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In attesa di Obama, gli altri 19 governi si apprestano a fare tutto da soli

Publie le martedì 18 novembre 2008 par Open-Publishing
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lunedì 17 novembre 2008

Il tentativo della borsa di Tokyo di reagire all’annuncio ufficiale dell’ingresso del paese asiatico in recessione dopo sette anni di espansione con uno scatto di orgoglio si è rapidamente spento sul finire delle contrattazioni con un ben misero rialzo dello 0,7 per cento e dopo aver ballato a lungo sull’orlo sottile che divide il rialzo dal ribasso, un esito tutt’altro che sorprendente dopo il tonfo del marcato azionario statunitense di venerdì scorso ed il sostanziale nulla di fatto scaturito dal popolatissimo vertice di capi di Stato e di Governo dei venti paesi maggiormente industrializzati, inutilmente scomodati, ma allo stesso tempo visibilmente rincuorati dalla corale decisione di rinviare tutto ad aprile dell’anno prossimo.

Ben più netta è stata la reazione negativa sul fuso europeo, nel corso del quale gli operatori hanno avuto modo di manifestare appieno tutta la loro delusione per l’assenza di decisioni provenienti dalla tanto strombazzata riunione di Washington, riprendendo con forza a vendere il vendibile, spedendo così i listini azionari in ribasso per un 3 per cento medio, ma punendo in maniera ancora più decisa i titoli delle principali protagoniste del mercato finanziario europeo, per il semplicissimo motivo che è oramai chiaro a tutti che ogni governo agirà per conto proprio e che l’unica azione possibile è l’ingresso, più o meno in forze e più o meno condizionante, di capitali pubblici nelle banche e nelle compagnie di assicurazione.

A rendere più tetro, se possibile, questo avvio di settimana, è venuto l’annuncio di un ennesimo taglio dei dipendenti di una grande banca statunitense, Citigroup, che dopo aver reso note nei mesi scorsi nei mesi scorsi analoghe decisioni che hanno riguardato 22 mila suoi dipendenti, ha deciso oggi di spingersi ben oltre e di tagliare altre 53 mila buste paga, il che porta il suo organico a livello planetario dal picco di 375 mila raggiunto nell’aprile 2007 al numero di 300 mila che verrà toccato quando il nuovo piano industriale sarà a regime all’inizio del 2009.

Il giovane Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, ha annunciato il suo nuovo piano di tagli in un meeting della banca svoltosi stamane a Manhattan, un piano che sembra ignorare che il maxi intervento statale per 25 miliardi di dollari appena avvenuto ha, tra le sue motivazioni, quello di mantenere ed eventualmente sviluppare il credito all’economia del colosso creditizio statunitense, mantenendo al contempo e per quanto possibile i livelli occupazionali, né sarà sufficiente per le sensibili orecchie del nuovo presidente eletto la considerazione che parte dei tagli occupazionali sono legati alla dismissioni di interi rami di attività basati all’estero, in particolare in Germania, paese nel quale sono a rischio ben 18 mila posti di lavoro nell’affiliata tedesca di Citi che è stata posta in vendita.

Se il buongiorno si vede dal mattino, è possibile dire che il banchiere indiano che ha preso il posto di Chuck prince III, a sua volta erede di un banchiere di lungo corso ancora presente nel board of directors della banca, sta effettuando non solo il più selvaggio deleverage mai visto nella storia di Citi, ma verrà anche ricordato come uno dei maggiori artefici di downsizing, il tutto in una banca che vede in una posizione di vertice Robert Rubin, una delle quindici personalità del mondo degli affari e della finanza chiamate da Barack Obama come suoi consulenti per individuare una strda socialmente sostenibile per uscire dal meltdown finanziario in corso.

Nel corso del suo intervento, Pandit ci ha tenuto a sottolineare come in importanti rami di attività i guai della banca da lui guidata sono meno gravi di quelli che affligono le dirette concorrenti J.P. Morgan-Chase, Bank of America e Wells Fargo (guai provenienti per quest’ultima in gran parte da quella Wachovia che Pandit ha lottato strenuamente per conquistare per un piatto di lenticchie grazie alla complicità di Hank Paulson e del solito Bernspan), il che non lascia molte speranze sul comportamento che i vertici di queste tre banche terranno con riferimento al mantenimento o meno degli attuali livelli occupazionali.

Se i licenziamenti avvenuti nei sedici mesi della tempesta perfetta, quelli annunciati oggi e quelli che, purtroppo, alquanto immancabilmente si verificheranno hanno carattere generalizzato, quello che sta avvenendo nelle Investment banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali assume caratteri ben più marcati, anche perché fa seguito ad una lunghissima fase di continua espansione dell’attività e dell’organico, inducendo un po’ in tutti l’illusione che le cose sarebbero continuate così indefinitivamente, anche se si trattava di una prospettiva poco credibile alla luce della ciclicità propria dell’economia, ma ancor più della finanza più o meno strutturata.

Come ricordavo ieri, il rinvio alle calende greche delle decisioni coordinate a livello globale lascia mano libera ai governi dei singoli paesi, che hanno ora per di più almeno cinque mesi per ridisegnare la mappa del potere economico sia nel settore della finanza che in quello industriale, un’opportunità quasi irripetibile che i vari Brown, Sarkozy, Merkel e Berlusconi non sciuperanno certamente e che darà ad ognuno di loro la possibilità di regolare vecchi conti, ma, soprattutto, di rimettere al proprio posto quel potere economico che, in particolare negli ultimi venti anni, aveva cominciato a coltivare l’illusione di fare a meno del ceto politico e che ora si trova a mendicare l’intervento della mano pubblica per evitare il tutt’altro che improbabile rischio di essere costretti a portare, come si suol dire, i libri in tribunale.

Nel frattempo, terrorizzati dalla relativa insondabilità dei piani del per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, i banchieri italiani stanno compiendo un’affannosa ed alquanto inutile corsa ad arruolarsi sotto le bandiere del centro-destra!

Marco Sarli - Responsabile Ufficio Studi UILCA

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

Messaggi

  • IL PEGGIO NON E’ PASSATO

    di NOURIEL ROUBINI / Forbes

    Diffidate di quelli che dicono che abbiamo toccato il fondo

    E’ utile, in questo frangente, fare un passo indietro ed osservare attentamente il panorama economico – sia per come è ora e per come lo è stato nei mesi scorsi. Ecco dunque un riassunto dei numerosi punti che ho espresso negli ultimi mesi sulle prospettive per l’economia americana e globale, come pure per i mercati finanziari:

     Gli Stati Uniti subiranno la loro più grave recessione dalla Seconda Guerra Mondiale, molto peggiore, molto più duratura e profonda addirittura delle recessioni del 1974-75 e del 1980-82. La recessione continuerà almeno fino alla fine del 2009 con una diminuzione complessiva del prodotto interno lordo di oltre il 4%. Il tasso di disoccupazione raggiungerà probabilmente il 9%. Il consumatore americano è stremato, senza più risparmi e pieno di debiti: questa, per i consumatori, sarà la peggiore recessione degli ultimi decenni.

     La prospettiva di una recessione breve e superficiale della durata di sei-otto mesi a forma di V è stata scartata; ora vi è la certezza di una recessione della durata dai 18 ai 24 mesi a forma di U e la probabilità di una recessione peggiore, pluriennale, a forma di L (come quella del Giappone negli anni ’90) è ancora flebile ma affiorante. Anche se l’economia dovesse uscire dalla recessione entro la fine del 2009, il recupero potrebbe essere piuttosto fiacco, a causa dell’indebolimento del sistema finanziario e del meccanismo del credito che potrebbe sembrare una recessione anche se l’economia tecnicamente ne sarebbe fuori.

     Obama erediterà uno scompiglio economico e finanziario peggiore di qualunque cosa gli Stati Uniti abbiano fronteggiato negli ultimi decenni : la più grave recessione degli ultimi 50 anni; la peggiore crisi finanziaria e bancaria dalla Grande Depressione; un disavanzo fiscale in aumento che potrebbe raggiungere i 1.000 miliardi di dollari nel 2009 e nel 2010; un enorme disavanzo nella bilancia commerciale; un sistema finanziario che si trova in una grave crisi e in cui sta ancora avvenendo, molto rapidamente, una diminuzione della leva, causando perciò un peggioramento della crisi del credito; un settore immobiliare in cui milioni di famiglie sono insolventi, convogliate in territorio di equity negativo e sul punto di perdere la propria casa; un serio rischio di deflazione mentre diventa più profondo il ristagno nelle merci, nella manodopera e nel mercato delle commodity; il rischio di finire in una trappola di liquidità deflazionaria mentre la Fed si sta rapidamente avvicinando al vincolo del “limite zero” per il tasso dei propri fondi; il rischio di una grave deflazione del debito perché il valore reale delle passività nominali aumenterà, data la deflazione sui prezzi, mentre il valore dei beni finanziari sta ancora scendendo.

     L’economia mondiale subirà una grave recessione : la produzione si ridurrà drasticamente nell’Eurozona, nel Regno Unito e nel resto d’Europa, come pure in Canada, Giappone, Australia e Nuova Zelanda. C’è anche il rischio di un brusco ritorno alla realtà delle economie dei mercati emergenti. La crescita globale prevista – ai prezzi di mercato – sarà vicina allo zero nel terzo trimestre e negativa nel quarto trimestre. Lasciando da parte gli effetti dello stimolo fiscale, la Cina potrebbe dover fronteggiare un brusco risveglio con un tasso di crescita del 6% nel 2009. La recessione globale continuerà per quasi tutto il 2009.

     Le economie progredite affronteranno una stag-deflazione (stagnazione/recessione e deflazione) piuttosto che una stagflazione, perché il ristagno nelle merci, nella manodopera e nei mercati delle commodity porterà i tassi di inflazione delle economie progredite a scendere sotto l’1% entro il 2009.

     Attendiamoci il raggiungimento del vincolo del “limite zero” dei tassi di alcune economie progredite (sicuramente gli Stati Uniti e il Giappone, forse altre) entro i primi mesi del 2009. Con una deflazione all’orizzonte, il limite a zero sui tassi di interesse implica il rischio di una trappola di liquidità in cui il denaro e le obbligazioni diventano perfettamente sostituibili, in cui i tassi di interesse reale diventano elevati e tendenti al rialzo, perciò spingendo ulteriormente al ribasso la domanda aggregata, e in cui i rendimenti dei fondi del mercati monetari non riescono neppure a coprire i loro costi di gestione.

    La deflazione implica anche una deflazione del debito in cui il valore reale dei debiti nominali aumenta, aumentando perciò il peso reale di tali debiti. Le agevolazioni di politica monetaria diventeranno più aggressive nelle altre economie progredite anche se la Banca Centrale Europea ha tagliato troppo poco e troppo tardi. Ma le agevolazioni di politica monetaria saranno scarsamente efficaci data la quantità eccessiva di offerta aggregata globale relativa alla domada – e data una gravissima crisi del credito.

     Per il 2009, le stime dei guadagni dell’opinione generale sono illusorie: le attuali stime valutano che i guadagni S&P 500 per azione (EPS) saranno di 90 dollari nel 2009, in aumento del 15% rispetto al 2008. Sono cifre del tutto ridicole. Se i guadagni per azione – com’è molto probabile – scenderanno ad un livello di 60 dollari, quindi con un rapporto tra Prezzo e Guadagno di 12, l’indice S&P 500 potrebbe scendere a 720 (cioè all’incirca il 20% sotto i livelli attuali).

    Se il rapporto Prezzo-Guadagno scendesse a 10 – com’è possibile nel caso di gravi recessioni – l’S&P potrebbe scendere a 600, cioè il 35% sotto i livelli attuali.

    E in una recessione gravissima, non possiamo escludere che gli EPS possano scendere a 50 dollari nel 2009, trascinando l’indice S&P 500 a quota 500. Quindi, anche se basati sui fondamentali e sulle valutazioni, ci sono importanti rischi di ribasso nelle equity americane (dal 20% al 40%).

    Lo stesso discorso vale per gli equity globali: una grave recessione globale implica ulteriori rischi di ribasso negli equity globali nell’ordine del 20-30%. Perciò, la recente ripresa negli equity americani e globali è stata solamente una ripresa di un mercato in declino che è già finita – sepolta da una montagna di notizie macroeconomiche e finanziarie peggiori del previsto.

     Le perdite creditizie saranno ben superiori ai 1.000 miliardi di dollari, e vicine ai 2.000 miliardi, perché tali perdite si diffonderanno dai subprime verso i mutui ipotecari più “sani”; i prestiti sul valore reale dell’abitazione1 (e i relativi prodotti cartolarizzati); il mercato immobiliare commerciale; le carte di credito; i prestiti per le auto e per gli studenti; le estensioni di prestiti su altri prestiti esistenti; i leveraged buyouts; le obbligazioni comunali; le obbligazioni societarie; i prestiti industriali e commerciali e i credit default swap. Queste perdite creditizie porteranno ad una grave crisi del credito, data l’assenza di una rapida e aggressiva ricapitalizzazione degli istituti finanziari.

     Quasi tutti i 700 miliardi di dollari del programma TARP saranno utilizzati per ricapitalizzare gli istituti finanziari americani (banche, intermediari, compagnie di assicurazione, società finanziarie) perché l’aumento delle perdite creditizie (vicine ai 2.000 miliardi di dollari) sottintenderà che i 250 miliardi di dollari stanziati all’inizio per ricapitalizzare questi istituti non saranno sufficienti. Sarà necessario quanto prima un TARP-2, perché le esigenze di ricapitalizzazione gli istituti finanziari americani supereranno largamente i 1.000 miliardi di dollari.

     Gli spread attuali sulle obbligazioni rischiose si potrebbero allargare ulteriormente mentre uno tsunami di inadempienze colpirà il settore corporate; gli spread sulle obbligazioni sicure si sono allargati eccessivamente in relazione ai fondamentali finanziari, ma un ulteriore allargamento degli spread è possibile, guidato dalle dinamiche di mercato, diminuendo la leva e dal fatto che numerose società valutate con tripla A (diciamo, GE) non sono in realtà AAA, e dovrebbero essere declassate dalle agenzie di rating.

     Attendiamoci un disavanzo fiscale americano di quasi 1.000 miliardi di dollari nel 2009 e nel 2010. La prospettiva per il disavanzo della bilancia commerciale americana è incerta: la recessione, un aumento dei risparmi privati e una diminuzione degli investimenti, e un’ulteriore discesa dei prezzi delle commodity tenderanno a ridurla, ma un dollaro più forte, la debolezza della domanda globale e un disavanzo fiscale americano più elevato tenderanno ad aggravarla. Sulla rete, osserveremo ancora dei forti disavanzi fiscali e commerciali negli Stati Uniti – e una minore disponibilità e possibilità del resto del mondo a finanziarli a meno di un rialzo del tasso di interesse su tali debiti.

     In questo ambiente economico e finanziario, è prudente rimanere lontani dai beni più rischio per i prossimi 12 mesi: ci sono rischi di ribasso per gli equity americani e globali; gli spread sul credito – soprattutto quello più rischioso – potrebbero aumentare ulteriormente; i prezzi delle commodity scenderanno di un altro 20% rispetto ai livelli attuali; anche l’oro scenderà mentre prenderà piede la deflazione; il dollaro americano potrebbe indebolirsi ulteriormente nei prossimi 6-12 mesi mentre gli elementi dietro la recente ripresa svaniranno mentre i fondamentali a medio-termine tendenti al ribasso per il dollaro faranno di nuovo capolino; i rendimenti delle obbligazioni governative negli Stati Uniti e nelle economie progredite potrebbero diminuire ulteriormente mentre emergeranno recessione e deflazione ma, con il passare del tempo, l’impennata del disavanzo fiscale negli Stati Uniti e nel mondo ridurranno l’offerta di risparmio globale e porteranno tassi di interesse più elevati a lungo termine a meno che la diminuzione degli investimenti reale globali superi la diminuzione del risparmio globale.

    Aspettiamoci ulteriori rischi di ribasso nei beni dei mercati emergenti (in particolare, equity and debiti valutari locali e stranieri), soprattutto nelle economie con vulnerabilità macroeconomiche, politiche e finanziarie. Il denaro contante e gli strumenti simili al denaro contante (obbligazioni governative datate a breve termine e obbligazioni indicizzate all’inflazione che farebbero entrambe bene in periodi di inflazione e deflazione) domineranno la maggior parte dei beni a rischio.

    Quindi rimangono dei rischi seri e delle vulnerabilità e i rischi di ribasso per i mercati finanziari (peggiori di quanto si aspettassero le notizie macroeconomiche e le notizie sui guadagni e gli sviluppi nelle parti importanti del sistema finanziario globale) sovrasteranno, nei prossimi mesi, le notizie positive (i provvedimenti del G7 per evitare un crollo sistemico, e altre misure che, a tempo debito, potrebbero ridurre gli spread interbancari e creditizi).

    Ma diffidate, comunque, di quelli che vi dicono che abbiamo raggiunto il fondo per i beni finanziari a rischio. Gli stessi ottimisti vi avevano detto che avevamo toccato il fondo e che il peggio era passato dopo il salvataggio dei creditori di Bear Stearns a marzo; dopo l’annuncio del possibile salvataggio di Fannie e Freddie a luglio; dopo il vero salvatagggio di Fannie e Freddie a settembre; dopo il salvataggio di AIG a metà settembre; dopo la presentazione della legge TARP; e dopo gli ultimi provedimenti del G7 e dell’Unione Europea.

    In ciascun caso, gli ottimisti hanno sostenuto che l’ultima crisi e la risposta del salvataggio è stato l’evento catartico che ha indicato la fine della crisi e il recupero dei mercati. Si sono sbagliati per almeno sei volte di fila mentre la crisi – come io avevo già coerentemente previsto nell’ultimo anno – si aggravava sempre di più. Quindi, buona parte di questo eccessivo ottimismo si è dimostrato sbagliato almeno sei volte solamente negli ultimi otto mesi.

    E’ necessario un esame della realtà per valutare i rischi – e per intraprendere i provvedimenti adeguati. E la realtà ci dice che abbiamo evitato a malapena – solamente una settimana fa – un crollo finanziario totale e sistemico; che i provvedimenti sono ora finalmente più aggressivi e sistematici, e più adeguati; che occorrerà un certo periodo di tempo affinché il credito interbancario si riprenda; che sono necessari ulteriori provvedimenti per evitare il crollo e una recessione ancor più grave; che le banche centrali, invece di essere prestatrici di ultima istanza, saranno per ora, prestatrici di prima e unica istanza; che anche se evitiamo il crollo, subiremo una grave recessione negli Stati Uniti, nelle economie progredite e, molto probabilmente, in tutto il mondo , la peggiore degli ultimi decenni; che ci troviamo nel mezzo di una grave crisi finanziaria e bancaria, la peggiore dalla Grande Depressione; e il flusso di notizie macroeconomiche e finanziarie non sorprenderà di ridimensionare il tutto (come è stato durante le scorse settimane) con ulteriori rischi per i mercati finanziari.

    Per ora mi fermerò qui.

    Nouriel Roubini è docente presso la Stern Business School alla New York University e presidente della Roubini Global Economics.

    http://www.forbes.com/opinions/2008/11/12/recession-global-economy-oped-cx_nr_1113roubini.html 14.11.08

    Traduzione di JJULES

    1 Negli Stati Uniti, un prestito sul valore reale dell’abitazione [Home Equity Loan] è un tipo di prestito nel quale chi chiede denaro impegna il “valore reale” [equity] della propria abitazione come collaterale. Questo valore reale si ottiene prendendo il valore di mercato dell’abitazione e sottraendone il mutuo e i debiti in sospeso [NdT]