Home > Il rapporto tra politica e amore ai tempi della rivoluzione
Il rapporto tra politica e amore ai tempi della rivoluzione
Publie le martedì 14 ottobre 2008 par Open-PublishingIl rapporto tra politica e amore ai tempi della rivoluzione
di Antonella Stirati
Intellettuale, attivista politica e ministro nel governo presieduto da Lenin, Alexandra Kollontaj fu una delle figure di spicco della rivoluzione bolscevica. Largo all’eros alato , recentemente ripubblicato in un volumetto a cura di Lugi Cavallaro (Il melangolo, 9 euro), è forse il suo pamphlet più famoso. Pubblicato nel 1923, questo breve scritto dedicato al rapporto tra politica e amore suscitò scandalo e fortissime opposizioni in seno al partito comunista russo. E in effetti, ancora oggi, esso ci appare trasgressivo.
Il punto di partenza dell’autrice è che l’amore... non è eterno! Infatti, sia i modelli ideali dell’amore che le sue forme concrete cambiano nei diversi periodi storici, adattandosi alle diverse strutture sociali ed economiche. Ma allora, quale modello delle relazioni d’amore avrebbe dovuto imporsi nella neonata repubblica sovietica? La scandalosa risposta di Kollontaj fu che, nella nuova società, l’amore non avrebbe più dovuto significare "possesso" dell’amata o dell’amato, e quindi avrebbe potuto anche non essere un sentimento esclusivo, rivolto ad un solo uomo o ad una sola donna.
Per la nuova morale, cioè, sarebbe stato del tutto indifferente se le relazioni amorose fossero durature o passeggere, esclusive o molteplici, e rilevante invece solo la qualità delle emozioni che le contraddistinguono - la delicatezza, il rispetto, l’ascolto e la comprensione dell’altra o dell’altro, il riconoscimento dell’uguaglianza. La più ampia libertà nell’amore, dunque, ma al tempo stesso nulla di più distante da quello che Kollontaj definiva l’eros "senza ali", vale a dire "la trasformazione dell’atto sessuale in scopo a sé stante", slegato dall’attrazione per una particolare persona nella sua individualità, e che si manifesta anche nella mercificazione del sesso.
Secondo Kollontaj l’eros "senza ali" è l’altra faccia della morale borghese fondata sul matrimonio, e ha tra i suoi presupposti la disuguaglianza tra uomini e donne e la condizione di dipendenza di queste ultime. Al contrario, il nuovo volto di "eros alato" avrebbe consentito agli individui di esprimere e sviluppare la propria capacità di amare, e sarebbe stato funzionale ad una società solidale, che per il suo stesso sviluppo ha bisogno di espandere l’affettività e di diffonderla in tutte le diverse trame delle relazioni sociali, in netto contrasto con "la fredda solitudine morale" tipica della società borghese.
Viene così delineata quella che potremmo definire una ’utopia degli affetti’, che ancora oggi sorprende e fa pensare. Essa è evidentemente molto lontana da quanto avvenne realmente in Unione Sovietica negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del libretto, quando si tornò ad affermare una morale conservatrice e il ’ritorno alla famiglia’, come ci ricorda Cavallaro nella sua introduzione. La visione di Kollontaj ha invece forti assonanze con culture e sperimentazioni delle generazioni giovanili degli anni ‘60 e ‘70, ma ci parla del presente più per contrasto che per somiglianza. Infatti, sebbene la condizione femminile e la morale sessuale siano molto mutate, oggi assistiamo al tentativo di riaffermare i valori tradizionali, insieme (non a caso?) alla dilagante mercificazione dei corpi femminili, e alla tendenza a interpretare la libertà come accesso alla sessualità senza relazioni affettive. Per non parlare della "fredda solitudine della società borghese", oggi quanto mai pervasiva.
Ma quali stimoli di riflessione costruttiva per la cultura politica delle donne e della sinistra si possono allora ancora trovare in questo pamphlet? Un elemento che colpisce è l’assenza in questo scritto della Kollontaj di ogni riferimento all’esistenza di un conflitto di genere indipendente dalle condizioni materiali di vita nella società capitalistica. Nella sua sobria Autobiografia (Feltrinelli, 1975) troviamo in realtà parole molto toccanti sul tema della difficoltà nei rapporti tra uomini e donne e sul conflitto interiore che esso genera: "noi, la generazione più anziana....nell’uomo che amavamo credevamo di trovare ogni volta la persona esclusiva, l’unica con la quale fondere la nostra anima....
Ma sempre avveniva il contrario poiché l’uomo tentava di imporci il suo io e di assimilarci completamente a se stesso. E così nasceva in tutte...la ribellione interiore…e correvamo verso la libertà. Allora ci trovavamo nuovamente sole, infelici, ma libere" (p.27). L’autrice si mostra però sempre fiduciosa che mutate condizioni - in cui le donne avessero accesso al lavoro, a servizi pubblici e a un sostegno per la maternità, a cultura e relazioni sociali - avrebbero potuto portare di per sé ad un superamento del conflitto di genere.
Il contributo di riflessioni del femminismo moderno porta, io credo con ragione, a dubitare di questo. Tuttavia è anche vero, come argomenta Cavallaro, che i processi di emancipazione e liberazione che hanno avuto un forte impulso negli anni ’60 e ’70 sia in Europa che Negli Stati Uniti sono stati associati a cambiamenti importanti delle condizioni materiali, determinati dalla piena occupazione e dallo sviluppo dello stato sociale. Ed è indubbio che nei paesi dove il welfare si è maggiormente sviluppato, le donne hanno maggiori opportunità nello scegliere il proprio percorso di vita. Mentre, d’altra parte, le tendenze alla ’restaurazione’ di oggi vanno insieme alla contrazione del ruolo dello stato e della spesa pubblica, in un modo che presenta alcune analogie con quanto accaduto in Unione Sovietica negli anni ’20.
Questo potrebbe indurci a riconsiderare con attenzione una lezione importante del femminismo marxista, che è estremamente chiara negli scritti e nell’attività politica della Kollontaj, e cioè che i cambiamenti nelle condizioni materiali dell’esistenza costituiscono una premessa comunque necessaria alla libertà delle donne (come degli individui in generale). Sbaglieremmo se ritenessimo che nell’Italia di oggi questa lezione sia superata e che le istanze libertarie e di cambiamento culturale possano essere perseguite come se le concrete scelte di vita della maggioranza delle persone non fossero soggette a pesanti vincoli materiali. I dati di cui disponiamo segnalano del resto con insistenza l’importanza di tali vincoli per le scelte di vita. Prendiamo ad esempio un tema importante per le donne, quello delle decisioni riproduttive.
Le indagini statistiche ci dicono che le donne italiane vorrebbero, in maggioranza, avere due o più figli, ma ne hanno, per lo più, uno solo (a differenza, ad esempio, delle donne francesi, che esprimono le stesse intenzioni, ma le portano a compimento). A questa evidenza se ne può aggiungere un’altra, restituita da una recente indagine condotta dalla FIOM su centomila lavoratori e lavoratrici metalmeccanici, sia operai che impiegati (Metalmeccanic tXn , Meta Edizioni, 2008): un quinto delle famiglie con figli, e quasi un quarto delle famiglie composte da genitori con due figli conviventi, ha un reddito familiare inferiore alla soglia di povertà (stimata a 1600 euro) per una famiglia di 4 persone.
Insomma, per moltissimi nuclei familiari, fare un secondo figlio non è materialmente sostenibile. E si tratta qui, si noti bene, di nuclei familiari in cui almeno uno dei coniugi ha un lavoro stabile e regolare a tempo pieno, con un reddito mensile non dissimile da quelli prevalenti nel mondo del lavoro dipendente, pubblico e privato. Ma se le cose stanno così, è evidente che anche altre scelte, come rompere una unione coniugale che non funziona più, o scegliere di vivere la maternità al di fuori di una convivenza di coppia, possono essere impraticabili per ragioni solidamente materiali, quali il reddito e il costo dell’affitto. Viene allora naturale pensare anche che un fenomeno oscuro e pervasivo come la violenza tra le mura domestiche (l’Istat rivela che in Italia una donna su sei ha subito violenze fisiche o sessuali, per lo più ripetute, dal partner o ex-partner) sebbene abbia certamente origini profonde e complesse, potrebbe tuttavia essere arginato - per lo meno nel senso della limitazione del danno - da un insieme di condizioni che, ’semplicemente’, rendano materialmente più facile per una donna andarsene di casa .
Insomma, la lettura del libretto di Kollontaj, e della interessante introduzione del curatore, può aiutarci a rimettere a fuoco un fatto semplice ma spesso trascurato, e cioè che l’attenzione alla concretezza della vita quotidiana e dei suoi bisogni dovrebbe essere denominatore comune tra chi parla il linguaggio delle libertà, dei diritti, della qualità della vita e delle relazioni, e chi quello del conflitto di classe o dell’economia, e che essa dovrebbe costituire il ponte tra istanze di cambiamento culturale e sociale profonde e obiettivi concreti e immediati dell’azione politica.
Una capacità che ha caratterizzato, ad esempio, i momenti migliori dell’esperienza del movimento delle donne negli anni ‘70.