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Il venerdì selvaggio di Catania: PERCHÉ IL “TIFO” UCCIDE
Publie le martedì 6 febbraio 2007 par Open-Publishingdi Carmelo R. Viola
Quanto è successo a Catania questo 2 febbraio ha sorpreso ancora quanti credono nelle “menzogne convenzionali della civiltà” e quanti hanno fatto finta di crederci perché hanno interesse che il popolo-massa continui a bere quelle menzogne, portentose produttrici di buoni affari. Per me “nulla di nuovo sotto il sole”: potrei essere tacciato di gratuita vanteria se queste cose non le dicessi da anni, ultimamente perfino non più per intuizione ma alla luce della scienza sociale ovvero della biologia sociale, che ne è una mia risistemazione naturalistico-biologica.
Chiudo scusa a chi mi legge se la prendo un poco alla larga: lo faccio per intenderci meglio per precipitare subito dopo nel quotidiano del giorno. Ogni specie è un organismo sui generis, dove ogni organo interagisce con tutti gli altri: lo è anche la nostra. Più precisamente la nostra, a crescita storica, quindi variegata nel tempo e nello spazio, è una concomitanza di organismi viventi sui generis, ciascuno dei quali è una civiltà, cioè un sistema organico di usi, costumi e mezzi, tutte ancora dominate dall’”agonismo predatorio” – detto altrimenti competitività o concorrenza esistenziale - di diretta origine della giungla (dove anche l’uomo è nato).
La nostra, cosiddetta borghese, dopo tentativi repressi di passaggio all’età adulta (o sociale), bloccata al livello “antropozoico”, è, ripiombata, nella dinamica di massa, a livelli psicologicamente ancestrali (tribali) di quando il senso della vita è una sfida, del e contro il circostante, per la sopravvivenza.
Tale spirito, normale in età prescientifica e pretecnologica, è patologico (e molto pericoloso) in una civiltà ad alto coefficiente tecnico-scientifico come la nostra. La contraddizione (primitivo/moderno) la si deve alla persistenza ed estremizzazione del capitalismo (o predonomia) – spacciata bugiardamente per “la” economia – che continua a celebrare il culto della sfida come modo di vivere e di divertirsi. Sfida è il motore dell’”american way of life”, ritrovabile nella filmistica violenta e di animazione mandata in onda spesso in ore di maggiore ascolto e sempre più assimilata dalle nuove generazioni; sfida è lo spirito imprenditoriale; sfida è quasi sempre il filo conduttore di giochi televisivi a premi, anche molto consistenti (predaludismo); sfida è ogni sport attorno a cui, come per il calcio, è stata creata un’industria di alto business, che trasforma perfino dei giocatori in “padreterni”!
Siamo al punto. Lo sport professionale è uno spettacolo da consumo di massa. Il cosiddetto tifo sportivo o “sport passivo”, ombra profittifera e demagogica di quello spettacolo, è la negazione dello sport come pratica professionale e, per contro, l’esaltazione della sfida (il vincere ad ogni costo, con buona pace del buon De Coubertin
E‘ ovvio che, come in un organismo ammalato, solo i distretti più interessati e più provati da una patologia, dànno dolori, problemi clinici e talora la morte. Così, di milioni di “tifosi”, psicoemotivamente contrapposti ai diretti “avversari” (tenuti anche in conto di “nemici”), solo i meno dotati in senso evolutivo, e insieme più carichi di rancore sociale, “esplodono”, magari contro terzi innocenti, come è accaduto appunto a Catania, a danno di agenti dell’ordine che, nel caso specifico, erano soltanto “colpevoli” di proteggere, come era nel loro compito istituzionale, gli “ospiti” palermitani.
Il tifo sportivo è una malattia psicosociale, sfruttata da imprenditori, che fanno soldi a palate, dal fisco e dal sistema in quanto tale, che lo coltiva come “ottundore sociale” ovvero come stato soporifero, che distrae quantità massicce di popolo “sovrano” dall’attenzione ai problemi sociali (e alle ingiustizie di cui è vittima) come appunto quello dello pseudo-sport e non solo del calcio.
L’intellighenzia politica e amministrativa – in parte perché bugiarda, in parte perché stupida - suole meravigliarsi di effetti del tutto prevedibili e minacciare i soliti provvedimenti radicali e risolutivi. Ricordo una dichiarazione del simpatico catanese Enzo Bianco, nella veste di ministro degli Interni, riassumibile nella parola “provvederemo”, dopo incidenti della fattispecie.
L’unico provvedimento da prendere è l’unico impossibile da prendere dall’oggi al domani: alludo all’abolizione della “civiltà della sfida” ovvero capitalistica, oggi detta neoliberista-globale. Nè, tenuto conto dell’attuale stato delle cose, sarebbe facile intervenire nel settore specifico per: a) sciogliere tutte le società sportive; b) abolire lo sport agonistico-professionale; c) incrementare e rendere popolare lo sport amatoriale e senza fini di lucro; e, d) mettere gli stadi a disposizione, secondo turni, di squadre di dilettanti con eventuali possibilità di scommesse di entità simboliche, proprio come in un “gioco di società” (e non di azzardo).
Come potrebbero i ladroni dell’industria del “tifo”, quotati in borsa e magari dotati di aereo personale, consentire a tutto questo?
Considerino questa realtà - tutt’altro che immaginaria ed opinabile – i responsabili del pubblico potere e dell’ordine pubblico e si diano una risposta ragionata, invece di recitare i soliti esorcismi e menare il can per l’aia fingendo di non conoscere le radici psicodinamiche della criminalità “parasportiva”, espressione di emergenza del culto della sfida di cui essi stessi sono i fautori.
Fra le cause, che tali autorità non sanno (o fanno finta di non sapere) ci sono quelle del confronto fra il proprio stato e quello di chi, anche non lavorando (magari senza avere mai lavorato!) vive nel lusso, della povertà, dell’eventuale disoccupazione o precarietà senza futuro. Si delinque per fame e per emulazione: questo dovrebbero saperlo i criminologi ufficiali!
La scienza ci insegna che esiste anche un “fenomeno di trasferimento” secondo cui un rapporto di sofferenza (per esempio di soggezione sul posto di lavoro o nella società in genere) viene trasferito (tradotto) in un rapporto di dominio e di prepotenza (per esempio verso familiari e, in genere, verso soggetti più deboli).
Il problema della violenza dentro e fuori degli stadi di calcio è, dunque, il problema clinico di una patologia di una civiltà seriamente ammalata.
Carmelo R. Viola – csbs@tiscali.it- sito Internet: http://biologiasociale.altervista.org