’è il pastore che parla da un microfono e dice le cose che tutti noi vogliamo sentire, che sappiamo essere giuste, sacrosante, ma da stasera, per la prima volta nella nostra storia, forse persino possibili, ad un’ora o poco più di distanza. Un vento così inaspettato, così tanto sognato, così gridato e cantato, e sussurrato, e pianto, e implorato che quasi ci tremano le ginocchia e la chiesa è immersa in un silenzio irreale. E finalmente il direttore si avvicina al coro e questo intona uno spiritual così struggente da lasciare senza fiato. Io e JT ci abbracciamo piangendo poi usciamo, sostenuti dalla certezza ormai che questo vento nuovo, ormai è certo, sta per soffiare.
E più tardi, quando alle 11 di sera il cronista della Cnn ci avvisa all’improvviso che Obama è il nostro presidente la casa è scossa da un boato simile ad una bomba e usciamo fuori in strada. «Thank you God» «Thank you, Jesus» gridano voci isolate e dalle case a frotte escono chiedendo: «Ma è vero? Abbiamo vinto?». E giovani passano in auto, premendo il clacson e sventolando bandiere americane, non alla rovescia in senso di dissenso e non sulla loro bara, di ritorno dalla Guerra, ma invece con gratitudine, ché è vero. E quando, dopo mesi di silenzio sulla scomoda questione razziale, Obama nel suo discorso ricorda gli antenati di mio marito e delle mie figlie e la vergogna inaudita che ha macchiato la nostra storia, annuncia con chiarezza al mondo che non è soltanto il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America ma il presidente nero. E finalmente, a guardare la sua famiglia e quella di Biden mescolarsi sul palco, io vedo l’idea dell’America farsi vera, l’America di domani, l’America del mondo. E per la prima volta nella mia vita, il mio presidente.