Home > Il virus della rivolta dai centri del sapere al cuore della crisi

Il virus della rivolta dai centri del sapere al cuore della crisi

Publie le venerdì 17 ottobre 2008 par Open-Publishing

Il virus della rivolta dai centri del sapere al cuore della crisi

Roma, 15 ottobre: protesta contro la riforma Gelmini Simona Granati

di Anubi D’Avossa Lussurgiu

Non si tratta d’un "eterno ritorno", nel caso di quel che sta accadendo nell’università e nel sistema formativo in Italia. Non è il 68, non è nemmeno il 1990 e neppure qualcosa di più vicino, come il 2005 che pure aveva visto una rivolta imponente, i primi segni di spazio comune di conflitto e movimento tra studenti e ricercatori e docenti precari. Non è l’«avanguardia studentesca», non è la «protesta alla fine della storia», non è nemmeno la «sinistra di società» che tenta l’anticipo su quella politica, dopo essere passata per l’insorgenza dei territori, per le prime "cospirazioni precarie", per le disobbedienze, per il salto dall’antirazzismo al riconoscimento del "soggetto migrante". Non siamo nell’assalto al cielo, la fine della storia è finita da un pezzo, anticipare la sinistra politica non ha senso visto dov’è rimasta, in ogni sua forma.

Per gli stessi motivi, sì: è contestazione, è presa di coscienza, è tensione alla costruzione diretta di uno spazio di riconoscimento, affermativo, di cambiamento. C’è, nella rivolta dell’intero comparto della formazione in questo Paese, un germe di contestazione generale. E c’è la presa di coscienza di cosa sia ricchezza sociale, qui ed ora, a partire proprio dalla formazione, dalla conoscenza, dalla ricerca, dai linguaggi, dai saperi. E ancora c’è la tensione a costruire, direttamente - anche perché altro modo non c’è e la crisi nella crisi che è quella della politica, a cominciare da sinistra, fa così giustizia d’una fondamentale "questione di metodo" - lo spazio d’un riconoscimento di questa identità con la ricchezza sociale, intanto a partire dagli altri suoi attori; e insieme di affermazione, a partire da quel rifiuto a «pagare la crisi», e di cambiamento, in questo caso del "governo della crisi" cioè della direzione del suo sviluppo.

C’è una tensione più politica di questa, nel senso della cogenza al passaggio storico attuale? La risposta potrebbe dire altrimenti: c’era programma politico nell’assemblea permanente a Lettere e Scienze politiche occupate di Bologna, alla Statale e alla Normale e alla stazione ferroviaria occupate a Pisa, a corso Duca degli Abruzzi a Torino dove si è riversato il Politecnico, nelle aule dell’Orientale e della Federico II a Napoli, ce n’era nelle sedi del Cnr e dell’Infn, nei centri d’eccellenza della ricerca definitivamente schiacciati dai tagli tremontiani, e poi nei diecimila bimbi, genitori e maestri ancora a Bologna e nelle "notti bianche" delle scuole di mezza Italia poche ore prima. C’era anzi più programma politico là che in qualsiasi sfilata di bandiere o proclamazione o declamazione della sinistra che in questa crisi stenta persino a proporsi come "soggetto in causa".

Di nuovo: in ogni sua forma, sfumatura, versione, opzione.
La domanda è casomai: questa irruzione d’una possibilità del conflitto, dislocata dentro la crisi e in avanti, durerà? E ancora: sarà davvero, effettivamente, virale? L’una domanda è indissolubile dall’altra, come le risposte. Sono coinvolte almeno tre se non quattro generazioni, o parti di generazioni, che in testa, nel Dna culturale portano una cifra particolare, scavata a fondo sin nei meccanismi innovati del mercato. Qualcosa che il vocabolario raver ha mutuato dall’ermeneutica: «un’unica durata». La produzione dell’evento e il prodursi in evento.

Qualcosa dell’evento s’è già prodotto, nelle ore scorse. Nulla ha espresso altrettanta verità della protesta portata sotto le finestre di Tremonti, ieri a Roma, con quel grido «Berlusconi paga la crisi». Se poi altro, e altri conflitti e altri soggetti, si produrrà in evento ulteriore, questa è un’altra storia. Quella che oggi cerca d’evocarsi, nel primo sciopero generale di quest’autunno non a caso promosso fuori dalle "tre confederazioni" divise (per ora?) alla soglia della firma della contro-riforma della contrattazione, promosso invece dal sindacalismo confederale di base. Ma è una storia che frammenti generazionali coinvolti approcciano con la loro propria attitudine: in ordine alla politica, quanto mai pragmatica. Refrattaria ad ogni identità risolta e vorace di libertà.

Se un futuro possibile del conflitto, diverso dall’atomizzazione e dalla sporadicità, si disegnerà davvero o meno dipenderà dalla materiale estensione della costruzione d’un discorso del conflitto medesimo, cioè dei conflitti. In cui materialmente si riconoscano a non voler «pagare la crisi», in tutti i modi in cui invece sono minacciati, snodi e soggetti diversi: dalla difesa della Terra all’autodeterminazione delle persone, dal (resto del) lavoro vivo all’autonomia delle donne.

Uno "spazio politico" diversamente da un soggetto politico, dice qualcuno. Certo è che fuori da uno spazio a venire c’è ben poco, per cui valga la pena.