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In volo sull’America a un passo dalla fine

Publie le giovedì 27 aprile 2006 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto

CINEMA POLITICO USA Sullo schermo del Tribeca Film Festival - da oggi a New York - «United 93» di Paul Greengrass, l’11 settembre visto dal cielo

di GIULIA D’AGNOLO VALLAN NEW YORK

Il festival di cinema nato sulle ceneri del World Trade Center si apre questa sera con il primo film dedicato all’11 settembre. In una scena del suo 25th Hour, Spike Lee aveva ripreso dall’alto la voragine che si trova oggi al posto delle torri gemelle. Ma United 93, di Paul Greengrass - che inaugura il quinto Tribeca Film Festival - ha ricreato gli ultimi 81 minuti del quarto aereoplano dirottato dai terroristi, finito a schiantarsi in un campo della Pennsylvania, nei Pinewood Studios di Londra.

Una scelta che denota prudenza, circospezione. D’altra parte anche un regista poco timido come Oliver Stone ha preferito girare il suo World Trade Center (venti minuti in preview al festival di Cannes, il mese prossimo. La storia, interpretata da Nicolas Cage e Michael Pena, è quella delle ultimi due soccorritori estratti dalla macerie) ricostruendo la downtown newyorkese in un quartiere industriale di Marina Del Rey, a sud di Los Angeles, dove Howard Hughes aveva dato vita al suo gigantesco velivolo, lo Spruce Goose.

Sul fatto che la «filmabilità» dell’11 settembre sia una proposta incandescente non ci sono dubbi. Basta pensare non solo alle proteste sollevate da alcuni spettatori newyorkesi di fronte al trailer di United 93 (la Universal ha deciso però di non ritirarlo dalla sale) ma al semplice fatto che cinque anni dopo la tragedia, la città e lo stato di New York non sono ancora riusciti a trovare un accordo con l’imprenditore che controlla il sito del World Trade Center in modo da far partire il cantiere dei lavori.

Anche il museo che dovrà sorgere in loco non ha le idee ben chiare su come impostare la collezione: sta trattando con le famiglie delle vittime. E le registrazioni delle telefonate fatte quel giorno al numero d’emergenza 911 da persone intrappolate nelle torri in fiamme, che sono state rese pubbliche in occasione del processo a Zacharia Moussaoui, hanno recentemente riaperto la ferita, i punti interrogativi, il dibattito e gli empasse.

Allo stesso tempo, quei brandelli di conversazioni avvenute nel panico più totale sono mini-tasselli che contribuiscono a saldare la narrativa dello shock, come se sviscerarne ogni possibile dettaglio potesse darle più senso. E così come hanno ossessivamente fatto per i mesi successivi all’11 settembre le minuziose storie di ricostruzione apparse sul New York Times e, anni dopo, il paziente lavoro della 9/11 Commission, la scommessa di United 93 si basa sulla possibilità di evocare una cronologia per lo più di fatti di cui, in effetti, non si può sapere molto.

Per coincidenza, sull’ultimo numero del settimanale New Yorker, Martin Amis ha immaginato una ricostruzione di segno opposto: le ultime ore dei terroristi Muhammad Atta e Abdulaziz al Omari, prima di salire a bordo del volo American 11, destinato a colpire la torre nord del World Trade center.

Non è stato l’action thriller The Bourne Supremacy a far sembrare l’inglese Paul Greengrass adatto a questo progetto, bensì il film che (dopo una serie di documentari realizzati per la Bbc) lo ha preceduto e lo ha lanciato negli States, Bloody Sunday, uno spaccato asciutto, girato in stil documentario nervo/virtuoso, sul massacro di un gruppo di giovani dimostranti irlandesi avvenuto a Derry nel 1972.

È con quella sensibilità «non committal», quella drammaturgia sobria, che Greengrass ha affrontato United 93, di cui è anche sceneggiatore (ma il copione era una traccia, i dialoghi sono stati quasi tutti improvvisati durante le riprese, ha raccontato il regista).

In più, Greengrass ha voluto attori sconosciuti, o non attori (parecchi sono ex piloti, personale di volo..) a popolare il cast. Ben Sliney, che la mattina dell’11 settembre 2001 esordì alla direzione del comando centrale di controllo delle Federal Aviation Administration, in Virginia, interpreta se stesso. A sottolineare le intersezioni tra fiction e realtà che si accavallano nel film, il press book arriva corredato non delle biografie degli attori ma delle quaranta persone - passeggeri ed equipaggio - che erano a bordo del volo 93 diretto dall’aeroporto di Newark, in New Jersey, a San Francisco.

Alcune di quelle biografie sono lunghe ed elaborate, firmate dai familiari delle vittime. Prima di iniziare il film, Greengrass ha infatti scritto a tutte le famiglie chiedendo la loro collaborazione e, durante la lavorazione, si è tenuto in contatto con loro aggiornandoli attraverso un sito internet cui si poteva accedere con una determinate password.

La prima immagine di New York che apre il film, ancora la buio, è quella dello skyline di Manhattan su cui si stagliano le Twin Towers. Un’immagine che (come la chiusura di Gangs of New York di Scorsese, che è il primo vero film sull’11 settembre) spezza il cuore.
Ma la scelta drammatica che ti colloca nella giusta sintonia emotiva è, subito dopo, quella del tempo reale (o quasi). Nella luce splendente di quella mattina vediamo passeggeri e terroristi recarsi all’aeroporto di Newark. Una giornata come un’altra, tempi morti e tutto. Contrariamente al brutto telefilm andato in onda l’inverno scorso sulla rete cavo A&E, Flight 93, che enfatizzava i nomi, il coraggio e la presenza di certi passeggeri e dava ampio spazio alle reazioni dei loro familiari raggiunti dall’aereo via cellulare a casa, Grengrass sceglie un taglio molto più «anonimo» e divide le cronologia di ciò che succede sull’aereo con quanto percepito sui monitor dei vari centri di controllo (a Boston, New York, Cleveland... più quello centrale di Herndon, in Virginia).

Quello che sanno loro di quanto sta succedendo sugli altri voli dirottati - ovvero pochissimo - è quello che sappiamo noi. Alla base militare del Northeast Defense Sector, di Rome, nello stato di New York, l’aviazione è ancora più confusa (ogni informazione arriva loro in ritardo o distorta, gli F14 partiranno alla volta dell’Oceano Atlantico, invece che diretti a New York e Washington. Sarà Sliney a decidere da solo di portare a terra i 4500 voli commerciali in aria al momento degli attentati).

E, con questo corto circuito di luoghi Greengrass evoca molto bene il senso di tempo sospeso, di totale impossibilità e totale frustrazione che quel giorno - speso a guardare il cielo di un blu mai visto - sentimmo tutti. E, con due pennellate veloci (quando il presidente e il suo vice ma anche la leadership al Pentagono risultano introvabili), dal suo film emerge anche lo sconcertante vuoto di leadership che caratterizzo quella manciata di minuti e le ore immediatamente a seguire.

Soli - un’emozione dominante - sono anche i passeggeri a bordo di United 93. La loro storia immaginaria (eccetto che quello che si è ricostruito da alcune telefonate e dai contenuti della scatola nera) è raccontata senza fronzoli: i terroristi sono seduti in prima classe, i due piloti e un passeggero di prima sono i primi ad essere uccisi. Poco dopo è la volta di una hostess.

Alla cabina di classe economica arrivano urla e rumori di collutazione, poi un terrorista appare con legata al petto quella che ha tutta l’aria di una bomba. «Non preoccupatevi. È un dirottamento. Stiamo tornando all’aeroporto» dicono gli arabi. Ma, dai telefoni di bordo, i passeggeri capiscono presto che non è vero.

La decisione di prendere il proprio destino in mano, attaccare i dirottatori, è confusa, non necessariamente unanime, non necessariamente lucida. Ed è un’operazione sul tempo anche l’ultima sequenza in cui Greengrass mette in scena il tragitto dei passeggeri - armati di acqua bollente, posate e del carrello delle bevande - dalla parte posteriore dell’aereo alla cabina di comando dove irrompono prima che l’aereo precipiti al suolo.

Girati in poco più di una sola inquadratura, sono istanti sanguinosi, brutali, non sempre decifrabili ma che soprattutto sembrano eterni. L’eternità che esiste tra il momento in cui, in una situazione come quella, decidi di tentare il tutto per tutto e quello in cui capisci di stare morendo.

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