Home > Intervento di Maria Campese al VII Congresso nazionale del PRC
Intervento di Maria Campese al VII Congresso nazionale del PRC
Publie le mercoledì 30 luglio 2008 par Open-PublishingIntervento di Maria Campese al VII Congresso nazionale del PRC
di Maria Campese
Siamo tutti consapevoli della difficoltà di questo congresso.
Un congresso che si svolge all’indomani di una sconfitta elettorale epocale; con un governo delle destre xenofobo e razzista; con il neo-eletto Presidente della Camera che ha affermato che l’uccisione di Nicola Tommasoli da parte di 5 neonazisti è meno grave dell’atto compiuto di bruciare alcune bandiere di Israele; con l’attacco ai campi rom e la schedatura dei bambini rom che rimandano alle leggi razziali; con l’arretramento delle condizioni di vita di milioni di persone, con la crisi che è diventata ormai della seconda settimana; con la strage continua sui luoghi di lavoro; con il progetto di vita negato a milioni di giovani precari; con l’attacco ai diritti delle donne.
In questo scenario si svolge il nostro congresso, che ha in più la particolarità che nessun documento ha raggiunto la maggioranza assoluta.
Quindi, l’impegno che ci viene consegnato oggi, a tutti noi, è: rilanciare Rifondazione Comunista e ricostruire la sinistra, politica e culturale.
Cosa serve per questo progetto?
Partiamo da ciò che abbiamo.
In questo congresso ho girato per i circoli e per le federazioni, e ciò che mi ha colpito è stato da una parte il livello dello scontro politico, la violenza del confronto, la personalizzazione del dibattito, l’esposizione mediatica, e dall’altra la disillusione e lo sconforto del corpo del partito.
Sono emersi, come nervi scoperti, elementi di disgregazione di quello che abbiamo definito senso di appartenenza ad una comunità.
Già nella Conferenza d’Organizzazione di Carrara ci eravamo posti il tema della nostra auto-riforma; avevamo acceso i riflettori sui nostri limiti, le nostre difficoltà, le nostre contraddizioni.
Voglio citarne alcune:
il proporsi come unitari all’esterno, come aggreganti per tutta la sinistra, e l’incapacità al dialogo interno, a tenere insieme le diverse sensibilità politiche interne a Rifondazione Comunista;
il contestare la vocazione maggioritaria nelle gestioni di governo e perseguire queste logiche nella gestione interna;
il combattere il pensiero unico, e vivere come disvalore i punti di vista politici diversi.
Il compagno Burgio, ieri, nel suo intervento, ha affermato che “ci siamo fatti del male non solo in questo congresso, ma anche prima; ciò avviene da tempo”.
Lo condivido.
Quale sfida deve allora vincere Rifondazione Comunista?
riuscire a tenere insieme le diverse sensibilità politiche, facendole diventare semi della ricostruzione della sinistra in Italia;
assumere la consapevolezza che nessun progetto di ricostruzione della sinistra può essere portato avanti sull’intolleranza, la discriminazione, quello che è stato definito l’odio tra di noi, che dovremmo essere quelli che a sinistra sono più vicini politicamente.
Con quale spirito ci proponiamo come motore della ricostruzione della sinistra, in Italia ed in Europa?
Siamo veramente convinti:
che si possa rifondare il comunismo abiurando la storia dei comunisti?
che si possa ricostruire l’unità esterna a partire dal venir meno della solidarietà interna, della tensione anche emotiva che ci fa sentire appartenenti alla stessa comunità?
Credo che non tutti abbiamo un dovere nei confronti delle classi sociali che intendiamo rappresentare: dotarci di uno strumento, il partito, che sia motore non solo organizzativo ma anche politico,
capace di mettere in campo l’opposizione politica e sociale al governo delle destre, che sappia costruire vertenze e stare nei movimenti;
che abbia un radicamento sociale per troppo tempo eluso;
capace di alludere ad un’alternativa di società;
capace di costruire le più ampie convergenze con tutte le forze della sinistra d’alternativa per rendere più incisiva l’opposizione sociale;
che sappia vincere la sfida di una nostra riconnessione sentimentale con il nostro popolo.
Per fare questo, compagne e compagni,
dobbiamo uscire da questo congresso con l’umiltà di chi non ha la verità in tasca, di chi non ha soluzioni salvifiche, che il tutto non può ridursi, come nelle società per azioni, alle quote societarie di cui si è detentori. Quando parliamo di democrazia interna e di capacità di sintesi cosa intendiamo? Una conta di numeri o il cogliere la richiesta di una comunità ferita, fiaccata nello spirito e nel corpo, di ricominciare, di sperare in un cambiamento, di avviare il percorso di costruzione di una società diversa?
Ma ritengo che ciò vada fatto anche a partire dall’orgoglio di sentirsi comunisti in quanto protagonisti del processo di cambiamento dello stato di cose presenti; comunisti che non si vergognano della propria storia e della propria cultura politica, ma che, al contempo, puntano sulla innovazione; capaci di interpretare le modificazioni del modo di produzione capitalistico; che accolgano l’idea e la pratica del femminismo, l’internità ai movimenti, il rifiuto dell’autosufficienza e dell’avanguardismo.
Per questo progetto dobbiamo avere la consapevolezza che va salvaguardata l’esperienza politica che rappresenta Rifondazione Comunista, consapevoli della nostra non-autosufficienza e della nostra inadeguatezza.
Dobbiamo ripartire da ciò che è stato deciso nella Conferenza d’Organizzazione di Carrara, condiviso da una maggioranza molto ampia del partito.
Dobbiamo impegnarci alla gestione unitaria del partito, facendo ognuno un passo indietro per poter fare tutti insieme due passi avanti.
Dobbiamo impegnarci a mantenere unito il partito, a ricostruire il senso di comunità che si è perso; ad essere laboratorio politico mantenendo una forte caratterizzazione politica, non rinunciando al nostro radicalismo.
Nelle nostre mani, in quanto delegati al congresso, è stata consegnata una grande responsabilità: governare una nave nella tempesta.
Mi auguro, per tutti noi, di essere in grado di superare questo difficile momento, anche a partire dalla messa in discussione di noi stessi.