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In lode dell’uguaglianza

Publie le venerdì 9 novembre 2007 par Open-Publishing

Io sono un egualitarista, nel senso che credo sia insultante parlare di libertà se non c’è uguaglianza. L’espressione appiattimento, che ricorre così frequentemente con intento peggiorativo sui nostri media e sulla bocca dei politici, è per me un nobile ideale sociale il cui maggior difetto è di non essersi mai davvero concretizzato. Si, credo che le differenze tra i redditi dei cittadini dovrebbero essere minime, e quei piccoli gradini in più non dovrebbero avere lo scopo di premiare fantasiosi "meriti" che, nella migliore delle ipotesi remunerano un vantaggio genetico, e nella peggiore sono un modo di riconfermare e congelare preesistenti divisioni di classe. Il surplus di reddito dovrebbe semmai incoraggiare la gente ad accettare quei lavori più sgradevoli ed onerosi ma di cui la società ha più bisogno, e che guarda caso sono proprio quelli che oggi sono meno pagati. In alternativa, si può tornare al vecchio da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo bisogno.

L’ugualitarismo nella distribuzione delle ricchezze dovrebbe garantire l’essenziale per tutti, laddove l’essenziale è ciò di cui c’è bisogno per una esistenza serena ed appagante. L’ugualitarismo eliminerebbe il commercio della libertà pubblica, per dirla con Russeau, in cui le classi opulente acquistano e gli straccioni vendono, eliminando l’evenienza che per un privato "scendere in campo" e diventare Presidente del Consiglio per sottrarsi alle indagini della magistratura sia solo una questione di quanto denaro si riesce a spendere. Probabilmente l’egualitarismo cancellerebbe la nozione stessa di "mercato del lavoro", che riduce il lavoro ad una merce e la prestazione d’opera ad una transazione commerciale a favore di chi può acquistarla, per inaugurare un’era in cui il lavoro non è che un obbligo civile a favore della comunità che ci mantiene e che non permette che si viva nella disperazione del bisogno.

Vi sono tre ragioni perché l’egualitarismo non solo non è la realtà del nostro ordinamento sociale, ma non sembra neanche prossimo a diventarlo.

La prima è il radicato pregiudizio secondo cui il miglior modo di produrre ricchezza e assicurare il massimo di prosperità è fare affidamento sulla "naturale" avidità dell’essere umano. Secondo questa scuola di pensiero — oggi quanto mai dominante — una parte del genere umano (quella minoranza cioè che rimane quando si esclude chi deve lavorare semplicemente per sopravvivere) ricerca il "successo negli affari", sottraendo clientela ai suoi concorrenti e sforzandosi, avendo oggi guadagnato 100, di guadagnare domani 105. Il culmine di questo successo sarà quando la concorrenza sarà sbaragliata, e i propri competitori (con i loro lavoranti) saranno gettati nel fallimento e nel bisogno. La "prosperità" così acquisita avverrà al costo della distruzione di capacità produttive messe fuori mercato, ma non importa. Bisogna però ricordare che il motore passionale di questo meraviglioso meccanismo, l’avidità, per quanto naturalmente inscritto nel patrimonio biologico della specie (anche se in misura diseguale, solo ai migliori tocca la porzione più grande) può essere pervertito da malintesi sentimenti di compassione e desiderio di cooperazione con i propri simili, ed occorre quindi conferire un elevato status di prestigio al denaro e al superfluo — premio per i più avidi — per edificare le masse ed insegnare loro a diffidare dai moti benigni e compassionevoli che congiurano alla distruzione della razza. Se in Pakistan capita che in un mercato ambulante, il commerciante che ha guadagnato la sua giornata prima del tramonto del sole chiuda le sue bancarelle per permettere anche al suo concorrente di fare lo stesso, ci si premurerà di insegnare ai nostri bambini a diffidare di questi sciocchi sentimentalismi, per concentrarsi sul sentimento di orgoglio che si prova ad avere lo zainetto più bello della classe, a prendere i voti migliori e ad indovinare prima e meglio di tutti come ci si rende simpatici all’insegnante.

La seconda ragione ha a che fare con tutti coloro venuti più o meno a patti con l’esistente, ma i cui gusti raffinati o le nicchie che il sistema riserva all’opposizione di Sua Maestà inducono a prediche controcorrente rispetto alla religione di stato della competizione, del privilegio e dell’avidità. L’uguaglianza e i valori spirituali si vendono bene se abbinati ad una certa abilità mercantile. C’è chi, trattando un surrogato dell’uguaglianza come il comunismo, è diventato persino Presidente della Camera. In poche parole il Vangelo che costoro annunciano è più o meno questo: mezza pietruzza oggi, mezza pietruzza tra cento anni, una mattina ci svegliamo e ci accorgiamo di vivere in una società perfettamente organizzata su principi di uguaglianza e libertà. Occorre pazienza ed accontentarsi per il momento che quando si parla con un personaggio d’autorità non è più necessario togliersi il cappello (anche se gli stilisti, che l’hanno messo fuori moda, hanno avuto la loro parte di merito in questo rinnovamento democratico del costume). Ovviamente sono solo illusioni. Una società egualitaria si conquista come tutto il resto, definendo cioè un chiaro obiettivo ed elaborando un piano razionale per realizzarlo, ammettendo sì flessibilità di scelte durante il cammino, ma non compromessi sui principi.

Il terzo ostacolo, per me il più doloroso, è rappresentato da tutti coloro che credono sinceramente che gli uomini siano nati tutti liberi ed uguali, e che la società dovrebbe riflettere questa verità in ogni sua istituzione, ma hanno l’immaginazione così avvizzita dal roboante predominio delle opinioni contrarie, da aver perduto persino la capacità di fantasticare che quanto a loro appare giusto e desiderabile, possa anche trasformarsi in qualcosa di vero ed attuale. Costoro sarebbero dispostissimi ad iniziare il viaggio di una profonda trasformazione egualitaria della società, mettendo in discussione persino quanto nella loro posizione individuale si oppone a quell’ideale, ma l’organo politico del loro cervello che dovrebbe portarli a dare inizio a quel movimento si è atrofizzato, e il massimo che sono capaci di dire quando i loro leader appaiono in TV è "Ti prego, dì qualcosa di sinistra". Credono nell’egualitarismo, ma trovano normale che non ci sia nessun politico che vada in TV a dire che in una società ben regolata non vi sono grosse differenze nella distribuzione delle ricchezze, e che ciò va realizzato in tempi ragionevolmente brevi per assicurare a tutti, quanto prima, la felicità pubblica che discende da istituzioni che riescono a tradurre in fatto la naturale libertà ed uguaglianza di tutti. Al contrario, se qualcuno parlasse davvero così, si sospetterebbe del suo equilibrio mentale.

Fonte: http://achtungbanditen.splinder.com/