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Per molto tempo diviso, il sindacalismo internazionale si è riunificato, dando origine, il 3 novembre 2006, alla Confederazione sindacale internazionale (Csi). Quest’ultima riunisce la Confederazione mondiale del lavoro (Cml) e la Confederazione internazionale dei sindacati liberi (Cisl) come anche alcune centrali prive di affiliazione mondiale, fra cui la Confédération générale du travail (Cgt), il principale sindacato francese. Indeboliti ovunque, i sindacati cercano un nuovo respiro.
diIl ritorno del sindacato. In Francia
Da qualche mese, le fate buone non mancano al capezzale del sindacalismo e del «dialogo sociale», come testimonia il dibattito francese dell’autunno 2006 al Consiglio economico e sociale (Ces) e la legge sul dialogo sociale discussa all’Assemblea nazionale in dicembre. Finalmente emergono due questioni, per troppo tempo rinviate, benché determinanti per l’organizzazione delle relazioni sociali in Francia: la rappresentatività dei sindacati e le condizioni nelle quali si svolgono e si concludono gli accordi sociali.
Alcune ragioni di fondo sono alla base di questo dibattito: da una parte, lo stato di debolezza dei sindacati, che porta a interrogarsi sulla loro legittimità; dall’altra l’inefficacia della contrattazione collettiva, che è solo parzialmente legata alla precedente questione.
Se la legge del dicembre 2006 obbliga il governo a consultare gli interlocutori sociali per qualsiasi progetto di legge a carattere sociale, questa consultazione non ha una diretta incidenza sul sindacato: il fatto di essere consultato non porta un grammo di legittimità supplementare. In compenso, la risoluzione adottata dal Ces e ispirata dal rapporto del consigliere di stato Raphaël Hadas-Label (1) ha una diversa portata, perché una sua traduzione in legge potrebbe avere degli effetti sulla ricomposizione in campo sindacale. In effetti, si tratta innanzitutto di finirla con la lista bloccata da quarant’anni, attraverso la quale lo stato stabilisce la rappresentatività indiscutibile di cinque centrali sindacali: la Confédération générale du travail (Cgt), la Confédération française démocratique du travail (Cfdt), la Confédération génerale du travail - Force ouvrière (Cgt - Fo), la Confédération française des travailleurs chrétiens (Cftc) e la Confédération française de l’encadrement - Confédération générale des Cadres. A causa di questo marchio, questi sindacati sono rappresentativi ovunque e in ogni occasione, anche laddove i lavoratori non gli abbiano accordato la fiducia nelle elezioni interne. Peraltro, negli ultimi quindici anni, sono apparsi nuovi sindacati, Sud (Solidaires, unitaires et démocratiques), divenuta una delle componenti di Solidaires, o l’Unione nazionale dei sindacati autonomi (Unsa), che non sono riconosciuti ufficialmente. A questa legittimità concessa dallo stato, bisogna sostituire il diritto dei lavoratori a scegliere i propri rappresentanti. Il numero presunto di aderenti ai sindacati non può essere sufficiente, e non solo perché è notoriamente molto basso. È molto elevato in Belgio (più del 70% dei lavoratori sono sindacalizzati, contro l’8-10% della Francia), dove esiste almeno un’elezione di rappresentatività. La convalida degli accordi attraverso il voto appare come un modo di partecipazione legittima in un regime di democrazia sociale e di pluralismo sindacale.
Il secondo elemento della risoluzione adottata dal Ces riguarda le regole che inquadrano la convalida degli accordi sociali. È necessaria una maggioranza assoluta o è sufficiente una maggioranza relativa?
Quali sono le modalità di elezione dei comitati di impresa e dei delegati del personale? Qual è la soglia minima di suffragio che un sindacato deve raggiungere per partecipare a una contrattazione?
Tutto questo naturalmente assume un risvolto tecnico e giuridico che non deve portare a tralasciare la dimensione politica del cambiamento da operare, partendo dallo stato della contrattazione collettiva.
Neanche quest’ultima vive dei bei momenti: accanto a qualche categoria attiva (l’artigianato in generale, l’edilizia in particolare), la maggior parte non sono una risorsa. Alcuni settori sono in crisi, è il caso di quello alberghiero e della ristorazione, come dimostra il disastroso negoziato sulle 35 ore (2). In più, l’aumento di bonus, di premi, della partecipazione e in più in generale del risparmio salariale ha ridotto la parte negoziabile di salario con l’impresa; a livello di categoria, la questione salariale non ha più particolare significato. Come parlare, del resto, del dinamismo della contrattazione sociale quando la maggioranza delle categorie ostenta un minimo salariale inferiore allo smic (salario minimo interprofessionale di crescita)?
Da più di dieci anni, la contrattazione a livello di impresa (di secondo livello), che riguarda cinque milioni di lavoratori, ha contribuito a questa riduzione del ruolo della categoria. Non è chiaro che cosa ancora la contraddistingua. L’esame degli accordi depositati negli uffici del ministero del lavoro porta alla luce una vistosa eterogeneità di contenuto e di portata. Che può andare da una semplice scelta di metodo fino all’accordo su l’«orario di lavoro». L’impressione dominante è che questi accordi mirino ad adempiere agli obblighi legali della contrattazione, formalizzando in maniera più o meno sofisticata le decisioni dei datori di lavoro. La contrattazione di secondo livello ha contribuito soprattutto ad atomizzare le relazioni sociali e a favorire il corporativismo di impresa. Trascura più di dieci milioni di lavoratori, affidati alle contrattazioni collettive di categoria, che li tutelano sempre meno.
Una crisi di legittimità La gerarchia delle norme sociali esce offuscata dall’insieme di leggi che erodono poco alla volta il «principio di favore», per il quale un accordo concluso a un dato livello non può generare una situazione più sfavorevole per il lavoratore rispetto a quella prevista nel livello superiore (3). Le leggi Auroux del 1982, la legge quinquennale del 1993, la legge Fillon del maggio 2004 hanno tutte offerto possibilità supplementari per derogare a questa regola, base del diritto sociale francese. Allo stesso tempo, l’accordo di categoria è diventato suppletivo, ossia garante delle regole basilari, in mancanza di un accordo di impresa. È un’inversione del significato storico della contrattazione di categoria: ci si può stupire che i sindacati abbiano lasciato fare con tanta leggerezza. I contratti di lavoro precari, l’esternalizzazione e il subappalto hanno fatto il resto. Così, a un numero sempre crescente di lavoratori sono state progressivamente sottratte le norme di maggior tutela, spingendoli verso accordi di crescente indebolimento. Su scala nazionale, non è certo meglio. Se Laurence Parisot, presidentessa del Movimento delle imprese di Francia (Medef), la Confindustria francese, discute con i dirigenti delle confederazioni sulla diversità all’interno dell’impresa, la contrattazione sulla gravosità del lavoro si scontra da mesi con il muro eretto dal padronato, che, detto per inciso, rimane l’eterno assente nel dibattito sulla rappresentatività degli attori sociali (4). Molto spesso, quando un accordo precede l’elaborazione di una legge, il padronato cerca di recuperare per via politica quel che ha dovuto concedere durante la contrattazione.
Un unico e recente esempio: il piano nazionale di azione concertato per il «lavoro senior», negoziato nel 2005 e iscritto in un accordo nazionale interprofessionale, firmato nel marzo 2006 tra il padronato e tre sindacati (Cfdt, Cftc, Cfe-Cgc). Questo piano era programmato per il quadriennio 2006-2010. L’inchiostro della penna si era appena asciugato, quando il Medef, prima lobby francese, è riuscito a far anticipare dal parlamento la data della soppressione della contribuzione Delande, che, stando all’accordo, doveva essere estinta alla fine del piano (5). Per quanto riguarda le pari opportunità, sono state seppellite nella previdenza sociale, sono esangui per quanto riguarda l’indennità di disoccupazione, sopravvivono, mentre ci si interroga sulla sua efficacia, nel campo della formazione. Per il Medef, le pari opportunità sono molto peggio di un sindacato. In effetti è da un bel pezzo che il padronato fa i suoi acquisti a scapito di soggetti e categorie, nel grande self-service sindacale. Eccezion fatta per la Cgt, le principali confederazioni, con la scusa del realismo, non storcono più il naso neanche nei confronti dei «concorsi di bellezza», dove il favore padronale va al maggior offerente (6).
Il risultato è oggi una grande crisi di legittimità della contrattazione sociale e di coloro che la conducono. Perché un lavoratore dovrebbe impegnarsi nel sostenere un sindacato se il datore di lavoro può trattare e concludere senza tenere conto della sua scelta? I sindacati corrono seriamente il rischio di rimanere coinvolti in finti «scambi», dal momento che la regola del gioco può essere stabilita unilateralmente dal padronato. Cambiare le regole della relazione sociale non produrrà dei miracoli riguardo alla capacità sindacale di modificare gli attuali rapporti di forza. Ma può contribuirvi. Per esempio l’obbligo di accordi maggioritari avrebbe almeno il pregio di costringere i sindacati a costruire al loro interno delle maggioranze positive e di stravolgere un po’ i giochi dei ruoli, invariati da cinquant’anni. La ripresa sindacale passa attraverso il cambiamento delle norme. E certamente questa non basterà.
Da ogni parte ci si lamenta dello stato di indebolimento del sindacalismo.
Molti di coloro che oggi piangono questa condizione, vent’anni fa si lamentavano della forza sindacale. Questo fatto è noto, meriterebbe tuttavia di essere espresso in maniera più sottile.
In primo luogo, la Francia non è controcorrente rispetto all’evoluzione del sindacalismo nel mondo e, in particolare, in Europa. Ovunque la tendenza è al declino delle protezioni acquisite, agli interrogativi sulla legittimità degli attori della relazione sociale. Di sicuro, gli indicatori di forza (quale il numero degli aderenti) in nessunpaese sono scesi ad un livello così basso come quello dell’Esagono.
Ma a parte la Spagna, tutti i paesi d’Europa hanno conosciuto nel corso dell’ultimo decennio una decrescita degli effettivi, che a volte ha preso, è il caso della Germania dell’ultimo periodo, una piega drammatica (7).
Ora, dopo più di dieci anni, il tasso di sindacalizzazione francese ha smesso di abbassarsi. Le confederazioni più grandi (Cgt e Cfdt) mostrano una timida ripresa del loro numero di iscritti. La loro influenza elettorale globale è stabile, almeno tra i lavoratori che possono votare, ossia nelle imprese con più di cinquanta dipendenti.
Però, malgrado l’emergere di nuovi sindacati, il numero globale dei sindacalizzati non è variato di molto. Non si può parlare seriamente oggi di «risindacalizzazione». Tutte le confederazioni ne hanno fatto una priorità, di cui si occupano particolarmente i sindacati di base.
E a ragione. La maggior parte di loro può, grazie ai comitati di impresa, finanziare la propria attività a prescindere dalle quote sindacali.
Si stanno operando, inoltre, delle ricomposizioni. È in corso un nuovo spiegamento, di ampiezza modesta ma che segnala un cambiamento e, forse, una tendenza: poiché l’industria tradizionale continua a chiudere impianti e a cancellare posti di lavoro, quindi iscritti a un sindacato, la compensazione passa attraverso altre attività, per lo più nei servizi, il commercio, la sanità - pubblica come privata - nei nuovi mestieri di assistenza alle persone. Nonostante le pressioni (8), emergono nuovi settori di azione collettiva: la ristorazione rapida, le attività ricreative.
Questo lavoro da formica non è che produca grandi battaglioni di iscritti al sindacato. È volto spesso verso le piccole e medie imprese, e gli organismi che ne derivano sono rigidi rispetto alle strutture locali dei sindacati. Crescere squadre di pochi iscritti presuppone una fitta rete sul territorio e sforzi considerevoli per risultati poco gratificanti su questa scala. Poiché non esiste nessuna forma di diritto sindacale interprofessionale (ossia costruito al di fuori dell’impresa), l’andamento dipende da un volontarismo spesso difficile da conservare nel tempo (9). La costituzione di sindacati territoriali (di comprensorio) cerca di aggirare le strategie di moltiplicazione dei subappalti: all’interno delle zone commerciali, alcuni sindacati territoriali tentano di coordinare gli aderenti dispersi. Inutile rimarcare lo scarso entusiasmo dei datori di lavoro di fronte all’emergere di nuovi interlocutori.
L’imperativo della riorganizzazione, che il movimento sindacale ha di fronte, è delle stesse dimensioni di quello che lo traghettò, all’inizio del XX secolo, da un sindacalismo di mestieri a un sindacalismo industriale. È un compito difficile, che porta con se crisi e conflitti interni. Le condizioni sarebbero semplificate dal miglioramento dei rapporti che le centrali intrattengono fra loro. Le divergenze che attraversano il sindacalismo francese hanno una base reale e ricalcano le differenti visioni del mondo sociale, dividendo i lavoratori stessi.
Ma queste differenze esistono anche in altri paesi, e non conducono alla guerra del tutti contro tutti - immagine a cui rimanda invece molto spesso il paesaggio sindacale francese.