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Intervento di Simone Oggionni al VII Congresso nazionale del PRC

Publie le martedì 29 luglio 2008 par Open-Publishing

Intervento di Simone Oggionni al VII Congresso nazionale del PRC

di Simone Oggionni

Cari compagni,
voglio dire – come già altri hanno fatto prima di me – che c’è un punto che la nostra discussione non può eludere, non può evitare di affrontare. È un dato che la nostra onestà intellettuale ci impone di riconoscere e di nominare prima di qualunque altro.

Il cuore di questo nostro congresso è stato il confronto tra due progetti diversi: quello di chi proponeva di rilanciare il Partito della Rifondazione comunista e di ricostruire, a partire da esso, il campo della sinistra alternativa e quello – per molti versi opposto – di chi proponeva di mettere il nostro partito al servizio di un progetto più ampio di costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra. Mi riferisco evidentemente alla cosiddetta «costituente della sinistra» che, nei giorni scorsi, ha preso anche il nome di «processo costituente» a cui anche oggi Bertinotti ha fatto cenno, parlando con grande chiarezza di una «nuova forza della sinistra italiana».

Bene. Qual è il dato di fondo? Il dato di fondo è che questa seconda ipotesi non solo è stata sconfitta dalle elezioni, e dal fatto che tre milioni di nostri elettori hanno deciso di non votare e di non riconoscersi nel cartello della Sinistra l’Arcobaleno ma è stata sconfitta anche da questo nostro congresso. Il dato di fondo è che, a maggioranza, la proposta della costituente della sinistra è stata sconfitta. Ma non lo dico con risentimento, lo dico per registrare un dato di fatto, perché ne sono prova tanto gli intendimenti espressi in diversi e autorevoli interventi di compagni della seconda mozione quanto il giudizio che Claudio Fava ha consegnato alla stampa proprio ieri, un giudizio di profonda delusione per il passo indietro che ha dovuto registrare sul terreno della costituente.
E quel progetto, come è logico che sia, oggi non è più in campo.

Questo congresso sancisce quindi che il partito è un bene non disponibile, un soggetto vivo e che vuole continuare a esistere, per l’oggi e per il domani, con la sua sovranità, la sua autonomia organizzativa e la sua indipendenza politica, strategica e teorica.

Lo hanno sancito la maggioranza dei circoli, la maggioranza delle federazioni, la maggioranza delle regioni del nostro Paese; lo ha sancito il fatto stesso che anche le mozioni la cui proposta politica manteneva elementi per così dire di opacità e di ambiguità sul piano della tenuta e della sussistenza del partito hanno posto sempre più l’accento, via via che il congresso progrediva, sul rafforzamento del partito, sul suo essere elemento essenziale, indispensabile e non solo elemento strumentale.

Lo ha sancito – consentitemelo – il fatto che in decine e decine di circoli e di congressi federali è stato approvato un ordine del giorno con il quale i giovani comunisti hanno affermato senza reticenze che per loro l’innovazione, la formazione, l’identità, il conflitto sono termini e concetti validi solo a condizione che l’organizzazione dei giovani comunisti e delle giovani comuniste sia rafforzata, rilanciata, ricostruita e non diluita o dilapidata in un indistinto spazio generazionale della sinistra diffusa.

E ancora, infine, il fatto che decine e decine di circoli e di congressi federali hanno sentito il bisogno di votare proposte di modifica dello statuto che mettessero sotto tutela il patrimonio del partito, le sedi e che rendessero concretamente più impervio un eventuale tentativo di sciogliere il partito. Anche questo timore così diffuso va rispettato, io credo, nella nostra discussione.

Oggi con questo dato tutti noi dobbiamo fare i conti: il partito non si scioglie né si supera. Il partito si deve ricostruire, riorganizzare, radicare nei territori, nei luoghi di lavoro, nei luoghi del conflitto. Diceva bene Dario Salvetti: bisogna tornare davanti alle fabbriche. Io aggiungo: bisogna esserci nelle fabbriche, non per portare il verbo dell’avanguardia (questa innovazione la condivido, come elemento di autocritica rispetto ad un’idea di identità chiusa e autoreferenziale) ma per essere realmente partito del conflitto, partito della classe, un partito che diventa in questo senso un partito a vocazione sociale.

E quando questa mattina ci si è chiesti come mai avessimo subiti i fischi degli operai davanti a Mirafiori, ritengo che sia una domanda legittima a cui cerco di dare una risposta: forse perché abbiamo disatteso per un anno e mezzo tutte le promesse che avevamo fatto in campagna elettorale? Forse perché il 20 ottobre ce lo siamo scordati, e abbiamo fatto altro rispetto a quello che ci chiedeva il nostro popolo, rispetto alle istanze di cambiamento, di equità, di giustizia sociale che ci provenivano dal nostro partito.

E allora il partito deve rilanciarsi ponendo di fronte a sé alcuni obiettivi, che noi in larghissima parte qui dentro condividiamo. La nostra proposta non è di rottura, di buon senso, e che parla a gran parte del corpo del partito.

Presentiamo, in primo luogo, le nostre liste alle prossime elezioni europee, quantomeno per mettere di fronte alla prova dei fatti quei compagni – e io sono tra questi – che avevano espresso da subito forti perplessità sulla Sinistra l’Arcobaleno proprio in relazione all’assenza – all’interno di quel cartello – di un profilo programmatico chiaro e di una identità politica pienamente leggibile.
Poi prendiamo sul serio gli impegni che abbiamo assunto tutti insieme a Carrara, non solo ad indicare la necessità di una svolta morale non solo nel Paese ma anche nel partito (penso alla questione dei doppi incarichi, alla burocratizzazione, alle derive istituzionaliste) ma anche ad indicare l’obiettivo politico che Carrara poneva: e cioè il rilancio del partito e la costruzione del campo ampio della sinistra unitaria e plurale.
E pratichiamo, infine, quello che io sento come un vero e proprio assillo, perché tocca il profondo della mia e della nostra cultura politica: la gestione unitaria e collegiale e cioè la ricerca di un filo rosso, di un punto avanzato di mediazione, di un dialogo continuo che tenga conto delle differenze e che finalmente le valorizzi (e che non le consideri, come è stato in questi anni, un impiccio, il piombo nelle ali di cui liberarsi speditamente). E la gestione unitaria significa innanzitutto una cosa: la pratica della democrazia, in nome della quale non dovrà essere più possibile pensare di gestire il nostro partito con il 51%. Questo – compagni - è stato uno degli errori più imperdonabili del congresso di Venezia, quella protervia autistica e iper-maggioritaria secondo la quale avere un voto in più dell’altra parte produceva immediatamente il 100% degli organismi dirigenti, il 100% della linea politica, il 100% dell’apparato, il 100% delle candidature.

Oggi noi dobbiamo cambiare rotta, svoltare a sinistra, come si è detto.
E possiamo farcela, facilitati da un contesto oggettivo (penso ai numeri, a quel 47% e a quel 40% di cui tanto stiamo parlando in questi giorni) che ci costringe, anche se non lo volessimo, a ricercare un punto di convergenza. E a dimostrare che sono più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono, e che la conferma della nostra comune appartenenza al medesimo partito è più forte di qualunque tentazione autoreferenziale, di qualunque proclamazione di autosufficienza.
Fino ad ora non è stato così, perché il 40% intonava Bandiera rossa al termine dell’intervento di Paolo Ferrero e il 47% lo fischiava!

A lavorare per una ricomposizione unitaria del partito, ce lo chiede la realtà arida dei rapporti di forza al nostro interno ma - badate compagni - ancora di più ce lo chiede disperatamente la sinistra del nostro Paese, ce lo chiedono i lavoratori, i proletari, quelli per i quali sarebbe letale che il nostro congresso si concludesse con la presa d’atto dell’incompatibilità e della incomunicabilità tra noi ed altri, tra due muri contrapposti, tra due eserciti schierati simmetricamente l’uno contro l’altro.

Ecco, è anche per questo (forse è in primo luogo per questo) che io non voglio assumermi la responsabilità di spaccare questo partito, di lacerare di nuovo, e questa volta in maniera irreversibile, la comunità di cui tutti noi facciamo parte.

E lo dico anche ai giovani comunisti, e in particolare a coloro dei quali non ho condiviso in questi mesi e in questi anni una linea politica che a mio avviso conteneva le stesse opacità che, per quanto riguarda il partito, questo congresso ha sancito sconfitte. Lo dico a Betta, lo dico a Federico: ricostruiamo insieme i giovani comunisti, ma non a partire dai nostri recinti, ma a partire dal fatto che noi, tutti insieme, siamo orgogliosi di essere comunisti, figli sicuramente minori di una tradizione, di una storia e di una cultura che ha costruito la democrazia nel nostro Paese, strappandolo dalla dittatura fascista, e che ha lottato dentro il movimento di classe per la democrazia e per la libertà. Siamo orgogliosi di essere comunisti, orgogliosi di essere comunisti.

E dobbiamo ricostruire tutti insieme i giovani comunisti, prima che la destra corroda irreversibilmente le scuole, le università, i luoghi del lavoro precario e subordinato, la cultura profonda del nostro Paese e della nostra generazione. Convochiamo in tempi rapidi una grande assemblea programmatica nazionale, diamo corpo alle richieste che ci provengono dai territori, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, e rimettiamo in piedi un partito e un’organizzazione, oggi così fragili, oggi così disorientati ma di cui abbiamo ancora, tutti, terribilmente bisogno. Grazie.