Home > Il processo ai 25
Perché le accuse non reggono
L’arringa Ecco una sintesi dell’intervento difensivo che verrà
pronunciato oggi al processo ai 25
Ezio Menzione -
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Novembre-2007/art31.html
Duecentoventicinque anni di pena sono stati chiesti per 25 manifestanti del G8 di Genova del 2001, che avrebbero commesso il reato di devastazione e saccheggio. Due milioni e mezzo di euro sono stati richiesti come risarcimento danni dallo Stato, costituitosi parte
civile. La prima domanda che viene a mente è: come mai si è voluto contestare il reato di devastazione e saccheggio, utilizzato nell’immediato dopoguerra per episodi di saccheggio di villaggi o edifici abbandonati dagli sfollati e poi non più contestato fino ad anni recentissimi, quando è stato ripescato per colpire gli ultras degli stadi?
Come sempre in questi casi, le risposte sono più d’una. Innanzitutto perché si voleva colpire duro i manifestanti.
Il 419 prevede una pena che va da 8 a 15 anni e dunque difficilmente, se l’accusa regge, si può scendere sotto i 6. Quindi non ci sono prescrizioni, condizionali o indulti che possano salvare di fronte a una condanna: qualche anno di galera andrà fatto. La contestazione così pesante serve da «bilanciamento preventivo» rispetto a possibili condanne (infinitamente più miti, magari prescritte, di sicuro indultate, sempre che vengano comminate) delle forze dell’ordine nei processi per la Diaz e Bolzaneto.
Non è nemmeno pensabile, non è mai accaduto nell’Italia repubblicana che per fatti che hanno turbato l’ordine pubblico siano state chiamate a rispondere solo le milizie dello Stato, attribuendo loro ogni responsabilità.
Ma c’è una ragione più profonda per cui si è riesumato un reato così desueto. Per più di 50 anni il reato non è stato mai contestato a manifestanti, eppure l’Italia ha conosciuto momenti in cui le manifestazioni di piazza, soprattutto negli anni ’70, hanno certamente
messo a rischio l’ordine pubblico. Dopo, ci furono alcuni decenni in cui manifestazioni violente o che realmente impegnassero le forze dell’ordine non ce ne sono state più. (...) Siccome però i modelli repressivi hanno una capacità espansiva difficilmente frenabile, è
accaduto che a Genova si è ricorsi alle stesse tecniche di «contenimento» sperimentate negli stadi. Parallelamente, la procura genovese ha utilizzato anche lo stesso schema giuridico utilizzato per gli stadi, la contestazione del desueto articolo 419 del codice penale.
Ma se le affinità tecniche fra gli stadi e Genova sono molte, è totalmente diverso il contesto e l’atteggiamento psicologico, prima ancora che politico, della gran massa di coloro che andarono a manifestare a Genova. (...)
Ma questo processo pone una questione giuridica ancor più di fondo. Il gravissimo reato di devastazione e saccheggio postula che dalle azioni poste in essere derivi una crisi, o almeno il pericolo di una crisi, dell’ordine pubblico, altrimenti non si giustificano pene così elevate; altrimenti siamo di fronte ai reati di danneggiamento e furto aggravati, violenza e resistenza: reati puniti severamente, ma non quanto l’altro.
E’ chiaro dunque che per riconoscere la sussistenza del reato bisognerà riconoscere che l’ordine pubblico è andato in crisi e dunque chiedersi cosa si intende per ordine pubblico. Per ordine pubblico si può intendere la pubblica tranquillità, oppure l’ordine della piazza, oppure la pace sociale, oppure la tenuta dell’ordinamento costituzionale nel suo complesso. Forse l’ordine pubblico è un poco di tutto ciò, ha vari aspetti, alcuni più importanti, altri meno.
Ciò che sicuramente bisognerà riconoscere è che oggi in questo nostro paese per ordine
pubblico si deve intendere qualcosa di diverso da ciò che si intendeva nell’Italia fascista, quando fu scritto il nostro codice penale. Oggi sappiamo che l’ordine pubblico significa prima di tutto bilanciamento ed equilibrio dei diritti, non solo in piazza, nel momento di un possibile scontro, ma più in generale nella nostra vita sociale. Noi viviamo - ed è giusto che sia così - del dissenso, dell’affermazione del pensiero di chi è diverso da noi, e sappiamo anche che le manifestazioni di dissenso, per avere una chance di affermarsi, devono potersi mostrare collettivamente e visibilmente. E per salvaguardare queste libertà di chi non la pensa come noi si possono tollerare anche strappi minori alla
legalità. L’ordine pubblico non è necessariamente messo in crisi da una manifestazione, anche passabilmente violenta. Altrimenti, bisognerebbe arrendersi a una visione dell’ordine pubblico come pura conservazione dello status quo, e conseguentemente alla conservazione dei valori e dei sistemi dominanti, senza possibilità di mutarli.
Ma Genova e questo processo pongono infine un altro interrogativo giuridico: come si può contestare devastazione e saccheggio, e dunque violazione dell’ordine pubblico, a dei manifestanti che l’ordine pubblico se lo sono trovato già posto in crisi da chi avrebbe dovuto tutelarlo, le forze dell’ordine che, con una scelta precisa, decisero di non intervenire al mattino di venerdì 20 luglio nei confronti di chi danneggiava negozi e strade per avere la giustificazione per farlo poche ore dopo contro un corteo pacifico e autorizzato, seminando violenza, sangue e, alle 5 e 27 di quel pomeriggio d’estate, morte.