Home > Il ritorno del partito che non c’è
di Ilvo Diamanti
Può darsi che la nuova proposta elettorale presentata dalla CdL, venga approvata: a costo di lacerazioni profonde, nel sistema politica; di tensioni acute, nella società. Può darsi.
Perché abbassando dal 4 per cento al 2 per cento, rispetto al precedente disegno, la soglia per essere rappresentati in Parlamento, si sono ridimensionate le resistenze dei partiti minori del centrodestra (e non solo). Può darsi.
Perché, ai soggetti politici che l’hanno ideata, questa legge appare un metodo per limitare il vantaggio, attribuito dai principali istituti demoscopici all’Unione. Che peraltro, ha costruito tutta la strategia in vista delle elezioni - primarie comprese - sulla logica maggioritaria. Può darsi, insomma, che marci, questa riforma.
Sospinta da calcoli particolaristici. O meglio: partigiani. Tuttavia, questo legiferare rapsodico, in materia elettorale. Questo procedere per prove e per errori, per tentativi e successivi aggiustamenti. Può produrre effetti imprevisti. E indesiderati. Dagli stessi promotori.
Non è detto, anzitutto, che il centrosinistra (se prendiamo per buone le stime dei principali istituti demoscopici) ne risulterebbe davvero danneggiato.
Perché, negli ultimi anni, la distanza delle stime elettorali che lo riguardano, fra maggioritario e proporzionale, si è progressivamente ridotta.
Fino ad essere riassorbita (come si è verificato nelle elezioni europee del 2004). E oggi, anche nel proporzionale, il centrosinistra è dato in vantaggio del 5-6 per cento.
La soglia del 2 per cento prevista dalla nuova proposta di legge, peraltro, permetterebbe a quasi tutti i partiti della coalizione di partecipare alla distribuzione dei seggi.
Senza contare che le formazioni più piccole potrebbero, comunque, limitare i rischi aggregandosi (fra loro o con altri partiti maggiori).
Così anche perdendo qualcosa, il centrosinistra rischia, comunque, di affermarsi largamente, grazie al premio di maggioranza.
Secondo le stime di Paolo Natale, calcolate su dati IPSOS, l’Unione, con le nuove regole otterrebbe, comunque, il 47 per cento dei voti utili (contro il 44 per cento, circa, del centrodestra), che si tradurrebbe grazie al premio di maggioranza in 340 seggi (il 55 per cento), contro 278 della CdL.
Certo, è probabile che, in itinere, il progetto venga “aggiustato” ulteriormente, in funzione degli interessi di chi lo sostiene. Ma, nel frattempo, sta fornendo all’Unione, buoni argomenti retorici, dal punto di vista della comunicazione.
La maggioranza dei cittadini - è una quota ampia di elettori di centrodestra - ritiene, infatti, che la legge elettorale si possa cambiare. Ma solo attraverso una larga intesa, che coinvolga l’opposizione.
Reputa, comunque, questa iniziativa un tentativo della CdL, di salvarsi dalla sconfitta elettorale. Facile dunque, per l’Unione, stigmatizzarla come “legge truffa”. Facendone un tema di grande impatto sull’opinione pubblica. Non peraltro, Romano Prodi ha annunciato, per domenica, una manifestazione a Roma contro questa riforma.
Tuttavia, al di là delle valutazioni sugli effetti della legge, conviene dedicare attenzione ai significati che essa assume dal punto di vista dei contenuti e del metodo.
Quanto al contenuto, si tratta di una proposta chiaramente “proporzionale”.
Anche se incentiva e premia le coalizioni. (E, per questo, segue, comunque, una logica maggioritaria). Anche se prevede l’indicazione del premier.
Ma non si tratta di un proporzionale qualsiasi. Nell’attuale versione del progetto, infatti, si aboliscono i collegi (dove attualmente si votano singoli candidati su base maggioritaria) e prevede il solo voto di lista, nell’ambito di circoscrizioni ampie. Ma senza preferenze.
Il che, come conseguenza, restituire ai partiti un potere di cui non disponevano neppure nella Prima Repubblica.
Visto che spetterà a loro definire le liste dei candidati stabilendone l’ordine. E quindi, la probabilità di essere eletti.
Inoltre, il voto diretti ai partiti li rende i primi, anzi: undici destinatari della rappresentanza. E, quindi, ne allenta il legame di coalizione.
Mentre ridimensiona la legittimazione del candidato premier (indicato, solamente, dai partiti; e non votato direttamente, come, ad esempio, avviene nel sistema elettorale della Toscana, a cui l’attuale proposta fa esplicito riferimento).
In altri termini: i partiti tornerebbero ad essere i soggetti centrali della vita politica e parlamentare italiana. E le coalizioni si trasformerebbero, definitivamente, in cartelli di sigle. Ciascuna delle quali dotata di potere di interdizione e di veto.
Anche la più piccola, vista l’infima misura della soglia di sbarramento (il 2 per cento). Da un maggioritario “scorretto”, come quello attuale, si passerebbe a un “proporzionale di coalizione”. Dove la capacità di ricatto dei soggetti minimi diverrebbe (resterebbe?) massima.
Ma c’è anche il problema del “come”. Del metodo.
Che ha suscitato tante polemiche. Si dice - e l’opposizione grida - che è “truffaldino” cambiare le regole in corsa. All’ultimo momento. Il che si può discutere.
Visto che (come ha ricordato Giovanni Sartori) le leggi elettorali sono spesso state approvate nell’ultimo scorcio di legislatura.
Quando (com’è avvenuto nel 1993) le pressioni (e le considerazioni) esterne prevalgono sulle interferenze interne al Parlamento e al sistema partitico. Il problema è che, in ogni caso, serve il consenso dei principali soggetti politici coinvolti nella competizione. Una condizione che oggi non c’è.
C’è, però, un’altra questione, largamente trascurata. Insieme alla rivendicazione federalista, il tema della riforma elettorale ha accompagnato e segnato la fine della Prima repubblica.
Il movimento, guidato da Mario Segni, che ne ha promosso le ragioni, non si è limitato a favorire la riduzione delle preferenze, nel referendum del 1991.
Ed ad affermare, nel referendum del 1993, un modo di scrutinio “prevalentemente” maggioritario, per l’elezione del Senato (poi replicato, in peggio, per la Camera, dalla Commissione Bicamerale).
Ha soprattutto, interpretato l’insoddisfazione dei cittadini verso un sistema partitico frammentato, senza alternanza, incapace di comunicare con la società. Verso istituzioni di governo indecise.
Ha fatto della legge elettorale una bandiera del cambiamento politico e istituzionale.
Certo, le prestazioni delle “nuove” istituzioni, dei “nuovi” partiti, della “nuova” classe politica hanno indotto a rivalutare la “vecchia” Repubblica.
I “vecchi” partiti. I “vecchi” leader. Le “vecchie” regole.
Tanto che la spinta dei referendum elettorali, la mobilitazione dei cittadini a favore del maggioritario, si sono progressivamente spente. Per delusione.
Come dimostra il fallimento - per mancato raggiungimento del quorum - dei referendum del 1999 e, ancor più, del 2000.
Tuttavia, sancire la svolta dal “maggioritario scorretto” a un “proporzionale partigiano”, seguendo spinte occasionali.
Logiche particolari. Per ridurre il “proprio” svantaggio elettorale. Per schivare le “proprie” primarie, svuotando di senso quelle dell’avversario politico. Ebbene: ci pare un esercito poverello.
Liquidare una lunga stagione di attese e di esperienze volte al cambiamento, Per quanto frustrate e deluse. Per quanto condotte sul filo della precarietà. Lascia un gusto sgradevole. Questa condanna senza istruttoria, senza processo e senza giudizio. Questo passaggio senza riti.
E fa sorridere amaro, questa rinascita della Repubblica dei partiti.
Che non si può giustificare con la nostalgia. Della “vecchia” DC, del “vecchio” PCI. E degli altri: socialisti, liberali, repubblicani.
Perché i “nuovi” partiti non somigliano a quelli della Prima Repubblica. Sia detto con assoluta convinzione, ma senza alcuna nostalgia: sono peggio. Questi partiti.
Con qualche eccezione, non hanno una vita democratica. Non promuove la partecipazione. Sono oligarchie. Partiti personali. Senza società e senza territorio. A loro agio nei salotti tivù.
A chi vuole (ri) proporre una democrazia proporzionale, per restituire lo scettro ai partiti, per questo, chiediamo: restituiteci, prima, i partiti.
da La Repubblica del 3 ottobre 2005, pag. 1