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Informazione e guerra, la libertà di stampa non abita più qui

Publie le mercoledì 7 marzo 2007 par Open-Publishing

Il difficile compito di raccontare un conflitto e le censure sui fatti. E’ il mondo dei media occidentali che preferisce nascondere piuttosto che confrontarsi
Informazione e guerra, la libertà di stampa non abita più qui
di Sabina Morandi
rmai è un dato di fatto: nell’era
dell’informazione in
tempo reale la censura regna sovrana.
L’ultimo episodio riguarda
le due stragi di civili in Afghanistan
e il comportamento del comando
Usa che ha ordinato il sequestro
e la distruzione delle immagini
raccolte dai giornalisti
presenti. Che non sia un caso isolato
lo dimostrano i numerosi
episodi degli ultimi anni, dal
bombardamento della sede di Al
Jazeera di Kabul, nel 2001, alla
cannonata contro l’hotel Palestine
di Baghdad, per non parlare di
quel tentativo di controllo su larga
scala che è la pratica del giornalismo
embedded, inaugurata
dal Pentagono con l’attacco all’Iraq.
Sull’informazione tira insomma
una brutta aria se, come
scrive il famoso reporter di guerra
Robert Fisk «i militari giocano a
O
fare i giornalisti e i giornalisti giocano
a fare i soldati», felici di indossare
le divise mimetiche e di
sottoporre i propri servizi al vaglio
delle autorità militari.
Le conseguenze, come fa notare
lo stesso Fisk, sono molteplici.
Prima di tutto la mancanza di
informazioni attendibili sulla dura
realtà dei conflitti in corso è pericolosa
per i nostri stessi soldati,
che sbarcano in paesi descritti
come pacificati per ritrovarsi nell’incubo
della guerra di tutti contro
tutti. Perché la censura occidentale
riguarda solo noi che, all’interno
di quel fortino dorato
che sono i nostri paesi, non siamo
consapevoli delle stragi che vengono
compiute in nostro nome.
Sì perché gli altri – i nemici – le immagini
le vedono eccome. Alla
progressiva chiusura della stampa
occidentale si è infatti accompagnato
il boom del giornalismo
arabo che vede in Al Jazeera il caso
più noto. Formati alla scuola
anglosassone, i giornalisti dell’emittente
satellitare del Qatar
hanno trasmesso immagini che
le televisioni occidentali tentavano
con ogni mezzo di tenere lontane
dai propri teleschermi. Durante
l’attacco all’Afghanistan,
nel 2001, le grandi testate occidentali
ritirarono i loro corrispondenti
dal paese e la favola dei
bombardamenti chirurgici riuscì
a reggere per qualche settimana.
Ma le immagini dei corpi dilaniati
dalle bombe a grappolo fecero lo
stesso il giro del mondo e alla fine
anche Cnn e Bbc furono costrette
a comprare le riprese di Al Jazeera.
L’emittente fu premiata con la
conquista di una fetta di mercato
che, 5 anni dopo, può mettere a
frutto con il lancio di un canale in
lingua inglese. Oggi, se volete vedere
qualche immagine della vita
quotidiana in Iraq, dei bombardamenti
Usa sui villaggi somali o
del tiro al palestinese nella striscia
di Gaza, è Al Jazeera che dovete
guardare.
La censura quindi manifesta il
suo principale difetto proprio
nella sua incapacità di interagire
con i meccanismi della globalizzazione.
Paradossalmente i teorici
dello scontro di civiltà non fanno
i conti con il fatto che le informazioni
arrivano proprio dove è
più pericoloso che arrivino, cioè
ai nostri “nemici”, lasciando gli
“amici” a chiedersi sconsolati
«ma perché ci odiano tanto»? Il
che dimostra che il vero scopo
della censura preventiva non sono
tanto i cuori e le menti di quelli
che siamo andati a liberare ma
l’opinione pubblica dei paesi democratici,
che va tenuta all’oscuro
sulle reali condizioni dei paesi
in cui stanno mandando i propri
figli. Gli “altri”, i nemici della civiltà
e della democrazia, sono invece
perfettamente informati sui
nostri “errori” e sui “danni collaterali”
dei nostri bombardamenti
chirurgici, grazie alle innumerevoli
televisioni e giornali in lingua
araba che stanno spuntando uno
dopo l’altro.
Lasciamo agli storici il difficile
compito di spiegare com’è possibile
che la patria del libero giornalismo
– l’Occidente – si stia trasformando
nella sua tomba. Possiamo
solo concordare con Fisk
quando afferma che il cambiamento
è avvenuto con la complicità
degli stessi operatori dell’informazione
allettati dalla vita
comoda e sempre più restii ad
«accarezzare il potere contropelo
» per utilizzare l’espressione di
Anna Politkovskaia, giornalista
che ha pagato con la vita la propria
professionalità. C’è da dire
che la figura del reporter di guerra
è sempre più rara, e non è solo il
coraggio a difettare: sono le redazioni
stesse che preferiscono stipendiare
dei giornalisti locali –
ben più economici - piuttosto che
puntare sulla formazione dei
propri giovani, e sono infatti i
giornalisti locali a morire. Sì perché
la censura ha un triste corollario:
che siano embedded confusi
con il nemico o testimoni scomodi
da far tacere, i giornalisti sono
entrati nel mirino degli uomini
in armi.
Lo testimonia una ricerca condotta
dall’International News Safety
Institute di Bruxelles, un’associazione
di organi dell’informazione.
Dal rapporto diffuso ieri
risulta infatti che negli ultimi
dieci anni sono morti più di mille
fra giornalisti e personale di supporto,
con Iraq e Russia in cima
alla lista dei paesi più pericolosi.
Il 2006, secondo il rapporto, è stato
l’anno più sanguinoso, a dimostrazione
del fatto che il tiro al
giornalista è uno sport sempre
più diffuso. «In molti paesi» ha dichiarato
Rodney Pinder, direttore
dell’Istituto «l’omicidio è diventato
il modo più facile e più economico
per mettere a tacere notizie
scomode». Dal rapporto risulta
anche che la maggior parte delle
vittime erano del posto e che
raramente - un caso ogni otto –
vengono avviate delle inchieste.
Secondo Tom Curley, presidente
dell’Associated Press, «lo studio
dimostra quanto sia diventata
pericolosa la ricerca delle notizie
ma anche quanto insignificanti
siano gli sforzi tesi a ottenere giustizia
per i giornalisti feriti o perseguitati
mentre lavorano per tenere
informato il mondo».

http://www.liberazione.it/giornale/070307/default.asp